KOTA KINABALU (Sabah) - Non
sono attrezzato né fisicamente, né materialmente e meno che mai
psicologicamente per affrontare la scalata del Mount Kinabalu (4095
metri: la cima più alta dal massiccio dell'Himalaya fino alla Nuova
Guinea) né tentato dallo snorkeling lungo gli oltre 14 mila
chilometri di coste dello Stato in questa stagione di monsoni, per cui
il motivo principale che mi ha spinto in questa città, che fino al 1963,
sotto dominio britannico, era chiamata Jesselton, è la presenza del terminal dei ferry che
portano a Labuan (dovuto omaggio a Salgari) e quindi nel sultanato del
Brunei con il quale i collegamenti stradali dal Sarawak sono laboriosi.
KK, com'è chiamata comunemente, non può essere paragonata alla
rilassante, in qualche modo incantata Kuching, con cui ha in comune la
simbologia animale, in questo caso il cigno anziché il gatto; anche
perché ha avuto la sventura di essere stata rasa al suolo due volte
durante la Seconda Guerra Mondiale dagli Alleati:
la prima volta nel tentativo (vano) di fermare i giapponesi, la seconda
per convincerli alla resa. Moderna ma per nulla sgradevole, 350 mila
abitanti che non si ammassano nella stesa area alla maniera indonesiana
ma distribuiti per svariati chilometri lungo la fascia costiera, Kota
Kinabalu è la capitale del Sabah, uno Stato semi autonomo come Sarawak,
in perenne conflitto col governo centrale perché solo una minima parte
degli utili prodotti qui (materie prime) torna ad affluire nelle casse
locali, e che attulamente risulta il più povero di tutta la Federazione Malese, con un tasso di disoccupazione vicino
al 20%. Colpa anche del forte incremento demografico degli ultimi 25
anni, dovuto in gran parte dall'immigrazione incontrollata, soprattutto
dalle vicine Filippine. Come se non bastasse, la vicinanza
dell'arcipelago porta anche problemi di contrabbando, pirateria e pure
l'imbarazzante presenza dei ribelli musulmani di MIndanao che si
rifugiano nel Sabah per sfuggire all'esercito di Manila. A prima vista
tutti questi problemi non si notano, e KK mi sembra essenzialmente una
città di commercio e come tale, per definizione, in mano ai cinesi,
quanto mai attivi in questi giorni vicini alle celebrazioni del loro
Capodanno, che raggiungeranno il culmine nella notte tra domenica e
lunedì. Siccome buona parte dei negozi, all'ingrosso o al minuto, dei
ristoranti, delle imprese di tutti i generi sono in mano loro, che alla
festa e alle tradizioni ci tengono e non badano a spese, la città è
bardata di palloncini, lampioni, striscioni rossi; l'attività nei templi
buddhisti e nelle sedi delle varie società e famiglie ferve come non
mai: si tirano fuori e si lustrano maschere e cosutmi, si preparano le
coreografie delle sfilate, si propaga ovunque una diffusa atmosfera che
sta fra il Carnevale di Rio e Fuorigrotta, perché quanto a fuochi
d'artificio i cinesi non sono secondi a nessuno e perfino i napoletani
si inchinano, riverenti, davanti ai maestri assoluti. Sono curioso di
come se la caveranno nella Chinatown di Bandar Seri Belawan,
capitale del Brunei, dove vige la legge coranica, e cercherò di essere
là nella notte del passaggio dall'anno del topo a quello del bufalo.
Fornita di alcuni musei interessanti, tra cui quello di etnologia e
storia naturale, dopo il commercio l'altra attività di KK è il turismo,
qui organizzato in maniera quasi industriale, e con forti interventi
statali, a differenza che nel Sarawak, dove tutto si svolge in
un'atmosfera più familiare e informale e molto più rilassata, dove
nessuno si sogna di spingerti a fare per forza qualcosa. E' anche per questo che ho preferito fare la visita a un centro di riabilitazione degli orang utan (in bahasa malaysia
letteralmente "uomo della foresta") nei pressi di Kuching, a Semenggoh,
piuttosto che in quello famosissimo di Sepilok, purtroppo preso
d'assalto daii turisti, per una scelta irresponsabile da parte
dell'amministrazione, col risultato che l'eccessivo contatto con gli
umani ha portato delle malattie che rendono difficilissimo il ritorno in
natura dei primati. A Semenggoh, venerdì scorso, c'erano dieci
visitatori e nel centro una trentina di orang utan, e una
dozzina quelli che hanno pasteggiato a due passi di distanza. Dopo
averli osservati da vicino mi rifiuto di chiamarli animali, e la mia
ricorrente battuta secondo cui sono le scimmie a discendere dall'uomo e
non viceversa assume un tono sempre meno paradossale, perché non è detto
che la linea evolutiva non porti nella loro direzione, Lo dimostra la
razionalità e, insieme l'intelligenza con cui reagiscono alla drastica
riduzione, a opera dell'imbecillità e dell'avidità umana, del loro
habitat naturale, facendovi fronte attraverso un ferreo controllo delle
nascite. A costo di estinguersi volontariamente in una sorta di eutanasia volontaria. Noi, che siamo così evoluti, stiamo ad ascoltare un babbione vestito di bianco o dei barbudos col turbante o il cilindro in testa, e la conseguenza sono le bidonville
della islamica Jakarta o della cattolicissima Manila, tanto per
rimanere in zona. E poi voglio vederlo, un umano, così atletico da
muoversi con la grazia e disinvoltura di un orang utan, anche
con un piccolo aggrappato, come danzando tra rami di alberi alti trenta
metri, ad aprire una noce di cocco in tre secondi o sbucciare le banane
con una mano sola!
Nessun commento:
Posta un commento