"La douleur" di Emanuel Finkiel. Con Mélanie Thierry, Benoît Magimel, Benjamin Biolay, Shulamit Adar, Gregoire Leprince-Ringuet, Emmanuel Bourdieu e altri. Francia, Belgio, Svizzera 2017 ★
Ignoro quali siano state le intenzioni che hanno animato Emmanuel Finkiel a trasporre sullo schermo il romanzo autobiografico, di cui al titolo, di Marguerite Duras, che la scrittrice asseriva ricavato da un suo diario risalente al 1945 e dimenticato per anni, pubblicato nel 1985, in cui racconta l'attesa spasmodica del ritorno del marito Robert Antelme, uno dei massimi esponenti della Resistenza francese, dal campo di concentramento nazista di Dachau, intrisa di sensi di colpa per averlo costantemente tradito col migliore amico di lui, Dyonis Mascolo. Se credeva di celebrare la Duras ha toppato di brutto, se invece l'ha mosso un disprezzo recondito per un personaggio comunque scomodo, discusso e discutibile, ha raggiunto lo scopo perché c'è riuscito alla perfezione, grazie anche a una notevole performance di Mélanie Therry, che riesce a renderla odiosa al punto che difficilmente qualcuno, sano di mente, verrebbe indotto, dopo aver visto il film, a leggere il libro, se non l'ha già fatto prima, a meno di non essere un masochista affetto da Sindrome di Tafazzi. In ogni caso il risultato è una pellicola spaventosamente pallosa, pretenziosa, verbosa (ci mancava solo la voce narrante dell'autrice) e se solo avessi letto la scheda biografica del regista, già assistente di Godard e di Kieslowski, due campioni assoluti dell'onanismo intellettualoide, giammai mi sarei avventurato in sala a vederlo e recito quindi il mea culpa. Finkiel descrive la Duras in preda a un delirio solipsista che aumenta man mano di intensità quanto più si avvicina il ritorno di Antelme dalla deportazione: dapprima non esita a intraprendere un rapporto ambiguo con il funzionario collaborazionista della Gestapo Rabier per avere notizie del marito, e qui la Thierry si produce nell'unico sorriso, a denti stretti e sghembo, mentre flirta con lui, in 127 minuti di film: per il resto conserva una truncia insopprimibile, perfettamente in linea con un atteggiamento da un lato supponente e dall'altro vittimista che la rende insopportabile al suo stesso ambiente di intellettuali snob. Il dolore di cui discetta l'autrice è completamente autoriferito, causato non dalla circostanze esterne o dalle sofferenze altrui (si parla di una guerra che ha fatto decine di milioni di morti, nonché delle persecuzioni subite dagli ebrei), cui risulta completamente indifferente, essendo del tutto incapace di empatia nei confronti del prossimo: il dolore altrui viene preso in considerazione unicamente se funzionale a giustificare il proprio malessere, dovuto esclusivamente a sue libere scelte, di cui peraltro è restìa a prendersi la responsabilità fino in fondo, o almeno questa è l'impressione che se ne ricava da questa pellicola. Con queste premesse, come dicevo, non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello approfondire la questione di cosa intendesse o meno la Duras sull'argomento. Oltre alla prolissità tipicamente francese del tutto, mettiamoci anche la confezione formale, piena di espedienti ridicoli come l'applicazione di lenti sfuocate alla cinepresa a rendere l'idea dell'annebbiamento della vista (e delle capacità intellettive della protagonista davanti ai suoi stessi comportamenti) o la ripetuta duplicazione della stessa che vede agire sé medesima dall'esterno, a evocarne la personalità psicotica e schizoide, e si capisce perché risultino indigesti sia la Duras col suo dolore sia il film di Finkiel che ce li ripropone. Tuttavia ne consiglio vivamente la visione ai francofili incalliti e a coloro che amano darsi ripetute martellate sui genitali, maschili o femminili a scelta: ve lo meritate!
Ignoro quali siano state le intenzioni che hanno animato Emmanuel Finkiel a trasporre sullo schermo il romanzo autobiografico, di cui al titolo, di Marguerite Duras, che la scrittrice asseriva ricavato da un suo diario risalente al 1945 e dimenticato per anni, pubblicato nel 1985, in cui racconta l'attesa spasmodica del ritorno del marito Robert Antelme, uno dei massimi esponenti della Resistenza francese, dal campo di concentramento nazista di Dachau, intrisa di sensi di colpa per averlo costantemente tradito col migliore amico di lui, Dyonis Mascolo. Se credeva di celebrare la Duras ha toppato di brutto, se invece l'ha mosso un disprezzo recondito per un personaggio comunque scomodo, discusso e discutibile, ha raggiunto lo scopo perché c'è riuscito alla perfezione, grazie anche a una notevole performance di Mélanie Therry, che riesce a renderla odiosa al punto che difficilmente qualcuno, sano di mente, verrebbe indotto, dopo aver visto il film, a leggere il libro, se non l'ha già fatto prima, a meno di non essere un masochista affetto da Sindrome di Tafazzi. In ogni caso il risultato è una pellicola spaventosamente pallosa, pretenziosa, verbosa (ci mancava solo la voce narrante dell'autrice) e se solo avessi letto la scheda biografica del regista, già assistente di Godard e di Kieslowski, due campioni assoluti dell'onanismo intellettualoide, giammai mi sarei avventurato in sala a vederlo e recito quindi il mea culpa. Finkiel descrive la Duras in preda a un delirio solipsista che aumenta man mano di intensità quanto più si avvicina il ritorno di Antelme dalla deportazione: dapprima non esita a intraprendere un rapporto ambiguo con il funzionario collaborazionista della Gestapo Rabier per avere notizie del marito, e qui la Thierry si produce nell'unico sorriso, a denti stretti e sghembo, mentre flirta con lui, in 127 minuti di film: per il resto conserva una truncia insopprimibile, perfettamente in linea con un atteggiamento da un lato supponente e dall'altro vittimista che la rende insopportabile al suo stesso ambiente di intellettuali snob. Il dolore di cui discetta l'autrice è completamente autoriferito, causato non dalla circostanze esterne o dalle sofferenze altrui (si parla di una guerra che ha fatto decine di milioni di morti, nonché delle persecuzioni subite dagli ebrei), cui risulta completamente indifferente, essendo del tutto incapace di empatia nei confronti del prossimo: il dolore altrui viene preso in considerazione unicamente se funzionale a giustificare il proprio malessere, dovuto esclusivamente a sue libere scelte, di cui peraltro è restìa a prendersi la responsabilità fino in fondo, o almeno questa è l'impressione che se ne ricava da questa pellicola. Con queste premesse, come dicevo, non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello approfondire la questione di cosa intendesse o meno la Duras sull'argomento. Oltre alla prolissità tipicamente francese del tutto, mettiamoci anche la confezione formale, piena di espedienti ridicoli come l'applicazione di lenti sfuocate alla cinepresa a rendere l'idea dell'annebbiamento della vista (e delle capacità intellettive della protagonista davanti ai suoi stessi comportamenti) o la ripetuta duplicazione della stessa che vede agire sé medesima dall'esterno, a evocarne la personalità psicotica e schizoide, e si capisce perché risultino indigesti sia la Duras col suo dolore sia il film di Finkiel che ce li ripropone. Tuttavia ne consiglio vivamente la visione ai francofili incalliti e a coloro che amano darsi ripetute martellate sui genitali, maschili o femminili a scelta: ve lo meritate!
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