mercoledì 31 dicembre 2008
Outlet City
lunedì 29 dicembre 2008
Le piogge e le orchidee di Bogor
BOGOR - Distante appena una cinquantina di chilometri dalla tentacolare Jakarta, la megalopoli in continua espansione di cui di fatto costituisce ormai una specie di sobborgo, Bogor
coi suoi oltre 700 mila abitanti assume nei confronti della capitale il
rango di una cittadina; in compenso, pur essendo situata a soli 300
metri d'altezza, gode di un clima incomparabilmente più salubre e
fresco, e il fatto di detenere il record di precipitazioni annue
sull'isola di Giava (una media di 322 acquazzoni vi si scatenano nel
corso di un anno), un po' come la Pedemontana friulana, nota come Il Pisciatoio,
o Masone, in Italia, non ne diminuiscce la gradevolezza. Saranno
l'abbondanza di acque che l'attraversano, oltre a un fiume vero e
proprio diversi torrenti, e le montagne che si scorgono poco lontane
all'orizzonte, ma sembra di essere a una quota decisamente maggiore. Ho
gradito molto la frescura dopo lo spostamento da Sumatra a Giava di
ieri: il problema non è stata la traversata dello Stretto della Sonda,
da Bakahueni a Merak, due ore di traghetto gradevoli, su una nave
spaziosa e opportunamente ventilata, quanto il trasferimento da Merak a
Bogor. L'idea era quella di evitare come la peste Jakarta e, carta
stradale alla mano, in effetti la via più diretta verso Bogor è
costituita da una statale, così ho cercato, nel caos di un sedicente terminal (uno spiazzo sterrato pieno di buche, pozzanghere e immondizia con ai bordi un mercato scalcinato
in cui non una sola persona spiccica una parola di inglese), un bus
verso questa città e ho beccato quello più scalcagnato preso finora in
Indonesia. Naturalmente sono stato smentito e la tradotta, dopo un'ora
di attesa, ha imbucato puntualmente l'autostrada in direzione di Jakarta
e che, attraversata una buona fetta della città, continua poi fino a
Bogor. Pensavo che nella più ricca e moderna Giava velocità e qualità
degli spostamenti migliorassero rispetto a Sumatra,
ma la media è rimasta sui consueti 35 km/h, e questo perché il
personale di bordo, oltre all'autista un bilgiettaio e un
“procacciatore”, il cui ruolo è stare sul predellino e urlare a
squrciagola per esaltare la qualità del mezzo e invogliare le gente a
servisrene e a stiparlo fino all'inverosimile, pensa bene di utilizzare
ogni uscita, pagare al casello, cercare il terminal locale (che
in genere è un'intera strada della città ai cui margini si affolla una
variegata umanità) e procedere nella pesca del viaggiatore in attesa, e
quindi reimmettersi in autostrada. Così per ben 6 volte nei 90
chilometri scarsi che separano Merak da Jakarta. Ecco spiegata le media
anche su strade più decorose. Sulla qualità meglio sorvolare, salvo lo
spettacolo, a ogni fermata, della corte dei miracoli in transito nel
corridoio della corriera a vendere qualsiasi mercanzia, chitarrosi
stonati e propagandisti politici compresi, oltre a imbonitori che si
piazzano sul bus tra una fermata e l'altra e magnificare le doti di un
attrezzo da cucina, un set da toilette da viaggio o la bontà di
un frutto ignoto di cui il personaggio ha un intero sacco pieno: e
prosegue implacabile, finché non ha venduto quanto si era prefissato.
Con estremo sollievo sono così giunto al terminal di Bogor, un
altro anfratto infernale sotto un cavalcavia, da dove mi sono mosso con
l'unico mezzo che abbia un senso usare in queste circostanze: un
mototaxi, anche grazie al fatto che pur di arraffare un cliente, i
benemeriti guidatori sono disposti a sobbarcrasi il fardello di
qualsiasi bagaglio, oltre al dolce peso del trasportato. Città
affollata, dunque, e discertamente incasinata, con molti abitanti della
capitale in trasferta. Il primo impatto, oltre alla temperatura
perfetta, è stato uno splendido tramonto dalla terrazza di un caffè alla
moda, un vero posto da fighetta e puzzoni, dove mi sono
intrufolato a sbafo senza essere fermato da una schiera di posteggiatori
di SUV (anche qui l'emblema del cretino di successo e degli
spandimerda) e lacché in divisa. Bogor, Buitenzorg in olandese, è però
famosa a livello internazionale per i suoi
giardini botanici. Il Kebun Raya
(giardino grande) è il cuore della città, qualcosa come 80 ettari nel
pieno del suo centro, un'oasi di pace percorsa da ruscelli e con
svariati stagni coperti da fiori di loto e laghetti attorno al quale
scorre un traffico incessante. Il parco dell'Istana Bogor, il palazzo
del governatore generale Stamford Raffles (lo stesso che legò il suo
nome a Singapore, cfr foto in alto a sinistra) durante l'interregno inglese, fu trasformato dal professore olandese Reinwardt in orto botanico e inaugurato dai suoi compatrioti nel 1817. Nel comprensorio oltre 15 mila specie di
alberi e piante, più di 400 specie di palme e, solo nelle serre delle
orchidee, 3000 varietà di questo magnifico fiore. Fu in questi giardini
botanici che i ricercatori olandesi svilupparono molte delle
coltivazioni tipiche delle colonie, dal tè, alla cassava, alla cannella,
al tabacco, alla corteccia di china, e a tutt'oggi il Kabun Raya
è uno dei più importanti centri di ricerche botaniche dell'intera
Indonesia. All'interno anche un museo zoologico con una collezione della
fauna di Giava, animali impagliati, farfalle, raccolte di coeotteri e
altri insetti, conchiglie e perfino l'enorme scheletro di una
balenottera azzurra arenatasi sulle coste dell'isola nei primi decenni
del secolo scorso. Nonostante la pioggia, leggera ma incessante, vi ho
trascorso una giornata intera deliziosa, allietata da un pranzo di
prim'ordine in un ristorante curatissimo. Unica pecca, cartacce e
immancabili contenitori e sacchetti di plastica sparsi un po' ovunque
nonostante la adeguata presenza di bidoni e cestini per i rifiuti, a
testimonianza di un rapporto con la natura problematico da parte degli
asiatici in generale e di una sensibilità ambientale piuttosto
peculiare: sembra di essere in Italia.
sabato 27 dicembre 2008
Dalla Trans Sumatran Highway al Krakatoa
mercoledì 24 dicembre 2008
Tra i laghi e i vulcani di Sumatra Ovest
domenica 21 dicembre 2008
I batak: gli ex cannibali ora devoti
sabato 20 dicembre 2008
Horas!
martedì 16 dicembre 2008
La porta di Sumatra
domenica 14 dicembre 2008
Penang: la Malesia anglo-cinese
venerdì 12 dicembre 2008
La terra del fulmine
giovedì 11 dicembre 2008
L'agguato del dengue
martedì 9 dicembre 2008
Malacca, lo stretto dei pirati
domenica 7 dicembre 2008
I timori del Leone
SINGAPORE - A prima vista, quello che dal mio arrivo qui vedevo scorrere sugli schermi TV nelle modernissime e deliziosamente gelide stazioni della MRT (Mass Rapid Transportation, la metropolitana locale) in attesa dei treni, sembrava essere il trailer
di un film d'azione in uscita per le prossime festività natailzie:
probabilmente una pellicola sul terrorismo. Poi mi sono accorto che si
trattava di uno spot del governo che invita il pubblico a stare
all'erta sugli oggetti sospetti lasciati nei convogli e a collaborare
con le autorità. Abituato all'ipocrisia del politicamente corretto
e al fumo negli occhi buonista nostrani, mi ha stupito, s'intende
positivamente, la crudezza del filmato e l'esplicità del tono. Il video
ha come protagonista un giovane d'aspetto anonimo ma di evidenti
fattezze malesi (e dunque probabilmente islamico) che, approfittando
della confusione sul metrò, “dimentrica” una borsa sotto un sedile,
abbandona il treno e mentre lo osserva entrare in un tunnel estrae un
cellulare e si vede il dito in primo piano pronto
ad azionare il fatale collegamento... Il più delle volte il film si
ferma a questo punto e prende a parlare, con tono pacato, un funzionario
governativo. Mi era sempre rimasto il dubbio che si interrompesse in
occasione dell'arrivo di qualche treno in stazione, finché oggi, preso
dalla curiosità, ne ho lasciato passare uno e ho
constatato che continua davvero: cortometraggio la bomba, in effetti,
esplode, e seguono filmati su attentati ai treni avvenuti a Londra,
Madrid e Mumbai (non ancora aggiornati, questi ultimi). In una città in
cui la minoranza islamica è comunque consistente e visibile, non ho
notato alcuna reazione d'offesa o di fastidio, e in chi guardava lo spot
ho notato semmai un atteggiamento attento, consapevole e, in qualche
modo, di condivisione. Da un lato sono rimasto colpito come davanti a
una minaccia grave qui non ci si nasconda dietro a un dito. In sostanza
il messaggio è: questi banditi fanno stragi in giro per il mondo e ci
minacciano direttamente proprio perché siamo una società multietnica e
multireligiosa che funziona. Bisogna aver paura di questa gente perché
ci detesta proprio per quello che siamo, quindi teniamo gli occhi aperti
e collaboriamo. Dall'altro mi ha fatto riflettere sul melting pot di Singapore. La città del leone (singa
in malese) è, come detto, a maggioranza cinese, e cinese, di formazione
inglese, è stata la sua guida: Lee Kuan Yew, ininterrottamente primo
ministro dal 1959 al 1990, seguito dal fido Goh Chok Tong (ora Ministro Senior) a cui nel 2004 è succeduto il figlio Lee Hsien Loong per riprendere la dynasty. Il patriarca, 85 anni, si è riservato la carica di Ministro Mentore. Lee Kuan Yew era stato tra i fondatori, nel 1954, e primo segretario, del
partito socialista PAP (partito d'azione popolare), che aveva al suo
interno anche una componente comunista. Le sue due linee guida:
industrializzazione a tappe forzate tramite
intervento massiccio dello Stato nelle infrastrutture e politica della
casa. Si può rimanere inorriditi davanti agli alveari di 30-40 piani che
incombono ovunque (anche se in un Paese dove si sono costruire "le
Vele' e lo ZEN è meglio tacere) ma Singapore ha dalla metà degli Anni 90
la più alta percentuale di proprietari di casa al mondo, e una delle
piu basse di criminalità. Quanto alla rete infarstrutturale, dalle
strade al porto ai servizi, il futuro è già qui. Insomma: pugno di ferro
in guanto di velluto, niente di diverso rispetto a quanto sarebbe
successo in Cina negli ultimi 15 anni ma senza avere avuto una Tien Anmen. Dall'altro
lato, massima attenzione all'integrazione etnica e religiosa, ben
memori del fatto che la stessa indipendenza di Singapore è avvenuta per
motivi razziali: nel 1965, infatti, era stata espulsa (non certo
controvoglia, peraltro) dalla giovane Federazione Malese, con cui i
rapporti sono sempre rimasti tesi, perché poco omogenea essendo a
maggioranza cinese. Massima quindi la libertà religiosa e culturale le
cui manifestazioni vengono incoraggiate in ogni modo, e quattro le
lingue ufficiali dello Stato: malese, tamil, cinese inglese. Ed è
proprio questa la lingua franca tra le diverse etnie, dal
1987 promossa a prima lingua per tutti nelle scuole di ogni ordine e
grado. Dal 2000, poi, è stata lanciata la campagna governativa “Speak
Good English”, per migliorarne lo standard. E sicuramente qui si parla
il migliore inglese di tutta l'Asia, salvo forse che a Hong Kong. In
realtà le comunità convivono ma tendono a non fondersi e sono abbastanza
atomizzate anche al loro interno, a cominciare da quella cinese: la
provenienza dalle diverse province del colosso di terraferma è resa
evidente negli “Hawker Stalls”, ossia nella gastronomia: hokkien,
teochew, hakka, cantonese, e non a caso il governo ha lanciato la “Speak
Mandarin Campaign” sulla falsariga di quella per l'inglese. Astuti,
previdenti e realisti, i “Leoni” si portano avanti tenendo
presente chi comanda a Pechino. Rischia così di perdersi la cultura dei
“perenankas”, tipica di Singapore. Il termine significa “mezza-casta” in
malese e di riferisce ai discendenti di un uomo cinese e di una donna
malese (anche se esistono, ma meno numerosi, casi di peranankas
arabi, ebrei o indiani), per cui i figli hanno ereditato il nome e la
religione dei padri e usi, costumi e lingua dalla madre, con mescolanze
audaci nell'idioma e di grande successo nella gastronomia. Ma per
preservare l'armonia e la multietnicità, l'occhiuto governo locale
garantisce comunque il suo appoggio alle organizzazioni che sono nate
per preservarne le tradizioni e peculiarità.
venerdì 5 dicembre 2008
Orchard Road e le infinite vie dello shopping: tutte uguali
SINGAPORE – Orchard
Road è una delle strade commerciali più famose al mondo, come dire
Fifth Avenue a New York, Oxford Street a Londra e, fatte le debite
proporzioni, nel nostro orticello peninsulare via Condotti nella
capitale politica o Montenapoleone in quella della tangente. Gli
appassionati di shopping e gli immancabili fighetta obietteranno
che in Italia ci stanno però la moda, la creatività e la qualità che
tutto il mondo ci invidierebbe; il denaro, però, circola qua: e di sartoria
di alto livello di produzione nazionale, così tanto decantata, per
quanto poco ci capisca, ne ho vista ben poca, Tutt'al più magliette e
oggetti col marchio Ferrari, grazie probabilmente al primo Gran Premio
di Formula Uno in notturna organizzato qualche mese fa proprio a
Singapore. Ma la Ferrari costruisce motori che suonano sinfonie e opere
d'arte in forma di design, mica straccetti. In più, vince spesso. Altri
prodotti della operosa Terra del Cachi non ne ho visti in giro: nemmeno
l'ombra di quelli a tecnologia avanzata, in una delle
patrie dell'elettronica da consumo e con Giappone, Corea, Cina, Taiwan e
Malaysia a due passi; ma nemmeno quelli gastronomici: mi è capitato di
vedere in giro del vino francese, argentino, spagnolo, perfino tedesco
ma non italiano. Altrettanto, la città è piena di caffetterie Starfucks e Costa e gelaterie Hägen Dasz, frequentate anche qui dai pseudo liberal di buona famiglia in vena di esibizionismo e maniere affettate, e non c'è ombra di un Illy e nemmeno di un Segafredo, che in Europa almeno è presente nelle stazioni ferroviarie. Quanto agli americani finto ambientalisti e altroconsumisti di Starfucks, coi loro beveroni ributtanti a prezzi da delirio, non mancheranno di avere in Italia il successo già registrato dai loro compaesani gelatai yankee dal nome impronunciabile: i cretini presenzialisti che amano essere alla moda da noi sono irrefrenabili e non mancheranno di arrivare a frotte a decretarne il trionfo: con la mania dei muffin siamo già a un buon punto di intossicazione cerebro-alimentare. Per
quanto riguarda l'export neli Paeesi "emergenti" ci si salva, credo,
con la componentistica e con i mobili da cucina. Che non è uno scherzo,
ma il Prodotto Italia, in una via commerciale cruciale come
questa, proprio non c'è. Ecco: ho adocchiato una Nuova Cinquecento
della FIAT, pure piuttosto ammirata, ma è stata l'unica in mezzo a un
buon numero di VW Beetle, AUDI, Mercedes e, sorprendentemente, tante
Porsche. Ovvio che qui le vetture giapponesi non hanno quaasi
concorrenza, per quanto riguarda i comuni mortali. A parte questo,
Orchard Road, presentata come un potenziale attentato al vostro
portafogli, assomiglia ai Campi Elisei di Parigi, anche per le
dimensioni: forse meno pretenziosa ma altrettanto insignificante:
l'arditezza e inventiva degli architetti locali si è esibita altrove. A
differenza delle sue consorelle in giro per il mondo, si tratta di una
via commerciale vivibile e con un traffico scorrevole e regolato in
maniera esemplare, come spesso le cose in questa città. Perfino il
pubblico che l'affolla riesce a dare l'impressione di essere meno
intronato dalla droga dello shopping e standardizzato che altrove:
certo, due terzi del pubblico è composto da squinzie della più varia
età, etnia e credo religioso, che “la portano a prendere aria”, convinte
di “avercela” solo loro, sguardo vacuo e liquido al contempo, pronte a
fare aprire il portafoigli all'altro terzo, di sesso maschile, non
meno rimbecillito davanti ai negozi di materiale eletronico. Ma tutto il
carnevale mi sembra avvenire in modo più decente e meno sguaiato che
altrove. Poi ci sono gli immancabili pirla come me, che si fanno venire
le vesciche ai piedi a furia di camminare per chilometri nella caldazza,
e non possono nemmeno dirsi increduli perché sanno per esperienza che
così va il mondo, a qualsiasi latitudine.

giovedì 4 dicembre 2008
Qui comincia l'avventura...
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