YOGYAKARTA -E
va bene così: ho scelto la giornata sbagliata per andare a visitare i
siti archeologici più importanti e famosi dell'Indonesia, ma anche
quella giusta. Sbagliata perché domenica: benché sia un Paese abitato al
90% da musulmani, per quanto tiepidi, è in vigore il consueto
calendario occidentale, almeno per tutte le attività che non hanno a che
fare col commercio. Scuole, banche e uffici pubblici sono chiusi, per
cui una massa di gitanti, composta prevalentemente da famiglie, si
precipita a Borobodur e Prambanan, i cui templi sono peraltro immersi in
grandi parchi. L'occasione giusta per stare all'aperto, fare quattro
passi, godersi un po' di fresco sotto alle fronde degli alberi. E anche
un po' di cagnara e un sacco di foto. Una scelta giusta perché in tutta
la giornata non è caduta nemmeno una goccia d'acqua, e per giunta io
avevo osato sfidare il monsone decidendo di muovermi in mototaxi, la soluzione più economica per spostarsi autonomamente su distanze a medio raggio da Yogya, nella fattispecie 42 km a Borobodur e 17 a Prambanan. Il primo (foto in alto a destra, con sullo sfondo il Merapi)
è un tempio buddhista fatto costruire dalla dinastia Sailendra tra il
750 e l'850 d.C., concepito come la rappresentazione del cosmo da parte
buddhista, trasposta in pietra, partendo dalla base, 118 metri per 118,
con sei terrazze quadrate, coronate da altre tre circolari
e con quattro ripide scalinate che salgono verso la cima (il Nirvana).
In sostanza uno stupa gigantesco, che riveste una collina “come la glassa di cioccolato ricopre una Sacher” (Scaini, nda) e costituito da 2 milioni di blocchi di pietre. Visto dall'alto, si dice che la struttura corrisponda a quella
di un mandala tantrico a tre dimensioni: un percorso a spirale di ben 5
chilometri tra pareti scolpite a bassorilievo in una trasposizione
delle dottrine buddhiste, rappresentazione della vita quotidiana e del
percorso sulla via della perfezione; gallerie ricoperte di pannelli con
innumerevoli immagini del Buddha che le sovrastano, oltre ai 72 Buddha seduti e posti in nicchie all'interno degli stupa, e visibili soltanto in parte. Qualcosa che ricorda l'Angkor Wat,
in Cambogia: ma proprio perché conosco quest'ultimo, forse l'artefatto
più portentoso che mi sia mai capitato di vedere, sono rimasto un po'
deluso, anche se l'atmosfera magica di Angkor, e la struggente bellezza
della Cambogia e la infinita dolcezza del suo popolo profondamente
buddhista sono incomparabili. In seguito al declino del buddhismo il
tempio venne abbandonato, ma riportato alla luce nel 1815 grazie
all'iniziativa del benemerito governatore Stamford Raffles
(sempre lui, il cui nome già ricorre in queste pagine: alla cui memoria
va un brindisi, col prossimo Singapore Sling), in seguito
numerosi interventi di recupero e restauro, da parte olandese prima e
indonesiana poi, l'ultimo in occasione di un attentato nel gennaio del
1985 contro l'allora presidente Suharto: alcune bombe danneggiarono
seriamente parecchi piccoli stupa sulle terrazze superiori. A
qualche chilometro di distanza il tempio di Mendut, in cui si trova la
più grande statua presente in un lugo di culto a Giava, ancora situata
nel luogo originario:
un Buddha alto tre metri e seduto in postura inconsueta, coi piedi
appoggiati per terra anziché nella consueta posizione del loto. A
Prambaran (più sopra, a sinistra; in fianco a sinistra un simpatico Ganesh beneaugurante) invece si trova il più grande complesso di templi (candi
in lingua locale) hindu di tutta Giava, sparsi nel raggio di cinque
chilometri intorno al villaggio omonimo. Costruiti circa cinquant’anni
dopo quelli di Borobodur su iniziativa di un re della dinastia di
Mataram, che si era fusa con quella dei Sailendra, il che spiega la
presenza di elementi buddhisti anche qui. A differenza del tempio di
Borobodur, quelli di Prambaran si sviluppano in verticale anziche’ in
orizzontale. Maestoso quello dedicato a Shiva Mahadeva, la cui guglia
centrale raggiunge i 47 metri, d'altezza, completamente ricoperta da
sculture che raccontano storie tratte dal Ramayana e che sembrano
ricami, di una precisione e un dettaglio stupefacenti. Purtroppo in
seguito a uno dei più recenti terremoti il tempio è in fase di restauro e
le sale interne inaccessibili, e così per i due che lo fiancheggiano,
dedicati a Brahma e Vishnu, e un altro ancora a Nandi, il toro fedele
compagno di Shiva, e in questo caso la delusione deriva dalla visita
forzatamente parziale e incompleta, giusto un assaggio che non
giustifica la grassazione di un biglietto d'ingresso sparato a 11
dollari USA, che sommati ai 12 per l'entrata a Borobodur fanno
l'equivalente del salario medio settimanale di un lavoratore
indonesiano. E per fortuna che entranbi i monumanti dal 1991 fanno parte
della lista di quelli appartenenti al Patrimonio dell’Umanità tutelato
dall’UNESCO. Mi auguro soltanto che sia una gentile attenzione riservata
ai visitatori stranieri, e non sia estesa alla popolazione locale: che
se è vistors friendly in maniera encomiabile, amichevole e
generosa, altrettanto non si può dire delle autorità e strutture
pubbliche preposte al turismo: a cominciare da indicazioni bilingui
pressoché inesistenti, meno che mai nelle stazioni dei treni e nei
terminal dei bus, al personale che compensa con la buona volontà e
un'infinita disponibilità la carenza di rudimenti di inglese e di
informazioni da fornire. Un vero peccato.
Nessun commento:
Posta un commento