BANDAR SERI BEGAWAN (Brunei) – Sua
Maestà Paduka Seri Bagida Sultan Haji Hassanal Bolkiah Mu'izzaddin
Waddaullah Ibnu Al-Marshum Sultan Haji Omar Ali Saiffuddien Sa'
Adulkhairi Waddien, Sultan dan Yang Di-Pertuan Negara Brunei Darussalam:
questo il nome di quello che è stato per anni l'uomo più ricco del
mondo, e tutt'ora tra i primi posti in questa classifica, che guida il
Brunei fin da quando, nel 1967, a soli 21 anni succedette al padre
dimissionario. Anche lui (a destra il monumento che celebra il suo 60º compleanno, anche se sembra una pubblicità del Seven Up), come il nostro puttaniere del Consiglio, è sostanzialmente un dandy,
vuole essere amato a tutti i costi, ha un fratello più giovane e
perfino più pirla che combina disastri (il principe di qui, Jefri, in
qualità di ministro delle Finanze a suo tempo aveva lasciato un buco per
qualcosa
come 16 miliardi di dollari: in confronto anche il vecchio bamboccione
Pàoa S-ciopà e Tremonti sono dei dilettanti), ma è infinitamente più
ricco, più bello, più alto (pur essendo la media degli asiatici di qui
abbastanza modesta), più colto e più glamour,
oltre ad avere dieci anni di meno e un nome più lungo di quello già
abbastanza intorcolato di Silvio Berlusconi detto Mammaorsa il Piangina.
Che per ora quarant'anni di governo consecutivi se li sogna, a meno di
non tormentarci fino al suo 110º genetliaco.
Il Brunei dal 1888 era stato un protettorato della Gran Bretagna; nel
1929 quando vi fu scoperto il petrolio, Omar Saiffuddien, il padre
dell'attuale sultano (a lui è dedicata la moschea nelle due foto)
preferì non aderire alla Confederazione Malese affinché i proventi
rimanessero sul proprio territorio, con la benedizione inglese e della Shell,
e la stessa situazone di ripetè nel 1962 al momento di aderire alla
Malaysia, operazione che non andò in porto sempre con l'appoggio dei
medesimi tutori. La piena indipendenza giunse nel 1984, con scarso
entusiasmo da parte del sultano Hassanal Bolkiah, che fino al 2004 ha
continuato a regnare sul Paese sulla base di una legislazione
d'emergenza in vigore per oltre 40 anni, con una tendenza sempre più
marcatamante intergalista, e solo ora sta aprendosi a cautissime riforme
politiche. Il legami con la Gran Bretagna rimangono strettissimi e la
tutela della onnipotente Shell è garantita da qui all'eternità. Il
buon Hassanal Bolkiah sarà anche un sovrano paternalista e con qualche
tendenza al dispotismo, però l'analfabetismo è praticamente inesistente,
le scuole sono tante e dappertutto: belle, ariose, semplici, e
soprattutto gratuite, così come l'assistenza sanitaria e la
frequentazione di centri per il tempo libero e le attività sportive; i
sudditi non pagano imposte sul reddito, godono di sovvenzioni anche per
acquistare un'automobile, e di prestiti a tassi d'interesse irrisori;
hanno la pensione garantita, la settimana lavorativa breve, il salario
minimo più elevato di tutto il Sud-Est asiatico e, non a caso,
un'aspettativa di vita di 77 anni: abbastanza ovvio che siano contenti e
non abbiano granché di cui lamentarsi. La loro giovialità,
amichevolezza e disponibilità sono gli aspetti più gradevoli di questo
Paese. Bella forza, si obietterà, visto che navigano in mezzo al
petrolio: ma non mi risulta che capiti lo stesso in Nigeria o nel
Venezuela socialisteggiante del compañero Hugo Chavez. Bandar Seri
Begawan, al di là del nome esotico, è un paesone di due strade e poi il
nulla di cinqantamila abitanti alla testa di uno Stato che ne ha 350
mila in tutto. Un Paese che per la sua insulsaggine mi ha ricordato il
Belize, dove le villette hanno l'aspetto di quelle alle periferie
americane popolate dai vorrei-ma-non-posso, e la cui capitale, per il
numero di abitanti e con le sue architetture pretenziose, incongrue e lo
squallore urbano realsocialisteggiante, mi ha fatto venire in mente il
capoluogo della provincia in cui vivo, Pordenone, con la quale ha in
comune un altro aspetto demenziale: come questa non ha uno sbocco al
mare, così il Borneo ha il suo territorio diviso in due parti non
comunicanti, per una delle consuete trovate degli inglesi. La piazza
dove sorgono i complessi commerciali Yayasan, coi suoi portici ciechi, in marmo scivoloso (geniale soluzione per pavimentazione
in luoghi dove piove sempre) mi ricorda Piazza Venti Settembre, benché
la vista della Moschea di Omar Ali Saifuddien sia sicuramente meglio di
quella del Teatro Verdi, già definito con ragione un bidet da un noto
critico d'arte; ma l'inconfondibile stile mestrino-babilonese, di cui
Pordenone è l'emblema, è il medesimo. Altri spiazzi raccapriccianti
ricordano Piazza Risorgimento, detta altresì Piazza Tirana, alcune zone
il famigerato e indecente Bronx; anche la viabilità circolare ha qualcosa a che vedere con il ring
naoniano e perfino nel lungofiume vedo qualcosa in comune. Come
Pordenone, alla cui deturpazione hanno dato il loro fattivo contributo, a
diverso titolo ma con effetti ugualmente devastanti svariati esponenti
della mia famiglia nel corso di tutto il secolo passato (a alcuni
perseverano), si riscatta con Corso Vittorio Emanuele, anche Bandar Seri
ha un lato che fa dimenticare tutte le vaccate costruite negli ultimi
trent'anni: Kampung Ayer.
Si tratta di 28 villaggi, in cui vivono circa 30 mila persone, che si
estendono su entrambi i lati del fiume, costruiti alla maniera
tradizionale su palafitte, in cui le capanne, spesso colorate in tinte
vivaci, generalmente in legno, talvolta parzialmente in lamiera, o anche
prefabricati, sono collegate tra loro da un intrico di passarelle,
scale, canali; villaggi completamente autonomi, con le loro scuole,
ambulatori, stazioni benzina, posti di polizia e caserme dei pompieri,
officine,
ristoranti, bar, centrali elettriche: tutto. In alcuni, quelli più
vicini al centro ci si arriva piedi e sono quelli abitati dai più
poveri, spesso lavoratori stranieri a basso reddito (tanti filippini)
che non posseggono un'imbracazione, che è necessaria invece per
raggiungere quelli più distanti: non doveva essere molto diversa, la
Venezia delle origni! Mi è tornata in mente una considerazione: i
brasiliani, appena vedono un'altura che si erge anche di solo cento
metri in mezzo a una pianura non resistono alla tentazione atavica di
trasformarla in una favela,
retaggio forse degli antenati provenienti dalle Azzorre che dovevano
difendersi dagli invasori. Così dev'essere per i malesi: la dimensione
del kampung (villaggio) è quella che è loro congeniale e che riproducono
in qualsiasi sitazione, anche metropolitana; quando poi c'è l'aqua, ma
soprattutto un fiume a disposizione, inevitabilmente assumono la forma
di villaggi di palafitte dove la vita comunitaria è la regola. Qui nel
Borneo i fiumi, imponenti, non mancano: e sono anc ora oggi le
principali vie di comunicazione. Avrò modo di vedere altre longhouse,
diffusissime anche nel Kalimantan, il Borneo indonesiano, in cui
un'intera comunità vive in una sola struttura, scendendo la costa del
Sarawak di ritorno verso Kuching nei prossimi giorni. Intanto mi unisco
ai cinesi, piuttosto al coperto e stranamente silenziosi in questa città
rigorosamente analcolica, nell'augurare a chi legge buon passaggio
nell'anno del bufalo, o del toro, a seconda dei gusti!
Nessun commento:
Posta un commento