lunedì 11 marzo 2019

La solitudine del ramarro in vetta alla classifica


E' dalla stagione 2011/2012, l'ultima in cui sono stato titolare di un abbonamento alla Beneamata, con relativi avanti-e-indré da 760 km a botta ogni due settimane tra la Furlanìa e San Siro a Milano, che non mi occupo, se non sporadicamente, di cose calcistiche su questo blog: l'ultima volta è stata una vignetta in occasione dello storico incontro, proprio al Meazza il 12 dicembre di due anni fa, tra Inter e Pordenone, due squadre che hanno in comune il fatto di non essere "mai state in B" e di spartirsi il mio cuore di tifoso. Già: i ramarri, saliti agli onori delle cronache nazionali proprio in quell'occasione quando, per i quarti di finale di Coppa Italia, costrinsero al pareggio nei tempi regolamentari la blasonata squadra nerazzurra e furono eliminati soltanto ai rigori: decisivo fu quello calciato da Yuto Nagatomo (un giocatore giapponese tecnicamente non eccelso però intelligente ed esemplare dal punto di vista dell'impegno e della serietà in campo e fuori: uno così di Icardi ne vale dieci, tanto per chiarire come la penso sulla pietosa e imbarazzante telenovela in atto in casa Inter). E' dall'anno successivo al Triplete che la Beneamata non mi dà soddisfazioni che non siano occasionali; d'altro canto, saltando gli impegni meneghini allo stadio, mi era venuto meno anche il contatto col campo: per chi ha frequentato le gradinate fin dalla più tenera età, a maggior ragione nella Scala del calcio, e praticato il gioco del balùn per quanto a livelli infimi e puramente amatoriali ma con passione, l'atmosfera di una partita dal vivo, con l'odore del prato, l'imprevedibilità degli agenti atmosferici; le voci, la visuale completamente diversa da quella televisiva, sono tutti elementi alla fine imprescindibili. E così ecco il Pordenone. Ma perché? Perché proprio lui? E non l'Udinese, che è la squadra del Friûl per definizione? E quindi della Piciule Patrie di cui è originaria la mia famiglia paterna, e dove mi sono trasferito ormai da 18 anni? Il tifo segue percorsi misteriosi, ma anche una sua logica e alcune costanti. Da piccolo, in età d'asilo, quando risalgono i miei primi ricordi, anche per condizionamenti famigliari, tra le due squadre della città in cui sono nato e vivevo, simpatizzavo per il Milan, ma già allora non "antipatizzavo" per l'Inter, anzi: mi incuriosiva, perché per i nerazzurri tifavano sia i miei parenti più giovani, sia le persone più "strane" (e simpatiche, francamente) che gravitavano attorno al mio ambiente, in particolare persone legate a quello artistico e dello spettacolo. Allo stesso modo, in Argentina, sono sempre stato del Boca e avverso al River. Chi non reggevo era la Juventus: il primo episodio di cui ho memoria fu il 9-1 che la squadra degli Agnelli inflisse maramaldescamente il 10 giugno del 1961 a un'Inter che schierava per protesta una rappresentativa giovanile in un "recupero": il gol della bandiera lo segnò Sandro Mazzola, figlio di Valentino (il Capitano del Grande Torino). Un predestinato, che iniziò e finì una carriera formidabile con la Beneamata. Il secondo che fu decisivo a spostarmi sul lato baùscia, fu lo spareggio per lo scudetto del 1964 che si giocò contro il Bologna a Roma, sempre in giugno il giorno 7, con l'Inter fresca vincitrice della Coppa dei Campioni 10 giorni prima a Vienna col Real Madrid. In entrambi i casi si trattava di una situazione poco chiara, che nella mia dimensione infantile già percepivo come sopruso, una prepotenza, e che aveva a che fare con la correttezza sportiva. Diventai definitivamente interista allora. Non da vincente, troppo facile: così fan tutti, a cominciare dagli juventini; ma da perdente. Una vita di sofferenze ma anche di gioie inenarrabili: alti e bassi, come si presentano nella vita di tutti i giorni, ma sempre certi di fare la cosa giusta e, soprattutto, di trovare conforto nel tuo compagno di fede, sicuro di stabilire con lui una sintonia impossibile da trovare con altri. Perché l'interismo è una condizione mentale: un modo di vedere il calcio ma non solo. Lo dico per spiegare il mio avvicinamento al Pordenone, e non ad altri. E c'entra solo fino a un certo punto l'origine pordenonese di un lato della mia famiglia paterna. Innanzitutto i colori sociali: il nero e i verde che ripropongono pari pari quelli del glorioso AC Venezia 1907, che era la squadra (città dov'è nata mia nonna paterna e in cui a lungo ha vissuto mio padre) per cui sarei stato perfino in grado di tradire l'Inter, e una volta lo feci, nel 1967, il 16 di aprile, quando la Beneamata uscì dal Sant'Elena con un 3-2 indecoroso perpetrando un furto quasi in stile sabaudo. Con disappunto avevo visto la fusione della gloriosa società con la Mestrina, che portò all'aggiunta dell'arancione alle sue maglie. Bon: il Pordenone, squadra di serie inferiori, veleggiante tra le D e la C, e decisivo è stato assistere dal vivo, al Franchi di Firenze, all'autentico furto perpetrato a favore del Parma nella semifinale dei playoff di Lega Pro del 13 giugno del 2017, e che rappresenta una città con Venezia ha un legame speciale, così come Sacile, e che la rende un'enclave di lingua veneta in terra friulana, ne ha conservato il colori. Che avranno pure una ragion d'essere, nelle scelte del tifoso: non sarà mica un caso che abbia un'avversione per le divise bianconere, che peraltro evocano già da sé, al di là di una discutibile estetica optical,  una visione semplicistica e binaria della realtà. Avrei potuto dirottare su Udine, dalle parti della Dacia Arena, le mie elucubrazioni e attenzioni calcistiche: una squadra in Serie A da decenni, appartenente comunque all'élite del calcio. E invece no; non solo le sue maglie a righe bianconere mi risultano repulsive, ma anche la sua tifoseria riesce a essere mediamente sullo stampo di quella juventina. Piuttosto la Triestina, squadra di una città cosmopolita improvvidamente eletta a capoluogo di una Regione, il Friuli-Venezia Giulia, inesistente. Che con Pordenone ha più affinità che motivi di contrasto. A cominciare dalla parlata, che è una variazione del veneziano. Checché ne pensi un certo numero, fortunatamente minoritario, di infiltrati udinisti nelle file della tifoseria neroverde. Ieri sera allo Stadio Nereo Rocco del capoluogo giuliano, scontro al vertice e una dimostrazione: applausi e considerazione sincera da parte della tifoseria locale che di calcio ne capisce, davanti a una squadra che, sconfiggendo i paroni de casa, secondi in classifica con dieci punti di distacco, protagonisti comunque di una prestazione orgogliosa, si avvia a salire per la prima volta nella sua storia in Serie B. Il mio augurio è che, da ora in poi, a seguire i Ramarri e le loro eccellenze giovanili, ci siano una città e una provincia che ne abbiano captato il messaggio: si può fare, ed essere presi sul serio. 

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