JAKARTA – Una
metastasi urbana di circa dieci milioni di abitanti, nessuno sa dirlo
con precisione e sicuramente non le autorità che fanno finta di
governare questo caos, che è il polo d'attrazione per gente proveniente
da tutto l'arcipelago: se è questo il crogiuolo in cui si forma
l'identità del “Nuovo Indonesiano”, al di là di ogni appartenenza
etnica, questo Paese ha davanti a sé un futuro molto problematico. Una
città orrenda, immersa in una perenne nube tossica, attraversata qua e
là da canali mefitici, che si estende dall'antico porto di Sunda Kelapa
verso Sud per ben 25 chilometri, occupando oltre 650 chilometri
quadrati di una pianura dal clima insopportabilmente torrido, i cui
unici punti di riferimento sono i grattacieli dei sobborghi residenziali
meridionali e i vulcani che circondano la vicina Bogor, quando si ha la
fortuna di intravederli. La città portuale venne occupata dai
portoghesi già nel 1522, poi riconquistata cinque anni dopo da Sunan
Gunungjati, che la ribattezzò “Jayakarta” (la Vittoriosa) e la trasformò
in feudo del sultanato di Banten. In seguito fu a lungo contesa tra
inglesi e olandesi, finché questi ultimi nel 1619 ebbero la meglio, la
rasero al suolo e costruirono una nuova fortezza, ribattezzando la città
Batavia, che divenne la
capitale delle Indie Orientali Olandesi. Batavia prende il nome da una
tribù che abitava i Paesi Bassi in epoca romana, ed è grazie al genio
batavo, che notoriamente è alimentato ad acqua,
che dobbiamo la presenza di alcuni malsani canali di drenaggio che
ancora oggi attraversano Kota, il quartiere attorno al porto antico,
forse per ricreare l'atmosfera di Amsterdam all'Equatore. Sorvolando sul
clima e la invincibile tendenza locale a fare di ogni rigagnolo una
fogna e una discarica a cielo aperto. Da allora Jakarta è cresciuta in
modo smisurato, caotico e senza alcun criterio urbanistico, ma sempre
coi suoi miasmatici canali che compaiono qua e là, tendenza che non è
dimunuita da quando, nel 1950, divenne la capitale della Repubblica
Indonesiana. La città non ha un vero e proprio centro, a meno che non lo
si voglia considerare Lapangan Merdeka, la piazza dell'Indipendenza, uno spiazzo di oltre mezzo chilometro per lato, per una volta messo a verde e non desolato come nelle città viste finora, nel cui centro si erge il Monas, quantomai opportuna abbreviazione che sta per "Monumen Nasional",
una specie di obelisco in marmo bianco italiano alto 132 metri e
sormontato da una fiamma ricoperta di lamina d'oro. In sostanza un
grande cazzo (qui lo chiamano L'ultima erezione di Sukarno) voluto
dal dittatore, noto donnaiolo, probabilmente a eterna memoria della
propria virilità, iniziato nel 1961 e inaugurato dal suo successore.
Affacciati sulla piazza, alcuni musei e una serie di palazzi in stile
neoclassico e coloniale, tra i pochi decenti della città. In realtà
Jakarta ha diversi centri, separati tra loro da giganteschi macet,
come qui vengono chiamati i catastrofici ingorghi stradali.
Invariabili, anche la domenica, come gli acquazzoni che imperversano
sulla città, e provvedono ad aggravarli oltre che a formare veri e
porpri torrenti impetuosi e pozze luride che sembrano laghi. Non mi
soffermo sulle baraccopoli che ho potuto osservare dal treno proveniente
da Cirebon, in avvicinamento al centro: oltre alle catapecchie
costruite sotto ogni cavalcavia, impressionanti quelle erette sugli
argini dei fiumiciattoli putridi che attraversano questo marasma
informe, in equilibrio statico così approssimativo che ci si chiede solo
quale dei prossimi fortunali le spazzerà via: credo che nessuno tenga
questo tipo di contabilità, né un'anagrafe degna di questo nome. L'unica
parte della città che riveste un qualche interesse è quella coloniale
di Kota,
la città vecchia di Batavia, fulcro del dominio olandese; ma le
strutture, i magazzini e i palazzi del passato sono distrutti o ridotti
in uno stato penoso. Alcuni di quelli che danno sul Kali Besar, la fetida cloaca che la Lonely Planet
decanta come “un bellissimo canale”, sono utilizzati, oltre che come
abitazione di derelitti, come luoghi di stoccaggio e cernita di rifiuti.
Capaci pure di chiamarlo riciclaggio! Ora: potrei anche capire che gli
indonesiani detestino a tal punto ogni traccia del passato coloniale e
della pessima amministrazione olandese da volerla cancellare, ma allora
basterebbero qualche candelotto di dinamite e alcune ruspe. Invece, ne
hanno fatto il quartiere turistico per eccellenza, allestendovi l'unica,
microscopica isola pedonale di tutta la città, con la Taman Fatahillah,
la piazza principale su cui si affacciano una serie di musei nonché
l'affascinante, celebre ed esageratamente esoso Café Batavia,
che è diventata uno dei punti di raccolta delle nuove generazioni della
capitale: dagli islamisti salmodianti ai discotecari, tutti a
fotografarsi e filmarsi a vicenda con modernissime e ingombranti
foto-videocamere digitali. Senza alcun dubbio la gioventù più brutta che
ho visto in tutto il Paese: i maschi
dei decerebrati assoluti, senza eccezione, il cui sguardo esprime solo
demenza; le ragazze, per quanto più sveglie, con tinture grottesche e mise tra l'infantile, in stile nippo,
e il puttanesco ma pur sempre sul genere Lolita. Di solito il miscuglio
di razze dà risultati sorprendenti e positivi, in un posto del genere
il melting pot
ha avuto effetti devastanti. Quanto mai appropriato, dunque, il
sopannome di “Big Durian” affibbiato a Jakarta, parafrasando la “Grande
Mela”. Il durian
è un frutto controverso, dalla forma di un melone spinoso che può
raggiungere dimensioni di una gigantesca anguria, quasi un simbolo
nazionale, di cui si dibatte se sia ottimo oppure disgustoso, tanto che
molti alberghi oltre a non tenerlo ne vietano l'introduzione. Un frutto
che secondo me è anche commestibile, a piccole dosi, ma il cui odore è
assolutamente repellente. Insomma: sotto la scorza in questa città
qualcosa c'è, altrimenti non sarebbe così vitale, e comunque è qui che
si concentrano industrie, servizi, governo, università, uno dei porti
più attivi dell'Asia intera, ed è indiscutibile la sua capacità di
essere da sempre il polo che attira le proteste più radicali e
clamorose, sfociate più volte in eplosioni di estrema violenza, e di cui
spesso nel corso della storia ha fatto le spese la minoranza cinese,
l'ultima volta nel 1998 durante la rivolta che avrebbe portato alle
dimissioni di Suharto. Purtroppo, prima o poi, se si viene in Indonesia
con Jakarta occorre fare i conti se non altro per via dell'aeroporto
internazionale, a meno di non fare direttamente rotta su Bali, che è un
mondo a sé stante, oltre che turisticamente infestato e sputtanato, che
col resto del Paese ha poco a che vedere.
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