KAPIT (Sarawak) –
Il maltempo che ha imperversato in questi giorni sulla parte
settentrionale del Borneo mi ha costretto a rivedere i piani di fermarmi
a Bintulu, 170 km a Sud-Ovest di Miri e arrivare via terra a Belaga,
nell'interno, lungo l'alto corso del Batang Rejang, il fiume lungo 640
chilometri che costituisce l'arteria più importante del Sarawak, per
scenderlo fino a Sibu, dove sfocia nel Mar Cinese Meridionale. Nemmeno i
fuoristrada che collegano la zona di Belaga alla strada costiera
battendo gli sterrati utilizzati per il trasporto del legname erano in
grado di percorrere il tratto in tempi ragionevoli, e in effetti i fiumi
sono gonfi d'acqua, gli straripamenti e allagamenti in città come nelle
campagne all'ordine del giorno, il pericolo di frane elevato, per cui
sono sceso a più miti consigli e in sette confortevoli ore di bus sono
arrivato a Sibu per risalire il fiume almeno fino a Kapit. Sibu, che
sorge sulla confluenza del Rejang con l'Igan, a sessanta chilometri dal
mare, è la porta d'accesso al Batang Rejang e il punto di raccolta di
tutte le merci provenienti dall'interno, principalmente legname. E si
tratta di un'industria e di un commercio estremamente floridi: Il
Sarawak è il maggiore esportatore di legno tropicale al mondo, il giro
d'affari stimato è di due miliardi di dollari all'anno, per non parlare
di quello legato al disboscamento illegale, che a fatica si sta tentando
di arginare. Duecentomila abitanti, città vivace, moderna e funzionale,
era chiamata New Foochow (Fujian) a causa della presenza di numerosi
immigrati cinesi di quella regione giunti all'inizio del '900, a cui si
sono poi aggiunti melanau, malesi e iban.
Anche qui l'impronta cinese è forte quanto a Miri, e i festeggiamenti
per il Capodanno, con relativa chiusura dei buona parte degli esercizi
commerciali, non sono ancora cessati. Quello che rimane sempre attivo,
in un andirivieni incessante di barche e navi
di
tutti i tipi, è il porto fluviale. Con un battello espresso, dotato di
un paio di motori da TIR, in nemmeno tre ore, e senza scosse, si arriva a
Kapit, 120 chiometri risalendo la corrente, facendo tappa a Kanowit e
Song, centri che si affacciano sul fiume e nei cui dintorni si trovano
un buon numero di longhouse (foto a sinistra), le tradizionali abitazioni degli indigeni del Borneo (qui soprattutto gli iban, i dayak e, risalendo il fiume, i kayan, kejaman e lahanan), enormi strutture su palafitte generalmente costruite in legno, ma oggi anche in muratura e con tutti i comfort,
in cui un'intera comunità vive sotto lo stesso tetto: in camere bensì
separate ma affacciate su una lunghissima veranda comune (in basso, a destra).
Già altre volte mi ero soffermato sulla tendenza, in Malaysia come in
Indonesia, da parte delle popolazioni originarie di riprodurre il
villaggio, in ogni possibile circostanza, anche urbana; qui nel Borneo,
dove il contatto con la natura è ancora più forte e vivo, le tradizioni
più tenaci
e i legami famigliari più saldi, questa forma di vita comunitaria
ancora oggi funziona perfettamente e non entra in contrasto violento con
la modernità, anzi: l'impressione è che vi si amalgami piuttosto
armoniosamente. Kapit, meno di diecimila anime, è il capoluogo della
provincia pìu estesa del Sarawak, che comprende anche i distretti di
Belaga a monte e Song a valle, e si è sviluppata attorno al Fort Sylvia,
eretto nel 1880 dalla dinastia dei Brooke (e intitolato alla consorte
di Charles Vyner, il terzo della stirpe) per garantire la pace nella
zona dove si erano già strabiliti gli iban, in perpetua guerra con altre
tribù più a Nord, e il controllo del territorio del corso superiore del
Rejang, pace infine raggiunta e celebrata nel 1924. A seguito dei rajah bianchi, anche qui numerosi coloni cinesi che hanno preso in mano il commercio. Il forte, costruito in legno belian,
durissimo e indistruttibile, ha retto a ogni tipo di intemperia,
compresa un'alluvione nel 1934 che l'ha mandato sott'acqua per due
metri, ed è oggi sede di un piccolo ma interessante museo che illustra
tutta la storia dei luoghi. Oggi come in passato Kapit assolve a
importanti funzioni amministrative nonché essere punto di incontro e
scambio per tutte le comunità insediate nel corso superiore del Batang
Rejang. Cuore della cittadina, ovviamente il grande mercato centrale, Pesar Teresang,
appena sopra gli imbarcaderi intensamente trafficati di ogni genere di
merce fin dalle prime luci dell'alba, e quando questo sbaracca, al
tramonto, eccolo sostituito da quello notturno, arricchito da bancerelle
gastronomiche che tornano parecchio utili in questi giorni, perché
anche qui il Capodanno cinese prosegue imperterrito, e la maggior parte
degli esercizi commerciali è tuttora chiusa e le attività riprendono a
rilento: oggi era la giornata delle danze dei dragi e delle tigri di
cartapesta, manovrati da tre o anche quattro ragazzi agili come acrobati
a renderne le forme e i movimenti, anche stando
in equilibrio fino a tre uno sull'altro, al ritmo di una sarabanda di
tamburi e piatti, per fare ingresso nel tempio. All'esterno, la consueta
batteria di mortaretti e petardi e canne di bambù fumanti riempite
d'ìincenso. Da basso, maestoso e possente, scorre il Batang Rejang, la
vena aorta del Sarawak.
MIRI (Sarawak) - Quando
mi sono reso conto che nemmeno i cinesi, con i loro scatenati
festeggiamenti per il Capodanno (secondo il calendario lunare) sarebbero
riusciti a scuotere la flemmaticità e il rigore analcolico del Brunei, e
non essendo rimasto nient'altro da vedere nel Sultanato, ho deciso di
assistere al pandemonio che avrebbero scatenato in una città normale,
che si trova a pochi chilometri dal confine, nella parte nordorientale
del Sarawak che è Miri. Sette ore per una tratta di poco più di 150
chilometri, con quattro cambi di bus, due ore d'attesa durante uno di
questi, una traversata di fiume su una bagnarola che ha dovuto fare due
viaggi per trasbordare una quindicina di espatriandi, un'altra mezz'ora
all'ufficio emigrazione del Brunei, in attesa che la funzionaria di
turno al controllo passaporti si degnasse di raggiungere il bancone dove
apporre, con infastidita indolenza, il sospirato timbro d'uscita, ma
alla fine ne è valsa la pena. Come era d'aspettarsi, tutta la parte
commerciale della città era pavesata a festa, coi consueti lampioni di
carta rossi, festoni, pupazzi, immagini di bufalo/toro (il segno
zodiacale del nuovo anno), il tempio principale addobbato, alle sue
spalle una batteria
impressionante di razzi e petardi; altre postazioni, formato famiglia,
su quasi tutti i tetti delle case e anche agli angoli delle strade: con
una contraerea del genere per i bombardieri NATO sarebbero stati
problemi, durante le sciagurate incursioni del 1999! Purtroppo soltanto
dal primo pomeriggio a oggi si sono scatenati almeno 10 acquazzoni, di
durata variabile ma mai di durata inferiore alla mezz'ora, alcuni dei
quali di una violenza rara.Tutti rifugiati nei grandi ristoranti,
soprattutto di pesce, con enormi acquari da cui scegliere la pietanza
ancora viva, all'uso cinese, e da un'ora prima della mezzanotte fino a
un'ora dopo si è scatenato letteralmente l'inferno. E birra a fiumi, ma
anche whisky: quando c'è da darci dentro, i figli del Celeste Impero
non scherzano. Fuochi d'artifico del genere li ho visti raramente, non
riesco a immaginarmi cosa siano capaci di fare a Hong Kong, Shanghai o
Pechino. Questa mattina regnava il deserto, come da noi il primo
dell'anno o il giorno di Ferragosto. Per rendere l'idea del peso
economico della comunità cinese, numerosa ma comunque fortemente
minoritaria, in una città di medie dimensioni come questa, oltre agli
uffici pubblici e alle banche chiusi, cosa anomala in un Paese
musulmano, al mercato centrale era in funzione una postazione su dieci,
qualcuna in più a quello del pesce mentre erano al completo quelle del
lindo e ordinatissimo Tamu Muhibbah, presidiato dai dayak che vengono in città a vendere frutta e ortaggi di loro produzione. In fianco, sul lungofiume, il tempio buddhista del Tua Pek Kong (nella foto sopra a destra un dragone con palla),
avvollto in una possente nube di incenso, affollato fino
all'inverosimile di cinesi che oltre a rendere omaggio a divinità e
posteri bruciano in una fornace i ricordi cartacei, così mi è sembrato
di capire, dell'anno passato: calendari, agende. Colore predominante il
rosso: chiunque indossava almeno un capo d'abbigliamento di questo
colore: non ho avuto modo di verificare se la regola valesse gli
indumenti intmi. Miri, oggi 270 mila abitanti, era un borgo di pescatori
su un lato dell'estuario del fiume omonimo che si è trasformata in
centro
industriale,
commerciale e di servizi a traino dell'industria petrolifera, che si
sviluppò proprio qui dopo la scoperta dei primi giacimenti nella
Malaysia nel 1910: il primo pozzo, il Grand Old Lady, sulla Canada Hill, alle spalle del centro (qui a sinistra) disattivato nel 1972, è oggi monumento nazionale e qui sorge l'interessantissimo Petroleum Museum. A sottolinearne l'imprortanza, nel 2005 Miri ha ottenuto lo status
di città, primo caso di centro che non fosse la capitale di uno dei
tredici Stati della Federazione. Non è una bella città, il che è ovvio
considerata la sua vocazione, ma si è pure inventata una vena turistica
insospettata valorizzando alcune spiagge belle e ben curate nelle
immediate vicinanze, parchi perfettamente attrezzati con strutture
sportive e piscine (l'esatto contrario della tanto reclamizzata Labuan,
su cui il governo centrale ha investito molto e male, come ho
ricordato), e come base per le escursioni nei vicini parchio nazionale
di Gunung Mulu (Patrimonio dell'Umanità), Niah Caves, Lambir Hills e
Similajau. Peccato soltanto per il monsone che imperversa, quest'anno in
modo più "tropicale" del solito, mi dicono. Nel senso che qui
all'Equatore normalmente i fenomeni non sono così violenti, e ripetuti.
BANDAR SERI BEGAWAN (Brunei) – Sua
Maestà Paduka Seri Bagida Sultan Haji Hassanal Bolkiah Mu'izzaddin
Waddaullah Ibnu Al-Marshum Sultan Haji Omar Ali Saiffuddien Sa'
Adulkhairi Waddien, Sultan dan Yang Di-Pertuan Negara Brunei Darussalam:
questo il nome di quello che è stato per anni l'uomo più ricco del
mondo, e tutt'ora tra i primi posti in questa classifica, che guida il
Brunei fin da quando, nel 1967, a soli 21 anni succedette al padre
dimissionario. Anche lui (a destra il monumento che celebra il suo 60º compleanno, anche se sembra una pubblicità del Seven Up), come il nostro puttaniere del Consiglio, è sostanzialmente un dandy,
vuole essere amato a tutti i costi, ha un fratello più giovane e
perfino più pirla che combina disastri (il principe di qui, Jefri, in
qualità di ministro delle Finanze a suo tempo aveva lasciato un buco per
qualcosa
come 16 miliardi di dollari: in confronto anche il vecchio bamboccione
Pàoa S-ciopà e Tremonti sono dei dilettanti), ma è infinitamente più
ricco, più bello, più alto (pur essendo la media degli asiatici di qui
abbastanza modesta), più colto e più glamour,
oltre ad avere dieci anni di meno e un nome più lungo di quello già
abbastanza intorcolato di Silvio Berlusconi detto Mammaorsa il Piangina.
Che per ora quarant'anni di governo consecutivi se li sogna, a meno di
non tormentarci fino al suo 110º genetliaco.
Il Brunei dal 1888 era stato un protettorato della Gran Bretagna; nel
1929 quando vi fu scoperto il petrolio, Omar Saiffuddien, il padre
dell'attuale sultano (a lui è dedicata la moschea nelle due foto)
preferì non aderire alla Confederazione Malese affinché i proventi
rimanessero sul proprio territorio, con la benedizione inglese e della Shell,
e la stessa situazone di ripetè nel 1962 al momento di aderire alla
Malaysia, operazione che non andò in porto sempre con l'appoggio dei
medesimi tutori. La piena indipendenza giunse nel 1984, con scarso
entusiasmo da parte del sultano Hassanal Bolkiah, che fino al 2004 ha
continuato a regnare sul Paese sulla base di una legislazione
d'emergenza in vigore per oltre 40 anni, con una tendenza sempre più
marcatamante intergalista, e solo ora sta aprendosi a cautissime riforme
politiche. Il legami con la Gran Bretagna rimangono strettissimi e la
tutela della onnipotente Shell è garantita da qui all'eternità.
Il
buon Hassanal Bolkiah sarà anche un sovrano paternalista e con qualche
tendenza al dispotismo, però l'analfabetismo è praticamente inesistente,
le scuole sono tante e dappertutto: belle, ariose, semplici, e
soprattutto gratuite, così come l'assistenza sanitaria e la
frequentazione di centri per il tempo libero e le attività sportive; i
sudditi non pagano imposte sul reddito, godono di sovvenzioni anche per
acquistare un'automobile, e di prestiti a tassi d'interesse irrisori;
hanno la pensione garantita, la settimana lavorativa breve, il salario
minimo più elevato di tutto il Sud-Est asiatico e, non a caso,
un'aspettativa di vita di 77 anni: abbastanza ovvio che siano contenti e
non abbiano granché di cui lamentarsi. La loro giovialità,
amichevolezza e disponibilità sono gli aspetti più gradevoli di questo
Paese. Bella forza, si obietterà, visto che navigano in mezzo al
petrolio: ma non mi risulta che capiti lo stesso in Nigeria o nel
Venezuela socialisteggiante del compañero Hugo Chavez. Bandar Seri
Begawan, al di là del nome esotico, è un paesone di due strade e poi il
nulla di cinqantamila abitanti alla testa di uno Stato che ne ha 350
mila in tutto. Un Paese che per la sua insulsaggine mi ha ricordato il
Belize, dove le villette hanno l'aspetto di quelle alle periferie
americane popolate dai vorrei-ma-non-posso, e la cui capitale, per il
numero di abitanti e con le sue architetture pretenziose, incongrue e lo
squallore urbano realsocialisteggiante, mi ha fatto venire in mente il
capoluogo della provincia in cui vivo, Pordenone, con la quale ha in
comune un altro aspetto demenziale: come questa non ha uno sbocco al
mare, così il Borneo ha il suo territorio diviso in due parti non
comunicanti, per una delle consuete trovate degli inglesi. La piazza
dove sorgono i complessi commerciali Yayasan, coi suoi portici ciechi, in marmo scivoloso (geniale soluzione per
pavimentazione
in luoghi dove piove sempre) mi ricorda Piazza Venti Settembre, benché
la vista della Moschea di Omar Ali Saifuddien sia sicuramente meglio di
quella del Teatro Verdi, già definito con ragione un bidet da un noto
critico d'arte; ma l'inconfondibile stile mestrino-babilonese, di cui
Pordenone è l'emblema, è il medesimo. Altri spiazzi raccapriccianti
ricordano Piazza Risorgimento, detta altresì Piazza Tirana, alcune zone
il famigerato e indecente Bronx; anche la viabilità circolare ha qualcosa a che vedere con il ring
naoniano e perfino nel lungofiume vedo qualcosa in comune. Come
Pordenone, alla cui deturpazione hanno dato il loro fattivo contributo, a
diverso titolo ma con effetti ugualmente devastanti svariati esponenti
della mia famiglia nel corso di tutto il secolo passato (a alcuni
perseverano), si riscatta con Corso Vittorio Emanuele, anche Bandar Seri
ha un lato che fa dimenticare tutte le vaccate costruite negli ultimi
trent'anni: Kampung Ayer.
Si tratta di 28 villaggi, in cui vivono circa 30 mila persone, che si
estendono su entrambi i lati del fiume, costruiti alla maniera
tradizionale su palafitte, in cui le capanne, spesso colorate in tinte
vivaci, generalmente in legno, talvolta parzialmente in lamiera, o anche
prefabricati, sono collegate tra loro da un intrico di passarelle,
scale, canali; villaggi completamente autonomi, con le loro scuole,
ambulatori, stazioni benzina, posti di polizia e caserme dei pompieri,
officine,
ristoranti, bar, centrali elettriche: tutto. In alcuni, quelli più
vicini al centro ci si arriva piedi e sono quelli abitati dai più
poveri, spesso lavoratori stranieri a basso reddito (tanti filippini)
che non posseggono un'imbracazione, che è necessaria invece per
raggiungere quelli più distanti: non doveva essere molto diversa, la
Venezia delle origni! Mi è tornata in mente una considerazione: i
brasiliani, appena vedono un'altura che si erge anche di solo cento
metri in mezzo a una pianura non resistono alla tentazione atavica di
trasformarla in una favela,
retaggio forse degli antenati provenienti dalle Azzorre che dovevano
difendersi dagli invasori. Così dev'essere per i malesi: la dimensione
del kampung (villaggio) è quella che è loro congeniale e che riproducono
in qualsiasi sitazione, anche metropolitana; quando poi c'è l'aqua, ma
soprattutto un fiume a disposizione, inevitabilmente assumono la forma
di villaggi di palafitte dove la vita comunitaria è la regola. Qui nel
Borneo i fiumi, imponenti, non mancano: e sono anc ora oggi le
principali vie di comunicazione. Avrò modo di vedere altre longhouse,
diffusissime anche nel Kalimantan, il Borneo indonesiano, in cui
un'intera comunità vive in una sola struttura, scendendo la costa del
Sarawak di ritorno verso Kuching nei prossimi giorni. Intanto mi unisco
ai cinesi, piuttosto al coperto e stranamente silenziosi in questa città
rigorosamente analcolica, nell'augurare a chi legge buon passaggio
nell'anno del bufalo, o del toro, a seconda dei gusti!
LABUAN - La
"Perla di Labuan" era naturalmente, per chi non se la ricordasse, Lady
Marianna Guillonk, creatura partorita della fervida fantasia di Emilio
Salgari, la sposa di Sandokan, per la quale il fascinoso pirata si era
ritirato dalle sue scorrerie per vivere, un cuore e una capanna, con
l'amata sull'isola di Giava; vita corsara ripresa dopo la prematura
morte della bellissima fanciulla che venne sepolta a Batavia (Jakarta).
Il pirla sono io che, in questo revival salgariano fuori tempo
massimo, non ho potuto esimermi dal ficcare il mio naso anche in questo
posto alquanto insulso. L'isola, situata a 8 km dalla costa del Sabah e
all'imbocco della Baia del Brunei, ha un'estensione di meno di 90 km
quadrati e da un capo all'altro non ci sono più di una dozzina di
chilometri. Ceduta per riconoscenza nel 1846 dal Sultano del Brunei agli
ingesi, è stata per 115 anni sotto il loro controllo a parte i tre di
occupazione giapponese nei primi anni Quaranta. Come a Kota Kinabalu,
del periodo non rimangono tracce, a parte una misteriosa ciminiera e la
copia di una torre d'orologio (completata nel Duemila) sulla spiaggia in
fianco alla quale si sono svolti i fatti più importanti di Labuan: la
cerimonia di presa di possesso da parte britannica a metà Ottocento e lo
sbarco delle truppe del generale Douglas Mac Arthur nel 1945. Hanno a
che vedere con la Seconda Guerra Mondiale il Labuan War Cemetery (sotto a destra),
con le lapidi dei circa 4000 soldati del Commonwealth che persero la
vita in Borneo, e il Peace Park, che sorge nel luogo dove si arresero i
giapponesi e ospita un monumento che ricorda i loro caduti. Poco altro
da vedere, a parte il consueto museo etnologico, uno marino e un Bird Park.
Per il resto il capoluogo sembra una Lignano in bassa stagione e, per
chi la conosce, una via di mezzo tra Pineta e Sabbiadoro. Nemmeno
sgradevole, ma insignificante.
Labuan
è territorio federale, governato direttamente da Kuala Lumpur, e
insieme alle altre minuscole isole che la coronano costituisce un
arcipelago che oggi è porto franco oltre che importante centro
petrolifero. L'attività commerciale in regime di esenzione di tasse non
sembra avere molto successo: c'è qualche negozio col consueto
armamentario da duty free, con le loro bottiglie magnum
di superalcolici scadenti ma di marche universalmente conosciute, le
sigarette, i profumi: tutta roba da pubblictà televisiva, ma meno di
quelli che mi aspettavo e, quei pochi, vuoti. Ma sempre meno
desolantemente deserti del faraonico Financial Park, un centro
commerciale multipiano con vista mare pubblicizzato come la principale
attrazione turistica, tanto sfavillante fuori quanto squallido
all'interno, con intere sezioni vuote o in disarmo. Andata buca questa
iniziativa (forse i dirimpettai del Sultanato di Brunei Darussalam sono
davvero così probi da non cadere in tentazioni peccaminose), è in corso
un altro tentativo di riciclare l'isola, sotto il motto Make Labuan Your Second Home:
come la Florida, farne una sorta di paradiso per pensionati, ossia un
cimitero di elefanti. E' in corso da qualche anno e gli esiti mi
sembrano altrettanto penosi come quelli del porto franco. Ci sarebbero
le spiagge, e non sarebbero nemmeno male se fossero almeno un minimo
ripulite e attrezzate. Stamattina mi sono fatto portare a quella più
famosa, segnalata su tutte le mappe e i dépliant: Pohon Batu. Il primo
problema
è stato far capire al taxista, cartina alla mano, dove si trovasse. E
questo avrebbe già dovuto mettermi sull'avviso, ma ho insistito: perché
sono un pirla. Ed eccola: almeno due chilometri per lato di spiaggia
orlata di palme. Sabbia dorata? Macché, mucchi di rena bagnata, alberi
divelti, rami, foglie e noci di cocco marci, pattume marino e terrestre,
relitti di imbarcazioni e carcasse di copertoni, opere di
canalizzazione iniziate e mai finite, con spunzoni di ferro che
fuoriescono da cumuli di massi di cemento qua e là; il marciapiede del
lungomare, che pure, eccezionalmente, esiste, è sbrecciato. Intorno
soltanto qualche casupola, la consueta moschea in miniatura, un solo
piccolo emporio nell'arco di tre chilometri: figurarsi un bar o un
semplice chiosco. Qualcuno bivacca, sulla spiaggia, e ci stende i panni.
Evidentemente chi sovrintende al turismo locale preferisce puntare
sulle piccole isole che coronano Labuan, le cui acque celano quattro
relitti di navi affondate dalla seconda guerra mondiale in poi, e tra i
cui rottami si è sviluppata una vita marina paragonabile a quella di una
barriera corallina sana e particolarmente rigogliosa. Un paradiso per i
subacquei, a una profondità accessibile. Ma non ho osservato grande
movimento in questo senso al porto, né ho notato la presenza di divers
sull'isola. Né di molti altri visitatori stranieri. Siccome la
trascuratezza delle spiagge è una costante nel Sud-Est asiatico, con
l'eccezione della Thailandia, mi sono fatto una personale idea dei
motivi pensando al rapporto che le popolazioni locali hanno con
l'elemento liquido. Per i cinesi, motore di ogni iniziativa che abbia un
risvolto economico, il mare è soltanto un contenitore di pesci, al più
una discarica, e per le loro donne la vita di spiaggia equivale a una
bestemmia, terrorizzate come sono dal sole e dal pericolo che possa
deturpare il candore madreperlaceo e malaticcio del loro incarnato
(forse in onore della vecchia massima faccia smorta...),
preservato a qualsiasi costo, anche in spregio al ridicolo, con tanto di
mascherine sul volto, cappelli a falde larghe, occhialoni da sole,
calzerotti e guanti lunghi fino all'avambraccio (di notte, poi girano
seminude); i musulmani, dal canto loro, hanno costumi incompatibili con
la balneazione: rimangono i malesi, che non hanno di queste fisime e per
i quali mare e spiaggia sono strumenti e luoghi di lavoro, spesso duro,
così come i pescherecci, a loro volta di proprietà dei cinesi, per i
quali prestano la loro opera: al più in spiaggia ci abitano, in mancanza
di altri alloggi, in tutta disinvoltura piantandoci una tenda o
costruendoci una baracca. E fanno bene. Per quanto riguarda il turista
balneare, è meglio che si rivolga alle strutture organizzate, ai resort presenti
in alcune zone ben conosciute della Malaysia, come le Isole Perhentian o
Langkawi, o dell'Indonesia, in primo luogo Bali, prima di rimanere
deluso, altrimenti è meglio che lasci perdere. Se non altro a Labuan non
si sono ancora fatti venire l'idea di lanciare i casinò: un vero inno
all'imbecillità umana, frequentato di conseguenza, che svolgono però, a
loro modo, un ruolo educativo: spennare il grullo e possibilmente
rovinarlo a vita neutralizzandolo definitivamente.
KOTA KINABALU (Sabah) - Non
sono attrezzato né fisicamente, né materialmente e meno che mai
psicologicamente per affrontare la scalata del Mount Kinabalu (4095
metri: la cima più alta dal massiccio dell'Himalaya fino alla Nuova
Guinea) né tentato dallo snorkeling lungo gli oltre 14 mila
chilometri di coste dello Stato in questa stagione di monsoni, per cui
il motivo principale che mi ha spinto in questa città, che fino al 1963,
sotto dominio britannico, era chiamata Jesselton, è la presenza del terminal dei ferry che
portano a Labuan (dovuto omaggio a Salgari) e quindi nel sultanato del
Brunei con il quale i collegamenti stradali dal Sarawak sono laboriosi.
KK, com'è chiamata comunemente, non può essere paragonata alla
rilassante, in qualche modo incantata Kuching, con cui ha in comune la
simbologia animale, in questo caso il cigno anziché il gatto; anche
perché ha avuto la sventura di essere stata rasa al suolo due volte
durante la Seconda Guerra Mondiale dagli Alleati:
la prima volta nel tentativo (vano) di fermare i giapponesi, la seconda
per convincerli alla resa. Moderna ma per nulla sgradevole, 350 mila
abitanti che non si ammassano nella stesa area alla maniera indonesiana
ma distribuiti per svariati chilometri lungo la fascia costiera, Kota
Kinabalu è la capitale del Sabah, uno Stato semi autonomo come Sarawak,
in perenne conflitto col governo centrale perché solo una minima parte
degli utili prodotti qui (materie prime) torna ad affluire nelle casse
locali, e che attulamente risulta il più povero di tutta la Federazione Malese, con un tasso di disoccupazione
vicino
al 20%. Colpa anche del forte incremento demografico degli ultimi 25
anni, dovuto in gran parte dall'immigrazione incontrollata, soprattutto
dalle vicine Filippine. Come se non bastasse, la vicinanza
dell'arcipelago porta anche problemi di contrabbando, pirateria e pure
l'imbarazzante presenza dei ribelli musulmani di MIndanao che si
rifugiano nel Sabah per sfuggire all'esercito di Manila. A prima vista
tutti questi problemi non si notano, e KK mi sembra essenzialmente una
città di commercio e come tale, per definizione, in mano ai cinesi,
quanto mai attivi in questi giorni vicini alle celebrazioni del loro
Capodanno, che raggiungeranno il culmine nella notte tra domenica e
lunedì. Siccome buona parte dei negozi, all'ingrosso o al minuto, dei
ristoranti, delle imprese di tutti i generi sono in mano loro, che alla
festa e alle tradizioni ci tengono e non badano a spese, la città è
bardata di palloncini, lampioni, striscioni rossi; l'attività nei templi
buddhisti e nelle sedi delle varie società e famiglie ferve come non
mai: si tirano fuori e si lustrano maschere e cosutmi, si preparano le
coreografie delle sfilate, si propaga ovunque una diffusa atmosfera che
sta fra il Carnevale di Rio e Fuorigrotta, perché quanto a fuochi
d'artificio i cinesi non sono secondi a nessuno e perfino i napoletani
si inchinano, riverenti, davanti ai maestri assoluti. Sono curioso di
come se la caveranno nella Chinatown di Bandar Seri Belawan,
capitale del Brunei, dove vige la legge coranica, e cercherò di essere
là nella notte del passaggio dall'anno del topo a quello del bufalo.
Fornita di alcuni musei interessanti, tra cui quello di etnologia e
storia naturale, dopo il commercio l'altra attività di KK è il turismo,
qui organizzato in maniera quasi industriale, e con forti interventi
statali, a differenza che nel Sarawak, dove tutto si svolge in
un'atmosfera più familiare e informale e molto più rilassata, dove
nessuno si sogna di spingerti a fare per forza qualcosa.
E' anche per questo che ho preferito fare la visita a un centro di riabilitazione degli orang utan (in bahasa malaysia
letteralmente "uomo della foresta") nei pressi di Kuching, a Semenggoh,
piuttosto che in quello famosissimo di Sepilok, purtroppo preso
d'assalto daii turisti, per una scelta irresponsabile da parte
dell'amministrazione, col risultato che l'eccessivo contatto con gli
umani ha portato delle malattie che rendono difficilissimo il ritorno in
natura dei primati. A Semenggoh, venerdì scorso, c'erano dieci
visitatori e nel centro una trentina di orang utan, e una
dozzina quelli che hanno pasteggiato a due passi di distanza. Dopo
averli osservati da vicino mi rifiuto di chiamarli animali, e la mia
ricorrente battuta secondo cui sono le scimmie a discendere dall'uomo e
non viceversa assume un tono sempre meno paradossale, perché non è detto
che la linea evolutiva non porti nella loro direzione, Lo dimostra la
razionalità e, insieme l'intelligenza con cui reagiscono alla drastica
riduzione, a opera dell'imbecillità e dell'avidità umana, del loro
habitat naturale, facendovi fronte attraverso un ferreo controllo delle
nascite. A costo di estinguersi volontariamente in una sorta di eutanasia volontaria. Noi, che siamo così evoluti, stiamo ad ascoltare un babbione vestito di bianco o dei barbudos col turbante o il cilindro in testa, e la conseguenza sono le bidonville
della islamica Jakarta o della cattolicissima Manila, tanto per
rimanere in zona. E poi voglio vederlo, un umano, così atletico da
muoversi con la grazia e disinvoltura di un orang utan, anche
con un piccolo aggrappato, come danzando tra rami di alberi alti trenta
metri, ad aprire una noce di cocco in tre secondi o sbucciare le banane
con una mano sola!
KUCHING (Sarawak) - Da
anni ormai non esistono più traghetti che collegano la Malaysia
peninsulare al Borneo, saggiamente considerate le tempeste che si
abbattono con regolarità sul Mar della Cina, tantopiù in periodo di
monsoni, e che anche di recente hanno causato l'affondamento di una nave
indonesiana con oltre duecento morti, così il volo di un'ora e mezzo
che porta dalla moderna ed effervescente Kuala Lumpur alla sonnacchiosa
capitale del Sarawak è come se portasse in un'altra dimensione. Non
perché a Kuching manchino le comodità, i mezzi tecnoloigici più avanzati
o qualsiasi cosa di cui necessiti lo schizoide uomo d'oggi, ma tutto
quanto avviene e si muove in maniera molto più rilassata, la gente se la
prende comoda, il traffico ha ritmi e consistenza scandinavi, e in
qualche modo si ha la sensazione di di vivere non solo al rallentatore
ma in un'epoca indefinita, forse anche perché la Seconda Guerra Mondiale
ha lasciato
praticamente intatti gli edifici storici della città, che prese il nome
attuale nel 1872 per volere di Charles Brooke, figlio del primo rajah bianco
James Brooke (reso celebre in Italia dai romanzi di Salgari), mentre in
precedenza era nota come Sarawak, con lo stesso nome dello Stato e del
fiume in rtiva al quale sorge. Kuching in malese significa gatto, e
qualcosa di felino c'è in questa città sorniona e languida, che però
cambia aspetto all'improvviso, con tratti modernissimi che comunque si
integrano perfettamente con il resto. A parte l'espetto degli edifici,
di coloniale c'è l'atmosfera: ci si sente distanti da un centro ma allo
stesso tempo più vicini alla natura, in cui si è immersi più ancora di
esserne fagocitati: mi ha subito colpito la coscienza ecologica che uno
no si aspetterebbe da queste parti. Credo che altrettanto valga per
Saba, l'altra parte di Borneo malese, per il Brunei e per il Kalimantan
Indonesiano: chi lo abita, sente di appartenere al Borneo piuttosto che a
uno Stato. E qui i conti si fanno con la natura pirima ancora che con
il potere costituito che risulta qualcosa di remoto,
sfumato.
Anche la distribuzione etnica è più equilibrata che non sul continente:
non solo nessun gruppo prevale sull'altro ma l'integrazione è tale e
ben riuscita, per cui sono molto diffusi i matrimoni misti. Ne consegue
che anche l'Islam è meno pervasivo che nel resto del Paese e non può
essere utilizzato dal potere politico come collante della popolazione
malese principalmente in funzione anti-cinese. Tocca a una religione
così totalizzante adattarsi all'ambiente, ossia ancora una volta al
Borneo.
KUALA LUMPUR – La
differenza tra Jakarta e Kuala Lumpur è la stessa che passa fra quelli
che le due capitali hanno scelto come i simboli proprio e del Paese di
cui sono a capo: il Monas di Sukarno (e per un orecchio italiano del NordEst il suono è per così dire onomatopeutico: nomen omen) e le Petronas Twin Towers. Per quanto riguarda il Monas
rimando a quanto scritto qualche giorno fa: un'opera megalomane,
pateticamente senile, velleitaria, squallida e pure brutta a vedersi. Al
contrario, le due torri gemelle rivestite d'acciaio (300 mila
tonnellate), alte 452 metri per 88 piani sono un capolavoro
dell'ingegneria, da quella statica e delle costruzioni a quella delle
comunicazioni, un'opera d'arte: potenti, slanciate ma allo stesso tempo
lievi, un compendio della tecnologia più avanzata in tutti i loro
aspetti e valgono da sole una visita alla capitale della Malaysia. Vi si
può salire fino alla Skybridge, che collega le due torri al 41ー piano
e all'altezza di 170 metri, un ponte sospeso ancorato su delle eleganti
giunture (dal basso sembra di vedere due semiassi di automobili che
fanno perno su degli enormi cuscinetti a sfera) per potersi flettere
durante le oscillazioni delle torri dovute ai venti o a possibili
terremoti. Da fantascienza il sistema per neutralizzare i fulmini, che
si scaricano di preferenza qui, dato che le Towers
sono il punto più alto nel centro della città. Esempio di architettura
olistica – e sono circondate da un vasto parco ricco di laghetti – anche
l'impianto di condizionamento dell'aria è studiato in modo da essere
ecologicamente compatibile, mi fa piacere ricordare che sono state
progettate
dall'architetto argentino di origine italiana Cesar Pelli, e che
l'ispirazione alla tradizione islamica è voluta e ben visibile. La
pianta del pian terreno delle torri, ad esempio, è una stella ad otto
punte che oltre a sembrare un arabesco è un evidente richiamo simbolico,
così come i cinque ordini di ciascuna torre (i cinque pilastri
dell'Islam), i 63 pennoni disposti a corona che ricordano i minareti e i
due più alti, con alla base una sfera. Le Towers sono il quartier
generale della Petronas, la potente compagnia petrolifera e del gas
nazionale. Nata solamente nel 1974, anche se il petrolio fu scoperto
quasi un secolo prima dal Residente britannico nel Sarawak, la Petronas,
una delle principali realtà economiche della Malaysia, è di proprietà
del governo, risponde direttamente al primo ministro e ha l'esclusiva
dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi e di gas naturale
dell'intero Paese (situati soprattutto nel Borneo settentrionale e lungo
le coste del Terangganu) e ricorda la Petrobras brasiliana, anch'essa
costruita sul modello del nostro ENI, del compianto Enrico Mattei (il
suo imprinting architettonico è Metanopoli, San Donato, alle porte di
Milano: altri tempi, ma dai risultati tutt'altro che spregevoli, vista
la miseria che ne è seguita, con il Ligresti-Style).
I simboli sono estrememente significativi, ed esprimono il modo in cui
un Paese vede sé stesso oppure una dichiarazione di intenti: il Monas
è a un tempo un monumento al solipsismo di chi lo ha governato in
passato e lo governa tutt'ora e il desiderio di un'unità nazionale mai
davvero avvenuta; le Petronas Towers
sono la testimonianza del livello raggiunto dalla Malaysia sulla strada
di una modernizzazione fortemente voluta e diretta con mano ferma: il
fatto che siano due, involontariamente forse indica le due anime del
Paese, quella malese (e islamica) e quella cinese, il vero,
inarrestabile motore di progresso, nel bene e nel male, di questa area
del mondo. Come risorse, l'Indondesia non possiede nulla meno della
Malaysia, anche se la complessità dovuta al fatto di
essere
un arcipelago e di avere una distribuzione fortemente disomogena di una
popolazione comunque eccessiva la penalizzano, ma proprio la
prospettiva di creare un Paese nuovo per tutti gli indonesiani, al di là
delle etnie, sarebbe potuto essere un ottimo propellente e invece, dopo
50 anni dalla rispettiva indipendenza, tra i due Paesi c'è un abisso.
Senza prendere come riferimento parametri econometrici discutibili, né
modelli di “sviluppo” controversi, è sufficiente confrontare il livello
dell'istruzione e gli standard igienici. E' evidente che un Paese è
stato governato secondo un progetto e quell'altro no, come si evince dal
livello di corruzione, spaventoso in Indonesia: la lotta alla quale è
un ritornello risaputo e patetico quanto in Italia quello della lotta
alla mafia; e vittima di incontrollabili e ripetute esplosioni di
violenza. Corruzione e instabilità trascurabili in Malaysia, e a riprova
stanno gli investimenti di capitali stranieri qui e non in Indonesia,
dove pure la mano d'opera costa molto meno. Ma non è altrettanto
istruita, capace e affidabile. Un'altra cartina di tornasole è
l'apertura verso l'esterno: 30 giorni di visto non rinnovabile, a
pagamento, in Indonesia; tre mesi, gratis e rinnovabili qui. Se tra
Malaysia e Indonesia c'è un balzo di 40 anni in termini di sviluppo, tra
Kuala Lumpur e il resto della Malaysia ce ne sono almeno altri dieci:
me l'avevano descritta come una città caotica, in cui c'è poco da
vedere, climaticamente infelice, ma chi l'ha fatto, evidentemente, non
era mai stato a Jakarta. All'aeroporto Sukarno-Hatta, 30 km dalla città,
ieri, ci ero arrivato in taxi in impiegandoci un'ora abbondante,
guadando strade allagate e attraversando ingorghi deliranti, pur in
controtendenza rispetto al traffico in
entrata
a Jakarta; al Kuala Lumpur International Airport, che come efficienza e
modernità batte forse perfino Changi a Singapore, mi è sembrato di
essere arrivato in paradiso. Immigrazione e recupero bagagli in 15
minuti; 75 km in treno in trenta minuti per 5 euro (partenza ogni 15': a
Milano il Malpensa Express parte ogni mezz'ora, ce ne mette 40' per 37
km e ne costa 18, di euro), e dalla KL Central Station in albergo con
taxi a coupon
prepagato a prova di abusivi e tuffatori (meno di 2 euro). Complice una
giornata ventilata, aria pulita, mi è parso di rivivere. Strade pulite,
marciapiedi degni di questo nome, traffico sostenuto ma tranquillo: ci
si muove agevolmente; mezzi pubblici di prima qualità; una città quasi
interamente cablata, nei progetti governativi capolinea del progetto Multimedia Super Corridor
tra la capitale e Putrajaya, la nuova Sylicon Valley malese; un
affascinate alternarsi fra memorie coloniali e costruzioni ardite, ma
che del passato conservano memoria. Kuala Lumpur non è solo le Petronas Towers,
ma anche musei (l'Islamic Arts Museum è considerato il migliore al
mondo nel suo genere, e già è un'opera d'arte la sede che lo ospita),
gallerie, sale da concerto, giardini e parchi, tanto verde curato con
amore. Una città vivibile, che da tempo ha smesso di essere una
Cenerentola del Sud Est Asiatico, per diventarne una delle città più
gradevoli e meglio organizzate, capace di fare concorrenza anche alla
vicina Singapore e a Hong Kong. Una piacevolissima sorpresa.
JAKARTA – Al
30° giorno, il visto concesso all'arrivo in Indonesia scade e non può
essere né rinnovato né esteso, e tocca quindi rientrare in Malaysia. Il
biglietto da Jakarta per Kuala Lumpur, poco meno di due ore di volo, di
linea e con la compagnia di bandiera Garuda, costa 120 € senza andare a cercare chissà quale occasione low cost
in rete o nelle agenzie. Più che onesto, considerato quanto occorre
sborsare per i voli interni nella Terra dei Cachi. Tantopiù oggi che AliMerda alias Alitalia, dopo aver assorbito AirOne,
è tornata ad essere la supermonopolista che è stata per quarant'anni.
Se qualcuno che legge volesse organizzare un viaggio in Indonesia,
aggiungendo al percorso che ho fatto io qualche isola e il Borneo, gli
suggerisco di farsi rilasciare dall'ambasciata a Roma un visto della
validità di 60 giorni: occorre però utilizzarlo in date prefissate.
Credo che tornerò in questo Paese: nonostante la povertà, i disagi,
spesso la sporcizia, la disorganizzazione generalizzata, le gente in
primo luogo, e alcuni paesaggi tra i più belli che abbia mai visto,
molto più che i monumenti, sono le note più che positive di questo
viaggio. E questo vale per Sumatra in misura molto
maggiore
che per Giava, eccessivamente caotica e ormai imbastardita. Bali non
l'ho presa nemmeno in considerazione, sputtanata com'è, ma le isole di
Nusa Tenggara, Sulawesi, il Kalimantan (Borneo Indonesiano), Flores e
Timur valgono senz'altro la pena di un altro viaggio, e lì gli
spostamenti sono più ardui e non si può essere schiavi del tempo. Mandi
Indonesia, dunque: che è il saluto, una sorta di parola d'ordine in
friulano ma anche un'istituzione del Sud Est Asiatico, e dell'Indonesia
in particolare: a corredo, le foto di alcuni esemplari. Si tratta della
stanza da bagno: costituita da un cesso alla turca, che va da una
semplice buco per terra dotato di pedana (la forma della suola di due
scarpe, in posizione) alle versioni più sontuose, in ceramica e con rialzo e, appunto, un mandi,
che è una vasca quadrata, che va costantemente riempita d'acqua, e
dotata di un mastello. Di plastica o, nelle edizioni di lusso, in
metallo. Si intende che il mastello sostituisce le funzioni sia della
doccia, sia del supporto del rotolo di carta igienica, oggetto
sconosciuto (giustamente, altrimenti gli scarichi si intaserebbero).
Bisogna farci l'abitudine, però il sistema funziona. Non è il caso,
ovviamente, di immergersi
direttamente nel mandi, cosa
che prima o poi qualche occidentale imbecille inevitabilmente fa:
l'acqua deve rimanere pulita perché la devono usare anche gli altri
avventori, che possono essere parecchi. Il mastello serve per versarsela
addosso. Lo stesso vale per lavarsi gli indumenti: il risciacquo non è
una cosa semplice, ma si impara: innanzitutto a non esagerare col
detersivo! Un mandi ai simpatici ratti indonesiani, rapidi e
silenziosi, l'occhio vispo e intelligente, anche quelli di dimensioni
ciclopiche: come lepri. Un mandi al durian, il frutto che unisce tutti i malesi al di là dei confini, chiamato anche jackfruit, e alla sua versatilità di utilizzo. Un mandi
alla cartamoneta indonesiana, con la speranza che tolgano almeno tre
zeri dalla valuta prima che ritorni da queste parti. Occorrono circa 15
mila rupie per fare un euro, e il biglietto da mille è l'unità base, il
più diffuso: circa 0, 75 euro cent, neanche 150 lire di una volta.
Quando si dice, letteralmente, averne le tasche piene e non sapere dove
cacchio metterne i rotoli. Un mandi alle coppiette che si
infrattano nei rari parchi, anche se la ragazza ha il velo: sperando che
se ne liberino in fretta, dei veli. E magari anche delle infradito con
calzerotto color carne, bianco o beige chiaro: hanno un effetto da
castrazione chimica. Un mandi alla Nokia, che ha una specie di inspiegabile monopolio nel Paese:
ce
l'anno quasi tutti. Devono farne delle versioni speciali per qui,
considerando anche temperature e tassi di umidità: tutti quelli che ho
avuto io mi si sono scassati in men che non si dica. Un mandi alla stragrande maggioranza dei musulmani di questo Paese: i più laici che abbia mai conosciuto. E uso il termine laici volutamente, e non quello ambiguo di tolleranti. Un mandi ai terminal dei bus di Giava: infiniti e mobili. Non si sa bene dove inizino, meno che mai dove finiscano. Anzi: non terminano mai. Ogni posto è buono per una fermata, per strada non si lascia mai nessuno. Un mandi agli ambulanti e ai venditori, stanziali o in perpetuo movimento, agli strimpellatori, sui bus come nei warung per strada mentre ingurgiti un bakso (corroborante zuppa di noodles con polpette di carne, opportunamente speziata: deliziosa!) ma soprattutto ai guidatori di becak, pensando a quante volte vi ho mandati affanculo. Insomma, arrivederci, Indonesia!
JAKARTA – Una
metastasi urbana di circa dieci milioni di abitanti, nessuno sa dirlo
con precisione e sicuramente non le autorità che fanno finta di
governare questo caos, che è il polo d'attrazione per gente proveniente
da tutto l'arcipelago: se è questo il crogiuolo in cui si forma
l'identità del “Nuovo Indonesiano”, al di là di ogni appartenenza
etnica, questo Paese ha davanti a sé un futuro molto problematico. Una
città orrenda, immersa in una perenne nube tossica, attraversata qua e
là da canali mefitici, che si estende dall'antico porto di Sunda Kelapa
verso Sud per ben 25 chilometri, occupando oltre 650 chilometri
quadrati di una pianura dal clima insopportabilmente torrido, i cui
unici punti di riferimento sono i grattacieli dei sobborghi residenziali
meridionali e i vulcani che circondano la vicina Bogor, quando si ha la
fortuna di intravederli. La città portuale venne occupata dai
portoghesi già nel 1522, poi riconquistata cinque anni dopo da Sunan
Gunungjati, che la ribattezzò “Jayakarta” (la Vittoriosa) e la trasformò
in feudo del sultanato di Banten. In seguito fu a lungo contesa tra
inglesi e olandesi, finché questi ultimi nel 1619 ebbero la meglio, la
rasero al suolo e costruirono una nuova fortezza, ribattezzando la città
Batavia, che divenne la
capitale delle Indie Orientali Olandesi. Batavia prende il nome da una
tribù che abitava i Paesi Bassi in epoca romana, ed è grazie al genio
batavo, che notoriamente è alimentato ad acqua,
che dobbiamo la presenza di alcuni malsani canali di drenaggio che
ancora oggi attraversano Kota, il quartiere attorno al porto antico,
forse per ricreare l'atmosfera di Amsterdam all'Equatore. Sorvolando sul
clima e la invincibile tendenza locale a fare di ogni rigagnolo una
fogna e una discarica a cielo aperto. Da allora Jakarta è cresciuta in
modo smisurato, caotico e senza alcun criterio urbanistico, ma sempre
coi suoi miasmatici canali che compaiono qua e là, tendenza che non è
dimunuita da quando, nel 1950, divenne la capitale della Repubblica
Indonesiana. La città non ha un vero e proprio centro, a meno che non lo
si voglia considerare Lapangan Merdeka, la piazza dell'Indipendenza, uno spiazzo di oltre mezzo chilometro per lato, per una volta messo a verde e non desolato come nelle città viste finora, nel cui centro si erge il Monas, quantomai opportuna abbreviazione che sta per "Monumen Nasional",
una specie di obelisco in marmo bianco italiano alto 132 metri e
sormontato da una fiamma ricoperta di lamina d'oro. In sostanza un
grande cazzo (qui lo chiamano L'ultima erezione di Sukarno)
voluto
dal dittatore, noto donnaiolo, probabilmente a eterna memoria della
propria virilità, iniziato nel 1961 e inaugurato dal suo successore.
Affacciati sulla piazza, alcuni musei e una serie di palazzi in stile
neoclassico e coloniale, tra i pochi decenti della città. In realtà
Jakarta ha diversi centri, separati tra loro da giganteschi macet,
come qui vengono chiamati i catastrofici ingorghi stradali.
Invariabili, anche la domenica, come gli acquazzoni che imperversano
sulla città, e provvedono ad aggravarli oltre che a formare veri e
porpri torrenti impetuosi e pozze luride che sembrano laghi. Non mi
soffermo sulle baraccopoli che ho potuto osservare dal treno proveniente
da Cirebon, in avvicinamento al centro: oltre alle catapecchie
costruite sotto ogni cavalcavia, impressionanti quelle erette sugli
argini dei fiumiciattoli putridi che attraversano questo marasma
informe, in equilibrio statico così approssimativo che ci si chiede solo
quale dei prossimi fortunali le spazzerà via: credo che nessuno tenga
questo tipo di contabilità, né un'anagrafe degna di questo nome. L'unica
parte della città che riveste un qualche interesse è quella coloniale
di Kota,
la città vecchia di Batavia, fulcro del dominio olandese; ma le
strutture, i magazzini e i palazzi del passato sono distrutti o ridotti
in uno stato penoso. Alcuni di quelli che danno sul Kali Besar, la
fetida cloaca che la Lonely Planet
decanta come “un bellissimo canale”, sono utilizzati, oltre che come
abitazione di derelitti, come luoghi di stoccaggio e cernita di rifiuti.
Capaci pure di chiamarlo riciclaggio! Ora: potrei anche capire che gli
indonesiani detestino a tal punto ogni traccia del passato coloniale e
della pessima amministrazione olandese da volerla cancellare, ma allora
basterebbero qualche candelotto di dinamite e alcune ruspe. Invece, ne
hanno fatto il quartiere turistico per eccellenza, allestendovi l'unica,
microscopica isola pedonale di tutta la città, con la Taman Fatahillah,
la piazza principale su cui si affacciano una serie di musei nonché
l'affascinante, celebre ed esageratamente esoso Café Batavia,
che è diventata uno dei punti di raccolta delle nuove generazioni della
capitale: dagli islamisti salmodianti ai discotecari, tutti a
fotografarsi e filmarsi a vicenda con modernissime e ingombranti
foto-videocamere digitali. Senza alcun dubbio la gioventù più brutta che
ho visto in tutto il Paese: i
maschi
dei decerebrati assoluti, senza eccezione, il cui sguardo esprime solo
demenza; le ragazze, per quanto più sveglie, con tinture grottesche e mise tra l'infantile, in stile nippo,
e il puttanesco ma pur sempre sul genere Lolita. Di solito il miscuglio
di razze dà risultati sorprendenti e positivi, in un posto del genere
il melting pot
ha avuto effetti devastanti. Quanto mai appropriato, dunque, il
sopannome di “Big Durian” affibbiato a Jakarta, parafrasando la “Grande
Mela”. Il durian
è un frutto controverso, dalla forma di un melone spinoso che può
raggiungere dimensioni di una gigantesca anguria, quasi un simbolo
nazionale, di cui si dibatte se sia ottimo oppure disgustoso, tanto che
molti alberghi oltre a non tenerlo ne vietano l'introduzione. Un frutto
che secondo me è anche commestibile, a piccole dosi, ma il cui odore è
assolutamente repellente. Insomma: sotto la scorza in questa città
qualcosa c'è, altrimenti non sarebbe così vitale, e comunque è qui che
si concentrano industrie, servizi, governo, università, uno dei porti
più attivi dell'Asia intera, ed è indiscutibile la sua capacità di
essere da sempre il polo che attira le proteste più radicali e
clamorose, sfociate più volte in eplosioni di estrema violenza, e di cui
spesso nel corso della storia ha fatto le spese la minoranza cinese,
l'ultima volta nel 1998 durante la rivolta che avrebbe portato alle
dimissioni di Suharto. Purtroppo, prima o poi, se si viene in Indonesia
con Jakarta occorre fare i conti se non altro per via dell'aeroporto
internazionale, a meno di non fare direttamente rotta su Bali, che è un
mondo a sé stante, oltre che turisticamente infestato e sputtanato, che
col resto del Paese ha poco a che vedere.
CIREBON – Situata
a metà strada fra Semarang e Giakarta sulla costa settentrionale di
Giava, questa tranquilla città di circa 280 mila di abitanti è fuori
dalle rotte turistiche abituali ma i suoi tre kraton
e, a quel che si dice, l'ottima cucina di pesce sono un ottimo motivo
per una visita se non altro ritardare per quanto possibile l'impatto con
i giganteschi e quotidiani ingorghi della capitale con cui toccherà
comunque fare i conti nei prossimi due giorni, in quanto Giakarta è
tappa obbligatoria per i voli in uscita dal Paese, inevitabile
data l'imminente scadenza del visto indonesiano, di trenta giorni in
entrata, a pagamento e non rinnovabile né soggetto a estensione. Cirebon
venne fondata come sultanato indipendente attorno al 1500, fu alleata
del regno di Mataram e nel 1705 divenne protettorato olandese,
amministrata congiuntamente da tre sultani, fatto a cui si deve la
dovizia di palazzi dei regnanti, kraton per l'appunto: si tratta del Kesepuhan (in alto, a destra) eretto nel 1527, del Kanoman, che risale al 1588 e del Kecirebonan,
costruito nel 1839, che è tuttora la residenza dell'attuale famiglia
reale. Oltre a questo, non c'è praticamente nulla da vedere, tantomeno
il mare: ché da queste parti non si usa né una strada litoranea né una
semplice passeggiata e forse è anche meglio, considerata l'abituale grossezza,
il moto ondono impetuoso e il colore poco allettante, almeno in questa
stagione. Al massimo il porticciolo, dove dondolano i variopinti e
tradizionali peraho (i praho di salgariana memoria, sotto a sinistra)
usati per la pesca. In compenso la città è letteralmente invasa da
sciami di libellule, grosse quanto dei passeri ben pasciuti, che con i loro
movimenti simili a quelli degli elicotteri, fatti di sospensione
nell'aria e improvvisi scarti laterali, rendono l'atmosfera vagamente
inquietante e
allucinogena.
A Cirebon, su una base islamica si sono innestate le più moderne usanze
giavanesi, quelle sundanesi e quelle cinesi, dando vita a un cocktail
culturale ed etnico che si legge anche dai lineamenti degli abitanti,
piuttosto eterogeneo e frizzante, e questo dà un senso a una città che, a
parte i kraton, risulta alquanto insignificante. Non
so se la particolare insistenza, che rasenta la molestia, da parte
soprattutto dei guidatori di becak, i “trisciò”, sia
dovuta alla scarsa familiarità coi turisti, ma sentirsi apostrofare
centinaia di volte al giorno non solo con la litania hallo mister, ma con la domanda where are you going, o what are you looking for
in una città che si sviluppa su una sola strada che l'attraversa e in
cui da vedere e fare non c'è assolutamente niente, salvo appunto
passeggiare, risulta esasperante. Tanto più se fatto, come talvolta ho
l'impressione, con una traccia di arroganza: al di là dell'idiosincrasia
che nutro in generale per qualsiasi estraneo tenda ad impicciarsi dei
fatti miei spinto non da curiosità ma dall'ansia di spillarmi quattrini.
E' anche il primo posto in Indonesia in cui mi pare che alcuni si
dilettino a fare commenti e riderti alle spalle, sicuri che non si
capisca la lingua, ma i toni rimangono inequivolcabili. Da un altro
punto di vista, quello della scarsa per non dire nulla versatilità
linguistica degli indonesiani è un problema in un Paese che ha visto
crollare gli afflussi turistici in seguito a una serie di attentati da
parte di estremisti islamici, a cominciare da quello a Bali nel 2002
seguiti da quelli a Jakarta del 2003 e 2004. Ho sentito spesso gente che
mi chiedeva il motivo della cattiva stampa di cui gode l'Indonesia, con
i ministeri degli Esteri dei Paesi occidentali che invitano a evitarla e
quantomeno a usare estrema prudenza. Credo di aver già detto altrove
che si tratta di un allarmismo assolutamente ingiustificato: mai durante
un mese in giro da solo ho avuto una sensazione di insicurezza o di
pericolo, sicuramente meno che in una qualsiasi periferia urbana
eurpoea: il pericolo islamico, se così vogliamo
chiamarlo, lo si avverte molto più in nella supponente, “sicura” e
turisticizzata Francia che non nell'immensa periferia povera di
Giakarta. L'islamismo è quanto mai bonario e tollerante, buona parte
della gente non è osservante, e non costituisce un problema. Ma le
carenze nei confronti del viaggiatore straniero esistono e creano
disagi, a cominciare dall'incomunicabilità. Ieri ad esempio, per
visitare il kraton Kesepuhan, ho dovuto
ingaggiare una guida, le cui uniche parole intelleggibili erano yes e portughs, che si pronunciano pressoché uguali anche in bahasa indonesia,
e non ha smesso di parlare per mezz'ora, nonostante gli ripetessi fino
alla noia che non capivo un accidenti. Nel museo, non una didascalia
era in inglese, idem per la scarse se non inesistenti indicazioni per
le strade. Scena simile in un famoso ristorante di pesce: non uno che
parlasse due parole in croce d'inglese maccheronico, e menu
rigorosamente monolingue, senza nemmeno usare l'accortezza di farlo
fotografico, come perlopiù accade: ho finito per cenare in un warung per strada, con griglia all'aperto, accomodato su una stuoia stesa sul marciapiede, usando l'universale sistema del guarda-e-indica,
componendo la mia comanda con il dito. E così nell'albergo in cui mi
trovo: bello, elegante, moderno. In mezzo alla veranda campeggia un
frigorifero con una decina di Coca Cola, qualche
bottiglietta d'acqua e alcune di tè freddo. Birra: neanche a parlarne.
Questo avrebbe già dovuto indurmi al sospetto. Sulla lista del bar è
annunciata la scelta tra una decina di fantastici succhi di frutta,
tutti naturali, tutti invitanti. Mezz'ora di questo rituale: un receptionist
prende l'ordine: succo di mango, decido. Ce ne sono alberi stracarichi,
intorno: vado sul sicuro, mi dico. Riferisce la comanda via telefono
all'addetto, in divisa, che si trova a meno di dieci metri e che
risponde, annuendo, in mia presenza. Posata la cornetta, questi va in
cucina dai cui meandri viene inghiottito. Ricompare sorridente sulla
scena dopo un po' con un sacchetto in mano e si mette a pasturare i
pesci nella vasca del patio e intanto mi guarda, ammiccando. Dopo dieci
minuti arriva il receptionist incravattato, quello che parla 8 parole d'inglese: sorry mister, manga finish. Lemon, orange.
E vada per il lemon! La scena si ripete uguale, solo l'addetto alla
pastura dei pesci è diverso. Ma sempre in divisa, impeccabile. Svanisce
nel nulla. Dopo un'altra decina di minuti ritorna l'incravattato: sorry mister, lemon finish.
“Ok orange, no problem”, gli dico, e mi accorgo che mi sono già messo
al suo livello di comunicazione: frase essenziale ma al contempo
incerta, dizione sincopata e sorriso accomodante, magari con lieve,
ripetuto inchino incorporato. Dopo altri dieci minuti, nicchiando con la
testa come preso da un tic e sorridendo come un ebete, e con una sete
bestiale, rientro in camera, dandomi del pirla. Sto già rantolando,
disidratato, quando bussa alla porta un tipo, divisa sempre perfetta, e
sul vassoio campeggia un bicchierone di succo su cui galleggia un enorme
pezzo di ghiaccio. Era mandarino, spaventosamente dolciastro,
allappante. E oggi, dopo averlo ingurgitato, seguito dal pesce, regolare
e inevitabile ha colpito il cagotto. Va un po' meglio nelle stazioni,
dove alle biglietterie c'è sempre del personale, prevalentemente
femminile, in grado di capire e farsi capire: e ho notato da subito che
sono le ragazze a essere più sveglie e istruite. Nel mio albergo sono
tutti rigorosamente maschi, e questo spiega molte cose.
SOLO – Ad
appena 65 chilometri da Yogyakarta, da cui è comodamente raggiungibile
in treno, Solo, chiamata anche Surakarta, è l'altra culla della cultura e
delle tradizioni giavanesi. Con oltre mezzo milione di abitanti, è più
popolata della più famosa Yogya, ma infinitamente meno affollata e le sue maggiori attrazioni, i due palazzi del Puri Mangkunegaram e il Kraton,
non hanno nulla da invidiare a quelle della sua vicina. Solo fu fondata
nel 1745 da Pakubuwono II, dieci anni prima di Yogyakarta, in seguito
alla distruzione di Kotosuro, la vecchia capitale del regno di Mataram,
ma i suoi successori non riuscirono a evitare la conquista di metà dei
loro territori da parte della città rivale, finché nei primi decenni del
Novecento Pakubuwono X non riuscì a ridare prestigio alla propria
dinastia, promuovendo la cultura, in particolare le arti e la musica, ed
evitando di farsi coinvolgere in dispute con altri sovrani. Una scelta
di neutralità e per il quieto vivere che però, dopo la fine della
Seconda Guerra Mondiale, favorì ancora una volta Yogyakarta, che invece
era diventata il simbolo e uno degli epicentri della lotta per
l'indipendenza. Il Kraton sorge su un estremo dell'Alun Alun, il
vasto spiazzo erboso di forma quadrangolare tipico delle città
indonesiane; sul lato opposto a quello dove si trova il mercato degli
orafi, mentre su quello a Est si affaccia la moschea Agung. Intorno e
dietro al Kraton vero e proprio, come a Yogyakarta si
estende una cittadella tutt'ora cinta da mura e dotata di planimetria
ortogonale. Il cuore del palazzo è costituito da una serie di padiglioni
di forma quadrangolare, aperti sui lati, col tetto a forma di pagoda mozzata, e i pavimenti in marmo italiano, di cui il più grande, il pendopo,
fungeva da sala delle udienze o di cerimonie, con alle sue spalle il
palazzo vero e proprio, sempre ad un piano e disposto attorno a un
patio, però non accessibile.
Il Kraton è stato in buona parte ricostruito dopo un devastante incendio avvenuto nel 1985, che aveva però lasciato intatto il Panggung Songgo Bowono (foto in alto a sinistra),
un curioso ibrido tra un incongruo faro e una torre-orologio di foggia
olandese dipinto di bianco e d'azzurro come il porticato che circonda
gli edifici oggi adibiti a museo. Secondo me più interessante e più
sontuoso, seppure meno imponente, il Puri Mangkunegaran,
in cui ha sede il ramo secondario della dinastia di Solo, che vive a
tutt'oggi nel palazzo. Probabilmente anche per questo motivo è tenuto
molto meglio del Kraton. Fu eretto nel 1757 dopo una
furibonda lotta tra Pakubuwono II e il nipote Raden Mas Said, tra
l'altro antenato della defunta moglie dell'ex presidente indonesiano
Suharto. Pur trattandosi di un suri, ossia palazzo, ha la medesima struttura di un kraton, che propriamente è la sede dei regnanti: manca, attorno, la cittadella fortificata. Davvero notevole è il museo del palazzo, i cui pezzi esposti, eterogenei e che
spaziano dai costumi per le danze rituali giavanesi a gioielli, monete,
porcellane, cristalli e argenteria provenienti da tutto il mondo, con
prevalenza di manufatti olandesi, italiani e belgi, appartenevano per la maggior parte alla collezione personale di Mangkunegara VII, il
nonno
dell'attuale principe, che è il IX della serie, ha 57 anni e possiede
uno splendido cacatua bianco di 52 con cui ho stretto amicizia. E, da
quello che ho potuto vedere, abita in una dimora semplice ma bellissima,
piena di verande e contornata da un giardino splendido. Nel pendopo, uno dei più grandi dell'Indonesia, dal soffitto a volta, sono custodite ben tre batterie di strumenti dell'orchestra gamelan:
una per gli spettacoli di danza, una per le musiche rituali e un'altra
usata soltanto in occasione dei matrimoni. La più antica si chiama Kyay Kanyut Mesem, che significa lasciarsi andare sorridendo.
Questa mattina mi è capitato di assistere a una esibizione di danza: ho
contato venticinque orchestrali, di cui venti addetti a gong, timpani e
xilofoni di varia grendezza, foggia e naturalmente suono: in tutto tra i
60 e gli 80 strumenti diversi; tre a degli strumenti a percussione in
pelle e due agli strumenti a corda; otto cantanti, o coriste, tutte
donne adulte, e otto giovani danzatrici (più in alto, a destra).
Niente di turistico: non erano nemmeno drappegggiate con abiti di scena
dorati e tintinnanti come da iconografia tradizionale, ma abbigliate
con normali sarong stretti in vita da un'ampia fasciatura.
Non ce l'ho fatta a resistere per più di mezz'ora perché tra
l'insopportabile nenia che veniva mormorata, la melodia di una tediosità
infinita e i movimenti al rallentatore delle ballerine stavo cedendo a
un sonno ipnotico, e probabilmente è proprio questo l'effetto desiderato
da un ensemble strumentale che porta il nome di cui
sopra. Per il resto Solo è una città in cui è piacevole girare perché
non si è sopraffatti né dal traffico né dall'insistenza di venditori,
gudatori di becak (trisciò), procacciatori a vario
titolo; le vie principali sono larghe e spesso alberate (e non mancano
le piante i gustosi avocado vedi foto), i maricapiedi per una volta non sono divelti e crivellati da buche, e qui è evidente come la città si composta di tanti kampung
(villaggi) diversi, dall'atmosfera quieta, serena, dove si respira
quasi un'aria di campagna: ognuno ha il suo portale con tanto di arco
d'ingresso con inciso il nome del quartiere. Infine, finora è questo il
posto in cui ho visto i batik di fattura migliore e coi motivi più classici. Oltre a quasi l'intero piano terreno del Pesar Klewer, il mercato principale, dedicato a questo tipo di tessuti, ci sono un'infinità di fabbriche e atelier,
dai piccoli produttori artigianali ai negozi di lusso, che possono
soddisfare qualsiasi richiesta competere con quelli più raffinati
d'Europa.
YOGYAKARTA -E
va bene così: ho scelto la giornata sbagliata per andare a visitare i
siti archeologici più importanti e famosi dell'Indonesia, ma anche
quella giusta. Sbagliata perché domenica: benché sia un Paese abitato al
90% da musulmani, per quanto tiepidi, è in vigore il consueto
calendario occidentale, almeno per tutte le attività che non hanno a che
fare col commercio. Scuole, banche e uffici pubblici sono chiusi, per
cui una massa di gitanti, composta prevalentemente da famiglie, si
precipita a Borobodur e Prambanan, i cui templi sono peraltro immersi in
grandi parchi. L'occasione giusta per stare all'aperto, fare quattro
passi, godersi un po' di fresco sotto alle fronde degli alberi. E anche
un po' di cagnara e un sacco di foto. Una scelta giusta perché in tutta
la giornata non è caduta nemmeno una goccia d'acqua, e per giunta io
avevo osato sfidare il monsone decidendo di muovermi in mototaxi, la soluzione più economica per spostarsi autonomamente su distanze a medio raggio da Yogya, nella fattispecie 42 km a Borobodur e 17 a Prambanan. Il primo (foto in alto a destra, con sullo sfondo il Merapi)
è un tempio buddhista fatto costruire dalla dinastia Sailendra tra il
750 e l'850 d.C., concepito come la rappresentazione del cosmo da parte
buddhista, trasposta in pietra, partendo dalla base, 118 metri per 118,
con sei terrazze quadrate, coronate da altre tre circolari
e con quattro ripide scalinate che salgono verso la cima (il Nirvana).
In sostanza uno stupa gigantesco, che riveste una collina “come la glassa di cioccolato ricopre una Sacher” (Scaini, nda) e costituito da 2 milioni di blocchi di pietre. Visto dall'alto, si dice che la struttura corrisponda a
quella
di un mandala tantrico a tre dimensioni: un percorso a spirale di ben 5
chilometri tra pareti scolpite a bassorilievo in una trasposizione
delle dottrine buddhiste, rappresentazione della vita quotidiana e del
percorso sulla via della perfezione; gallerie ricoperte di pannelli con
innumerevoli immagini del Buddha che le sovrastano, oltre ai 72 Buddha seduti e posti in nicchie all'interno degli stupa, e visibili soltanto in parte. Qualcosa che ricorda l'Angkor Wat,
in Cambogia: ma proprio perché conosco quest'ultimo, forse l'artefatto
più portentoso che mi sia mai capitato di vedere, sono rimasto un po'
deluso, anche se l'atmosfera magica di Angkor, e la struggente bellezza
della Cambogia e la infinita dolcezza del suo popolo profondamente
buddhista sono incomparabili. In seguito al declino del buddhismo il
tempio venne abbandonato, ma riportato alla luce nel 1815 grazie
all'iniziativa del benemerito governatore Stamford Raffles
(sempre lui, il cui nome già ricorre in queste pagine: alla cui memoria
va un brindisi, col prossimo Singapore Sling), in seguito
numerosi interventi di recupero e restauro, da parte olandese prima e
indonesiana poi, l'ultimo in occasione di un attentato nel gennaio del
1985 contro l'allora presidente Suharto: alcune bombe danneggiarono
seriamente parecchi piccoli stupa sulle terrazze superiori. A
qualche chilometro di distanza il tempio di Mendut, in cui si trova la
più grande statua presente in un lugo di culto a Giava, ancora situata
nel luogo originario:
un Buddha alto tre metri e seduto in postura inconsueta, coi piedi
appoggiati per terra anziché nella consueta posizione del loto. A
Prambaran (più sopra, a sinistra; in fianco a sinistra un simpatico Ganesh beneaugurante) invece si trova il più grande complesso di templi (candi
in lingua locale) hindu di tutta Giava, sparsi nel raggio di cinque
chilometri intorno al villaggio omonimo. Costruiti circa cinquant’anni
dopo quelli di Borobodur su iniziativa di un re della dinastia di
Mataram, che si era fusa con quella dei Sailendra, il che spiega la
presenza di elementi buddhisti anche qui. A differenza del tempio di
Borobodur, quelli di Prambaran si sviluppano in verticale anziche’ in
orizzontale. Maestoso quello dedicato a Shiva Mahadeva, la cui guglia
centrale raggiunge i 47 metri, d'altezza, completamente ricoperta da
sculture che raccontano storie tratte dal Ramayana e che sembrano
ricami, di una precisione e un dettaglio stupefacenti. Purtroppo in
seguito a uno dei più recenti terremoti il tempio è in fase di restauro e
le sale interne inaccessibili, e così per i due che lo fiancheggiano,
dedicati a Brahma e Vishnu, e un altro ancora a Nandi, il toro fedele
compagno di Shiva, e in questo caso la delusione deriva dalla visita
forzatamente parziale e incompleta, giusto un assaggio che non
giustifica la grassazione di un biglietto d'ingresso sparato a 11
dollari USA, che sommati ai 12 per l'entrata a Borobodur fanno
l'equivalente del salario medio settimanale di un lavoratore
indonesiano. E per fortuna che entranbi i monumanti dal 1991 fanno parte
della lista di quelli appartenenti al Patrimonio dell’Umanità tutelato
dall’UNESCO. Mi auguro soltanto che sia una gentile attenzione riservata
ai visitatori stranieri, e non sia estesa alla popolazione locale: che
se è vistors friendly in maniera encomiabile, amichevole e
generosa, altrettanto non si può dire delle autorità e strutture
pubbliche preposte al turismo: a cominciare da indicazioni bilingui
pressoché inesistenti, meno che mai nelle stazioni dei treni e nei
terminal dei bus, al personale che compensa con la buona volontà e
un'infinita disponibilità la carenza di rudimenti di inglese e di
informazioni da fornire. Un vero peccato.
YOGYAKARTA – Capitale di Giava Centrale, a 30 chilometri dalla costa che si affaccia sull'Oceano Indiano, Yogya,
come viene più spesso chiamata, è l'anima dell'isola e anche la sua
meta turistica più importante; la città dove si parla la lingua
giavanese più pura, il centro culturale e il luogo dove si conservano
più gelosamente le tradizioni, dall'artigianato batik
all'argenteria, alle danze note come “Balletti Ramayana”. Da sempre
emblema della resistenza al potere coloniale e culla dell'indipendenza,
Yogyakarta è tutt'ora governata dal proprio sultano, avendo ottenuto lo
status di regione speciale. Coi suoi 450 mila abitanti, per quanto
affollata e percorsa da un traffico delirante come ogni città
indonesiana, Yogya è
relativamente piccola per gli standard locali, ma anche la più
gradevole e meglio conservata di quelle che ho visitato finora. Il
centro urbano si sviluppa attorno alla stazione ferroviaria (come
dappertutto un autentico gioiello gioielli, sorprendentemente ben
tenuta e di un nitore incredibile), che come spesso accade taglia a metà
la città in senso longitudinale, e gravita su Malioboro,
questa la traslitterazione in idioma indigeno della strada dedicata al
Duca di Marlborough, la via principale, che in senso perpendicolare alla
linea ferroviara porta dopo un paio di hilometri dritta al Kraton,
l'antico palazzo fortificato del sultano che è la più famosa attrazione
di Yogyakarta. Questo, a sua volta, è il cuore di una vera e propria
cittadella cinta da mura (foto in alto a sinistra), abitata a
tutt'oggi da circa 25 mila persone, con una pianta ortogonale,
perfettamente conservata, pulita, piena di attività ma dove il traffico
automobilistico è notevlmente ridotto e la vita stessa prende i ritmi
del kampung,
villaggio, che è alla fine ancora oggi la struttura base della società e
che gli indnesiani tendono a riprodurre anche nelle grandi città, dove
non a caso assume grande importanza e anche un rilievo amministrativo il
quartiere, che ne è per molti versi la replica. Il kraton risale alla fondazione della città, che è piuttosto recente, da
parte de parte del principe Mangkubumi nel 1755, il quale dopo la
disgregazione dei regni di Giava e Mataram che avevano dominavato sulla
parte centrale dell'isola prima dell'arrivo degli olandesi, ritornò
all'antica sede di Mataram dando inizio alla costruzione della
cittadella. Un suo discendente, Diponegoro, a cui era stata negata la
successione, tra il 1825 e il 1830 scatenò senza successo la sanguinosa
Guerra di Giava, di cui Yogyakarta fu il fulcro, contro gli olandesi che
appoggiavano la corte e l'altro candidato a sultano; più recentemente,
nel 1948, quando la città venne nuovamente occupata dagli olandesi, il
sultano si asserragliò nel kraton
permettendo ai ribelli di usare il palazzo come quartier generale della
resistenza. Gli occupanti non osarono attaccarlo, perché il sultano era
considerato una specie di divinità dai giavanesi, e proprio l'appoggio
della causa da parte del sovrano fu il motivo per cui a Yogyakarta venne
concesso lo statuto di regione speciale al raggiungimento
dell'indipendenza. Oltre al kraton, fra le mura della cittadella si trovano anche il Pasar Ngasem, lo stupefacente e varipointo mercato degli uccelli (foto in alto a destra) dove sono in vendita anche altri animali oltre, in una zona distinta, prodotti
ortofrutticoli, e il Castello d'Acqua (Taman Sari, in fianco a sinistra) un complesso costruito in contemporanea col kraton costituito
da un bel parco, palazzi, piscine, percorso da canali che, come
struttura, mi ha fatto ricordare, in sedicesimo, l'Alhambra di Granada,
progettato da un architetto portoghese che si narra fu ucciso perché non
rivelasse i segreti delle stanze più inaccessibili dedicate ai
trastulli del sovrano con le sue favorite. In città ci sono alcuni musei interessanti, a cominciare dal Sono-Budoio che espone una notevole collezione di arte giavanese, tra cui le tipiche marionette, le maschere, i batik, i coltelli kris e il Benteng Vredeburg, un forte olandese oggi opportunamente sede del museo dedicato al movimento per l'indipendenza. Notevole il Pasar Beringhario,
il mercato principale, fendere la cui folla costituisce un esercizio di
pazienza e autocontrollo che rasenta il raggiungimento del Nirvana. In città imperversa il batik:
negozi e botteghe a decine, e volendo si può partecipare a dei corsi
per apprendere i rudimenti della tecnica, mentre Kota Gede, che fu la
prima sede del regno di Mataram e oggi è un sobborgo di Yogyakarta a
pochi chilometri dal centro, è famosa per la lavorazione dell'argento.
Insomma, la città ha soddisfatto le mie aspettative: una sosta
relativamente rilassante nel frenetico attivismo di Giava,
strategicamente a due passi da Borobudur e Prambanan, i due siti
archeologici più importanti dell'intera Indonesia. Peccato soltanto che
il monsone sia particolarmente attivo in questi giorni.