CIREBON – Situata
a metà strada fra Semarang e Giakarta sulla costa settentrionale di
Giava, questa tranquilla città di circa 280 mila di abitanti è fuori
dalle rotte turistiche abituali ma i suoi tre kraton
e, a quel che si dice, l'ottima cucina di pesce sono un ottimo motivo
per una visita se non altro ritardare per quanto possibile l'impatto con
i giganteschi e quotidiani ingorghi della capitale con cui toccherà
comunque fare i conti nei prossimi due giorni, in quanto Giakarta è
tappa obbligatoria per i voli in uscita dal Paese, inevitabile
data l'imminente scadenza del visto indonesiano, di trenta giorni in
entrata, a pagamento e non rinnovabile né soggetto a estensione. Cirebon
venne fondata come sultanato indipendente attorno al 1500, fu alleata
del regno di Mataram e nel 1705 divenne protettorato olandese,
amministrata congiuntamente da tre sultani, fatto a cui si deve la
dovizia di palazzi dei regnanti, kraton per l'appunto: si tratta del Kesepuhan (in alto, a destra) eretto nel 1527, del Kanoman, che risale al 1588 e del Kecirebonan,
costruito nel 1839, che è tuttora la residenza dell'attuale famiglia
reale. Oltre a questo, non c'è praticamente nulla da vedere, tantomeno
il mare: ché da queste parti non si usa né una strada litoranea né una
semplice passeggiata e forse è anche meglio, considerata l'abituale grossezza,
il moto ondono impetuoso e il colore poco allettante, almeno in questa
stagione. Al massimo il porticciolo, dove dondolano i variopinti e
tradizionali peraho (i praho di salgariana memoria, sotto a sinistra)
usati per la pesca. In compenso la città è letteralmente invasa da
sciami di libellule, grosse quanto dei passeri ben pasciuti, che con i loro
movimenti simili a quelli degli elicotteri, fatti di sospensione
nell'aria e improvvisi scarti laterali, rendono l'atmosfera vagamente
inquietante e allucinogena.
A Cirebon, su una base islamica si sono innestate le più moderne usanze
giavanesi, quelle sundanesi e quelle cinesi, dando vita a un cocktail
culturale ed etnico che si legge anche dai lineamenti degli abitanti,
piuttosto eterogeneo e frizzante, e questo dà un senso a una città che, a
parte i kraton, risulta alquanto insignificante. Non
so se la particolare insistenza, che rasenta la molestia, da parte
soprattutto dei guidatori di becak, i “trisciò”, sia
dovuta alla scarsa familiarità coi turisti, ma sentirsi apostrofare
centinaia di volte al giorno non solo con la litania hallo mister, ma con la domanda where are you going, o what are you looking for
in una città che si sviluppa su una sola strada che l'attraversa e in
cui da vedere e fare non c'è assolutamente niente, salvo appunto
passeggiare, risulta esasperante. Tanto più se fatto, come talvolta ho
l'impressione, con una traccia di arroganza: al di là dell'idiosincrasia
che nutro in generale per qualsiasi estraneo tenda ad impicciarsi dei
fatti miei spinto non da curiosità ma dall'ansia di spillarmi quattrini.
E' anche il primo posto in Indonesia in cui mi pare che alcuni si
dilettino a fare commenti e riderti alle spalle, sicuri che non si
capisca la lingua, ma i toni rimangono inequivolcabili. Da un altro
punto di vista, quello della scarsa per non dire nulla versatilità
linguistica degli indonesiani è un problema in un Paese che ha visto
crollare gli afflussi turistici in seguito a una serie di attentati da
parte di estremisti islamici, a cominciare da quello a Bali nel 2002
seguiti da quelli a Jakarta del 2003 e 2004. Ho sentito spesso gente che
mi chiedeva il motivo della cattiva stampa di cui gode l'Indonesia, con
i ministeri degli Esteri dei Paesi occidentali che invitano a evitarla e
quantomeno a usare estrema prudenza. Credo di aver già detto altrove
che si tratta di un allarmismo assolutamente ingiustificato: mai durante
un mese in giro da solo ho avuto una sensazione di insicurezza o di
pericolo, sicuramente meno che in una qualsiasi periferia urbana
eurpoea: il pericolo islamico, se così vogliamo
chiamarlo, lo si avverte molto più in nella supponente, “sicura” e
turisticizzata Francia che non nell'immensa periferia povera di
Giakarta. L'islamismo è quanto mai bonario e tollerante, buona parte
della gente non è osservante, e non costituisce un problema. Ma le
carenze nei confronti del viaggiatore straniero esistono e creano
disagi, a cominciare dall'incomunicabilità. Ieri ad esempio, per
visitare il kraton Kesepuhan, ho dovuto ingaggiare una guida, le cui uniche parole intelleggibili erano yes e portughs, che si pronunciano pressoché uguali anche in bahasa indonesia,
e non ha smesso di parlare per mezz'ora, nonostante gli ripetessi fino
alla noia che non capivo un accidenti. Nel museo, non una didascalia
era in inglese, idem per la scarse se non inesistenti indicazioni per
le strade. Scena simile in un famoso ristorante di pesce: non uno che
parlasse due parole in croce d'inglese maccheronico, e menu
rigorosamente monolingue, senza nemmeno usare l'accortezza di farlo
fotografico, come perlopiù accade: ho finito per cenare in un warung per strada, con griglia all'aperto, accomodato su una stuoia stesa sul marciapiede, usando l'universale sistema del guarda-e-indica,
componendo la mia comanda con il dito. E così nell'albergo in cui mi
trovo: bello, elegante, moderno. In mezzo alla veranda campeggia un
frigorifero con una decina di Coca Cola, qualche
bottiglietta d'acqua e alcune di tè freddo. Birra: neanche a parlarne.
Questo avrebbe già dovuto indurmi al sospetto. Sulla lista del bar è
annunciata la scelta tra una decina di fantastici succhi di frutta,
tutti naturali, tutti invitanti. Mezz'ora di questo rituale: un receptionist
prende l'ordine: succo di mango, decido. Ce ne sono alberi stracarichi,
intorno: vado sul sicuro, mi dico. Riferisce la comanda via telefono
all'addetto, in divisa, che si trova a meno di dieci metri e che
risponde, annuendo, in mia presenza. Posata la cornetta, questi va in
cucina dai cui meandri viene inghiottito. Ricompare sorridente sulla
scena dopo un po' con un sacchetto in mano e si mette a pasturare i
pesci nella vasca del patio e intanto mi guarda, ammiccando. Dopo dieci
minuti arriva il receptionist incravattato, quello che parla 8 parole d'inglese: sorry mister, manga finish. Lemon, orange.
E vada per il lemon! La scena si ripete uguale, solo l'addetto alla
pastura dei pesci è diverso. Ma sempre in divisa, impeccabile. Svanisce
nel nulla. Dopo un'altra decina di minuti ritorna l'incravattato: sorry mister, lemon finish.
“Ok orange, no problem”, gli dico, e mi accorgo che mi sono già messo
al suo livello di comunicazione: frase essenziale ma al contempo
incerta, dizione sincopata e sorriso accomodante, magari con lieve,
ripetuto inchino incorporato. Dopo altri dieci minuti, nicchiando con la
testa come preso da un tic e sorridendo come un ebete, e con una sete
bestiale, rientro in camera, dandomi del pirla. Sto già rantolando,
disidratato, quando bussa alla porta un tipo, divisa sempre perfetta, e
sul vassoio campeggia un bicchierone di succo su cui galleggia un enorme
pezzo di ghiaccio. Era mandarino, spaventosamente dolciastro,
allappante. E oggi, dopo averlo ingurgitato, seguito dal pesce, regolare
e inevitabile ha colpito il cagotto. Va un po' meglio nelle stazioni,
dove alle biglietterie c'è sempre del personale, prevalentemente
femminile, in grado di capire e farsi capire: e ho notato da subito che
sono le ragazze a essere più sveglie e istruite. Nel mio albergo sono
tutti rigorosamente maschi, e questo spiega molte cose.
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