"Come pietra paziente" (Syngué Sabour) di Atiq Rahimi. Con Golfshifteh Farahani, Hamid Djavadan, Massi Mrowat, Hassina Burgan. Francia, Germania, Afghanistan 2013 ★★★★★
Syngué Sabour è, nella tradizione afghana, la "pietra paziente" del titolo, una pietra che possiede il magico potere di assorbire tutte le angosce, le sofferenze, le difficoltà, i segreti che le si confidano, una sorta di confessionale in forma di oggetto che si disintegra una volta assolta la sua funzione. Nel caso di questo bellissimo e potente film la "pietra paziente" di una giovane donna è il marito, un mujaheddin rimasto in coma dopo aver ricevuto un proiettile nel collo durante una lite con un altro guerrigliero seguita a un insulto, che la moglie accudisce, in una misera abitazione di una Kabul sconvolta da bombardamenti e incursioni dei taliban, nonostante i pericoli incombenti e la mancanza di denaro, mentre nel frattempo ha mandato le due figliolette da una zia che si scopre man mano essere la tenutaria di un bordello. Le visite al marito ridotto in uno stato larvale si trasformano così in una sorta di sedute di autocoscienza in cui la donna man mano gli si svela con sempre maggiore chiarezza, a partire dall'essere stata destinata a questo "eroe" senza nemmeno conoscerlo quando era poco più di una bambina, all'essere considerata meno di una serva, tutt'al più un oggetto o buco, mai come una persona e meno che mai come una donna, le poche volte che l'ha visto mentre lui costruiva la sua carriera di combattente per la libertà; fino a confessargli che le figlie non sono di lui, che era pure sterile, ma di uno sconosciuto procuratole dalla zia. In realtà, più che a lui che non può sentire, ridotto com'è, ma che non l'avrebbe ascoltata nemmeno se fosse stato cosciente, la donna si svela a sé stessa; nel frattempo rimane l'unica persona che va avanti a curarsi di lui, con una pietas tutta femminile. Altro personaggio fondamentale del film è la zia, che nella sua profonda saggezza e conoscenza dell'umanità, consiglia la nipote di lasciarsi andare con un giovane ragazzo, mujaheddin pure lui, che comincia a frequentarla convinto che lei sia una prostituta, scusa che la donna si è inventata durante un'incursione di un gruppo di taliban di cui il giovane faceva parte, per non essere violentata. I fanatici, inorriditi dalla rivelazione, se ne erano andati senza toccarla, ma il ragazzo torna e si affida a lei per essere introdotto al sesso, cosa che succede ma questa volta, a differenza che col marito, è la donna a prendere in mano la situazione e plasmare un rapporto di comunicazione autentica, che è spirituale e corporale insieme: "fatti scopare con la lingua e parlare con il cazzo", in sostanza "comunicate nel modo che vi riesce ma fatelo", le suggerisce la zia, ed è probabilmente la frase fondamentale del film, che si sviluppa in un crescendo a tappe scandito da rivelazioni successive sui personaggi e le loro vicende passate. La pellicola è girata con maestria e sobrietà da Atiq Rahimi, già documentarista di vaglia, autore anche del romanzo da cui è tratta; l'aspetto sorprendente è che Rahimi non è una donna, bensì un uomo, mentre che questo film parlasse con un linguaggio e una sensibilità femminili, pur rivolgendosi a un pubblico di entrambi i sessi, era una sensazione che ho cominciato a provare a metà della pellicola, tanto da auspicare una sorta di recensione da parte di una donna che lo avesse visto, perché sono convinto che vi abbia scorto aspetti diversi da quelli che ho visto io e comunque sotto una luce differente. Formidabile e mai esagerata l'interpretazione della "donna" da parte di Golfshifteh Farahani, superba attrice iraniana già vista in "About Elly", bravissima anche la "zia" Hassina Burgan, fotografia eccezionale, un film emozionante, da vedere.
Syngué Sabour è, nella tradizione afghana, la "pietra paziente" del titolo, una pietra che possiede il magico potere di assorbire tutte le angosce, le sofferenze, le difficoltà, i segreti che le si confidano, una sorta di confessionale in forma di oggetto che si disintegra una volta assolta la sua funzione. Nel caso di questo bellissimo e potente film la "pietra paziente" di una giovane donna è il marito, un mujaheddin rimasto in coma dopo aver ricevuto un proiettile nel collo durante una lite con un altro guerrigliero seguita a un insulto, che la moglie accudisce, in una misera abitazione di una Kabul sconvolta da bombardamenti e incursioni dei taliban, nonostante i pericoli incombenti e la mancanza di denaro, mentre nel frattempo ha mandato le due figliolette da una zia che si scopre man mano essere la tenutaria di un bordello. Le visite al marito ridotto in uno stato larvale si trasformano così in una sorta di sedute di autocoscienza in cui la donna man mano gli si svela con sempre maggiore chiarezza, a partire dall'essere stata destinata a questo "eroe" senza nemmeno conoscerlo quando era poco più di una bambina, all'essere considerata meno di una serva, tutt'al più un oggetto o buco, mai come una persona e meno che mai come una donna, le poche volte che l'ha visto mentre lui costruiva la sua carriera di combattente per la libertà; fino a confessargli che le figlie non sono di lui, che era pure sterile, ma di uno sconosciuto procuratole dalla zia. In realtà, più che a lui che non può sentire, ridotto com'è, ma che non l'avrebbe ascoltata nemmeno se fosse stato cosciente, la donna si svela a sé stessa; nel frattempo rimane l'unica persona che va avanti a curarsi di lui, con una pietas tutta femminile. Altro personaggio fondamentale del film è la zia, che nella sua profonda saggezza e conoscenza dell'umanità, consiglia la nipote di lasciarsi andare con un giovane ragazzo, mujaheddin pure lui, che comincia a frequentarla convinto che lei sia una prostituta, scusa che la donna si è inventata durante un'incursione di un gruppo di taliban di cui il giovane faceva parte, per non essere violentata. I fanatici, inorriditi dalla rivelazione, se ne erano andati senza toccarla, ma il ragazzo torna e si affida a lei per essere introdotto al sesso, cosa che succede ma questa volta, a differenza che col marito, è la donna a prendere in mano la situazione e plasmare un rapporto di comunicazione autentica, che è spirituale e corporale insieme: "fatti scopare con la lingua e parlare con il cazzo", in sostanza "comunicate nel modo che vi riesce ma fatelo", le suggerisce la zia, ed è probabilmente la frase fondamentale del film, che si sviluppa in un crescendo a tappe scandito da rivelazioni successive sui personaggi e le loro vicende passate. La pellicola è girata con maestria e sobrietà da Atiq Rahimi, già documentarista di vaglia, autore anche del romanzo da cui è tratta; l'aspetto sorprendente è che Rahimi non è una donna, bensì un uomo, mentre che questo film parlasse con un linguaggio e una sensibilità femminili, pur rivolgendosi a un pubblico di entrambi i sessi, era una sensazione che ho cominciato a provare a metà della pellicola, tanto da auspicare una sorta di recensione da parte di una donna che lo avesse visto, perché sono convinto che vi abbia scorto aspetti diversi da quelli che ho visto io e comunque sotto una luce differente. Formidabile e mai esagerata l'interpretazione della "donna" da parte di Golfshifteh Farahani, superba attrice iraniana già vista in "About Elly", bravissima anche la "zia" Hassina Burgan, fotografia eccezionale, un film emozionante, da vedere.
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