"The Rolling Stones Crossfire Hurricane" di Brett Morgen. Con Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Bill Wyman, Ron Wood, Mick Taylor, Brian Jones. USA 2013 - Senza giudizio
E' dal 1970 che dò il mio tributo di presenza ad ogni apparizione europea della Greatest Rock and Roll Band in The World: non considero Europa la Gran Bretagna, per cui non mi ritengo latitante per l'assenza al doppio concerto di Londra del 25 e 26 novembre scorsi delle mie vecchie e amate cariatidi, né alle prossime esibizioni in programma per fine giugno al Festival di Glastenbury e, il 6 e 13 luglio, a Hyde Park, Londra. Non ho potuto però esimermi dal fiondarmi a Trieste ad assistere, al primo spettacolo possibile, dell'anteprima di questo documentario che non aggiunge nulla a ciò che già si sapesse o avesse visto in precedenza a proposito della band nata nell'East End londinese che celebra in questo 2013 i 50 anni di attività. Attraversati da un "uragano di fuoco incrociato", come dice il verso tratto da "Jumping Jack Flash" che dà il titolo a questa specie di film celebrativo, e che rievocava i cieli di Londra di quando i membri fondatori della band vennero al mondo, tra il lampeggiare delle V1 tedesche e delle contraeree (ma questo, il regista, che è un giovane pirlone statunitense - superficialità di Mick Jagger che lo ha ingaggiato - lo ignora e quindi non è in grado di fare un collegamento). Uniche "chicche", per i conaisseurs, sono le voci attuali e, alquanto segnate dal tempo, dei sei membri sopravvissuti (più quella sconosciuta ai più del morto, Brian Jones) che, intervistati in sottofondo, ricordano la loro versione odierna delle vicende, filtrate, lo dicono loro stessi, attraverso una più o meno volontaria "memoria selettiva", che diventa sempre più tale con l'aumentare dell'età (e dell'esperienza): tanto selettiva da dimenticarsi perfino di nominare Ian "Stu" Stewart, cofondatore del gruppo "sesto stone" effettivo nonché per anni pianista della band; il resto sono filmati d'epoca, accuratamente restaurati, e spezzoni tratti da altri film conosciuti, dalle sequenze dello storico concerto di Hyde Park del luglio del 1969 a quelle di Altamont del dicembre dello stesso anno; a "Sympathy for the Devil" tratta dal negletto "Rock and Roll Circus", a "One Plus One" di Godard, infine al Tour USA 1972-Europa 1973 che seguì la pubblicazione di "Exile on Main Street" (il doppio album la cui registrazione in una villa della Costa Azzurra nell'estate del 1971a sua volta è stato di recente documentata con un ottimo DVD). Il documentario si concentra sui primissimi anni per oltre metà della pellicola, riservando la seconda all'interferenza delle vicende giudiziarie, spesso una persecuzione, con la carriera degli Stones: elemento che poteva distruggerla, è stato invece il carburante per mettere il missile Rolling Stones sulla rampa di lancio, trasformandone la carriera, dall'essere espressione, diretta o per interposta persona, della "rivolta" e del disagio dell'epoca, alla svolta della maturità musicale che ha coinciso anche con quella dell'attività commerciale della ditta Rolling Stones & Associated. Da parte loro ne sono consci e non fanno fatica ad ammetterlo, ma ascoltandoli e vedendoli in scena sappiamo anche che non hanno mai preso in giro nessuno, perché se anche "It's Only Rock and Roll", we like it, but they do too, ancora adesso, e non possono farne a meno: nati nello spirito del blues, hanno senso e funzionano solo in quanto band come, ad contrarium, ha dimostrato l'esito miserando delle velleità solistiche di un front-man pure carismantico e talentuoso come Jagger. Musicalmente, ho apprezzato la pulizia di alcune tracks dal vivo degli anni Sessanta e, la sala in cui ho visto il film (apprezzandone l'audio: l'"Ambasciatori" di Trieste) lo consentiva, la pienezza di suono e feeling col pubblico che la band era in grado di produrre al suo apice, tra il 1972 e il 1976, dovuti all'amalgama perfetto tra le due chitarre di Richards e Taylor (un duetto Fender/GIbson) integrate dal basso di Bill Wyman e dal metronomo posticipato che risiede nelle bacchette jazzistiche di Charlie Watts: qualcosa che ti dava il ritmo delle pulsazioni del sangue e che partiva dal cuore: il massimo che postessero sognarsi di raggiungere dei bluesmen che suonano il rock come dei neri pur essendo nati e cresciuti in un sobborgo di Londra.
E' dal 1970 che dò il mio tributo di presenza ad ogni apparizione europea della Greatest Rock and Roll Band in The World: non considero Europa la Gran Bretagna, per cui non mi ritengo latitante per l'assenza al doppio concerto di Londra del 25 e 26 novembre scorsi delle mie vecchie e amate cariatidi, né alle prossime esibizioni in programma per fine giugno al Festival di Glastenbury e, il 6 e 13 luglio, a Hyde Park, Londra. Non ho potuto però esimermi dal fiondarmi a Trieste ad assistere, al primo spettacolo possibile, dell'anteprima di questo documentario che non aggiunge nulla a ciò che già si sapesse o avesse visto in precedenza a proposito della band nata nell'East End londinese che celebra in questo 2013 i 50 anni di attività. Attraversati da un "uragano di fuoco incrociato", come dice il verso tratto da "Jumping Jack Flash" che dà il titolo a questa specie di film celebrativo, e che rievocava i cieli di Londra di quando i membri fondatori della band vennero al mondo, tra il lampeggiare delle V1 tedesche e delle contraeree (ma questo, il regista, che è un giovane pirlone statunitense - superficialità di Mick Jagger che lo ha ingaggiato - lo ignora e quindi non è in grado di fare un collegamento). Uniche "chicche", per i conaisseurs, sono le voci attuali e, alquanto segnate dal tempo, dei sei membri sopravvissuti (più quella sconosciuta ai più del morto, Brian Jones) che, intervistati in sottofondo, ricordano la loro versione odierna delle vicende, filtrate, lo dicono loro stessi, attraverso una più o meno volontaria "memoria selettiva", che diventa sempre più tale con l'aumentare dell'età (e dell'esperienza): tanto selettiva da dimenticarsi perfino di nominare Ian "Stu" Stewart, cofondatore del gruppo "sesto stone" effettivo nonché per anni pianista della band; il resto sono filmati d'epoca, accuratamente restaurati, e spezzoni tratti da altri film conosciuti, dalle sequenze dello storico concerto di Hyde Park del luglio del 1969 a quelle di Altamont del dicembre dello stesso anno; a "Sympathy for the Devil" tratta dal negletto "Rock and Roll Circus", a "One Plus One" di Godard, infine al Tour USA 1972-Europa 1973 che seguì la pubblicazione di "Exile on Main Street" (il doppio album la cui registrazione in una villa della Costa Azzurra nell'estate del 1971a sua volta è stato di recente documentata con un ottimo DVD). Il documentario si concentra sui primissimi anni per oltre metà della pellicola, riservando la seconda all'interferenza delle vicende giudiziarie, spesso una persecuzione, con la carriera degli Stones: elemento che poteva distruggerla, è stato invece il carburante per mettere il missile Rolling Stones sulla rampa di lancio, trasformandone la carriera, dall'essere espressione, diretta o per interposta persona, della "rivolta" e del disagio dell'epoca, alla svolta della maturità musicale che ha coinciso anche con quella dell'attività commerciale della ditta Rolling Stones & Associated. Da parte loro ne sono consci e non fanno fatica ad ammetterlo, ma ascoltandoli e vedendoli in scena sappiamo anche che non hanno mai preso in giro nessuno, perché se anche "It's Only Rock and Roll", we like it, but they do too, ancora adesso, e non possono farne a meno: nati nello spirito del blues, hanno senso e funzionano solo in quanto band come, ad contrarium, ha dimostrato l'esito miserando delle velleità solistiche di un front-man pure carismantico e talentuoso come Jagger. Musicalmente, ho apprezzato la pulizia di alcune tracks dal vivo degli anni Sessanta e, la sala in cui ho visto il film (apprezzandone l'audio: l'"Ambasciatori" di Trieste) lo consentiva, la pienezza di suono e feeling col pubblico che la band era in grado di produrre al suo apice, tra il 1972 e il 1976, dovuti all'amalgama perfetto tra le due chitarre di Richards e Taylor (un duetto Fender/GIbson) integrate dal basso di Bill Wyman e dal metronomo posticipato che risiede nelle bacchette jazzistiche di Charlie Watts: qualcosa che ti dava il ritmo delle pulsazioni del sangue e che partiva dal cuore: il massimo che postessero sognarsi di raggiungere dei bluesmen che suonano il rock come dei neri pur essendo nati e cresciuti in un sobborgo di Londra.
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