lunedì 12 gennaio 2009

Il "Grande Durian"


Jakarta Sunset by der WillyJAKARTA – Una metastasi urbana di circa dieci milioni di abitanti, nessuno sa dirlo con precisione e sicuramente non le autorità che fanno finta di governare questo caos, che è il polo d'attrazione per gente proveniente da tutto l'arcipelago: se è questo il crogiuolo in cui si forma l'identità del “Nuovo Indonesiano”, al di là di ogni appartenenza etnica, questo Paese ha davanti a sé un futuro molto problematico. Una città orrenda, immersa in una perenne nube tossica, attraversata qua e là da canali mefitici, che si estende dall'antico porto di Sunda Kelapa verso Sud per ben 25 chilometri, occupando oltre 650 chilometri quadrati di una pianura dal clima insopportabilmente torrido, i cui unici punti di riferimento sono i grattacieli dei sobborghi residenziali meridionali e i vulcani che circondano la vicina Bogor, quando si ha la fortuna di intravederli. La città portuale venne occupata dai portoghesi già nel 1522, poi riconquistata cinque anni dopo da Sunan Gunungjati, che la ribattezzò “Jayakarta” (la Vittoriosa) e la trasformò in feudo del sultanato di Banten. In seguito fu a lungo contesa tra inglesi e olandesi, finché questi ultimi nel 1619 ebbero la meglio, la rasero al suolo e costruirono una nuova fortezza, ribattezzando la città Batavia, che divenne laSoekarno capitale delle Indie Orientali Olandesi. Batavia prende il nome da una tribù che abitava i Paesi Bassi in epoca romana, ed è grazie al genio batavo, che notoriamente è alimentato ad acqua, che dobbiamo la presenza di alcuni malsani canali di drenaggio che ancora oggi attraversano Kota, il quartiere attorno al porto antico, forse per ricreare l'atmosfera di Amsterdam all'Equatore. Sorvolando sul clima e la invincibile tendenza locale a fare di ogni rigagnolo una fogna e una discarica a cielo aperto. Da allora Jakarta è cresciuta in modo smisurato, caotico e senza alcun criterio urbanistico, ma sempre coi suoi miasmatici canali che compaiono qua e là, tendenza che non è dimunuita da quando, nel 1950, divenne la capitale della Repubblica Indonesiana. La città non ha un vero e proprio centro, a meno che non lo si voglia considerare Lapangan Merdeka, la piazza dell'Indipendenza, uno spiazzo di oltre mezzo chilometro per lato, per una volta messo a verde e non desolato come nelle città viste finora, nel cui centro si erge il Monas, quantomai opportuna abbreviazione che sta per "Monumen Nasional", una specie di obelisco in marmo bianco italiano alto 132 metri e sormontato da una fiamma ricoperta di lamina d'oro. In sostanza un grande cazzo (qui lo chiamano L'ultima erezione di Sukarno) Jakarta Flood by Shanghai Daddyvoluto dal dittatore, noto donnaiolo, probabilmente a eterna memoria della propria virilità, iniziato nel 1961 e inaugurato dal suo successore. Affacciati sulla piazza, alcuni musei e una serie di palazzi in stile neoclassico e coloniale, tra i pochi decenti della città. In realtà Jakarta ha diversi centri, separati tra loro da giganteschi macet, come qui vengono chiamati i catastrofici ingorghi stradali. Invariabili, anche la domenica, come gli acquazzoni che imperversano sulla città, e provvedono ad aggravarli oltre che a formare veri e porpri torrenti impetuosi e pozze luride che sembrano laghi. Non mi soffermo sulle baraccopoli che ho potuto osservare dal treno proveniente da Cirebon, in avvicinamento al centro: oltre alle catapecchie costruite sotto ogni cavalcavia, impressionanti quelle erette sugli argini dei fiumiciattoli putridi che attraversano questo marasma informe, in equilibrio statico così approssimativo che ci si chiede solo quale dei prossimi fortunali le spazzerà via: credo che nessuno tenga questo tipo di contabilità, né un'anagrafe degna di questo nome. L'unica parte della città che riveste un qualche interesse è quella coloniale di Kota, la città vecchia di Batavia, fulcro del dominio olandese; ma le strutture, i magazzini e i palazzi del passato sono distrutti o ridotti in uno stato penoso. Alcuni di quelli che danno sul Kali Besar, laEntering Jakarta by K. fetida cloaca che la Lonely Planet decanta come “un bellissimo canale”, sono utilizzati, oltre che come abitazione di derelitti, come luoghi di stoccaggio e cernita di rifiuti. Capaci pure di chiamarlo riciclaggio! Ora: potrei anche capire che gli indonesiani detestino a tal punto ogni traccia del passato coloniale e della pessima amministrazione olandese da volerla cancellare, ma allora basterebbero qualche candelotto di dinamite e alcune ruspe. Invece, ne hanno fatto il quartiere turistico per eccellenza, allestendovi l'unica, microscopica isola pedonale di tutta la città, con la Taman Fatahillah, la piazza principale su cui si affacciano una serie di musei nonché l'affascinante, celebre ed esageratamente esoso Café Batavia, che è diventata uno dei punti di raccolta delle nuove generazioni della capitale: dagli islamisti salmodianti ai discotecari, tutti a fotografarsi e filmarsi a vicenda con modernissime e ingombranti foto-videocamere digitali. Senza alcun dubbio la gioventù più brutta che ho visto in tutto il Paese: i Tastes like Heaven, Smells like Hellmaschi dei decerebrati assoluti, senza eccezione, il cui sguardo esprime solo demenza; le ragazze, per quanto più sveglie, con tinture grottesche e mise tra l'infantile, in stile nippo, e il puttanesco ma pur sempre sul genere Lolita. Di solito il miscuglio di razze dà risultati sorprendenti e positivi, in un posto del genere il melting pot ha avuto effetti devastanti. Quanto mai appropriato, dunque, il sopannome di “Big Durian” affibbiato a Jakarta, parafrasando la “Grande Mela”. Il durian è un frutto controverso, dalla forma di un melone spinoso che può raggiungere dimensioni di una gigantesca anguria, quasi un simbolo nazionale, di cui si dibatte se sia ottimo oppure disgustoso, tanto che molti alberghi oltre a non tenerlo ne vietano l'introduzione. Un frutto che secondo me è anche commestibile, a piccole dosi, ma il cui odore è assolutamente repellente. Insomma: sotto la scorza in questa città qualcosa c'è, altrimenti non sarebbe così vitale, e comunque è qui che si concentrano industrie, servizi, governo, università, uno dei porti più attivi dell'Asia intera, ed è indiscutibile la sua capacità di essere da sempre il polo che attira le proteste più radicali e clamorose, sfociate più volte in eplosioni di estrema violenza, e di cui spesso nel corso della storia ha fatto le spese la minoranza cinese, l'ultima volta nel 1998 durante la rivolta che avrebbe portato alle dimissioni di Suharto. Purtroppo, prima o poi, se si viene in Indonesia con Jakarta occorre fare i conti se non altro per via dell'aeroporto internazionale, a meno di non fare direttamente rotta su Bali, che è un mondo a sé stante, oltre che turisticamente infestato e sputtanato, che col resto del Paese ha poco a che vedere.

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