KALIANDA -
Trenta ore esatte di bus, da Bukittinggi a Bandarlampung, sullo Stretto
della Sonda, tutto per vedere ciò che rimane di Lui: probabilmente il
vulcano più famoso del mondo, il Krakatoa, Krakatau in idioma
locale, che saltò letteralmente in aria la mattina del 27 agosto del
1883, provocando la più violenta esplosione che si ricordi.
L'autodistruzione del Krakatoa, che risultava inattivo da almeno 200
anni e costituiva nulla più che una specie faro, un punto di riferimento
per la navigazione nello Stretto della Sonda, con tanto di fuochi
d'artificio, comportò una serie di eruzioni di una violenza tale da
lanciare intorno qualcosa come 20 chilometri cubi di lapilli, con un
pennacchio di ceneri che raggiunse gli 80 km di altezza. E che caddero
in abbondanza anche su Singapore, a quasi mille chilometri di distanza, e
oscurarno il cielo sulla Sonda, con un effetto da eclissi totale, per
24 ore. In più, il crollo dei coni del vulcano causò un'onda di tsunami alta
40 metri che si abbattè con effetti catastrofici su Giava e Sumatra,
causando almeno 36 mila vittime. Come in occasione dello tsunami di
esattamente quattro anni fa, l'onda raggiunse perfino Aden dopo 12 ore.
Oggi del Krakatoa rimane un arcipelago di isole, che costituiscono
l'omonimo Parco Nazionale, sparse attorno al suo erede e sostituto, l'Anak Krakatau,
il figlio di Krakatoa. Un figlio dal carattere volubile e,
opportunamente, fumantino che, attivo dal 1928, da allora è in costante
crescita (qui sopra in piena attività, lo scorso anno: in alto a destra, a distanza di sicurezza).
Ho fatto un tentativo di raggiungerlo questa mattina, a bordo di una
tipica imbarcazione locale, una lancia della larghezza massima di 90 cm
dotata di due bilancieri (in pratica, un parallelepipedo di fusti di
bambù fissati sopra lo scafo, con i due più robusti disposti
parallelamente) ma l'alzarsi del vento e l'ingrossarsi a vista d'occhio del mare hanno fatto desistere il capitano e il pilota,
e ci hanno bloccato a meno di dieci miglia dall'area inducendoci a più
miti consigli, ovvero a una visita delle isole disseminate nello
stretto della Sonda. E dopo un'andata tranquilla, il ritorno alla base
di Kalianda, 50 km a Sud di Bandarlampung, è stato non poco movimentato.
Trenta ore di bus, dicevo, ma ne è valsa la pena, a prescindere dall'escursione al vulcano e dal prossimo attraversamento dello Stretto, perché percorrere la “Trans Sumatran Highwway” è stata comunque un'esperienza
senza pari. A dispetto del nome altisonante, l'unica strada che
attraversa Sumatra da Nord a Sud è poco più larga di una mulattiera in
mezzo alla giungla, è in condizioni quantomeno precarie, con la sede
stradale che spesso viene del tutto a mancare, costellata di buche
profonde come crateri, in sintonia con la natura vulcanica
dell'isola; stato che peggiora durante la stagione dei monsoni,
tutt'ora in corso, con improvvise alluvioni, valanghe di fango, ponti
crollati e tuttavia trafficata incessantemente nei due sensi da mezzi di
ogni genere, dai TIR ai bus a lunga percorrenza ai carri trainati dai
buoi (in fianco una situazione tipica: foto di roche4711).
L'intasamento è all'ordine del giorno, gli incidenti spaventosi e la
mortalità, lungo la strada, e livelli di epidemia. Eppure sono contento
di averla percorsa per oltre due terzi, perché i panorami che si godono
sono impagabili, così come lo è osservare la vita di tutti i giorni e
provare a intendersi con i compagni di viaggio sulle scalcagnate
corriere, che quanto a comfort sono simili ai chicken bus, gli
School Bus USA riciclati, diffusi nell'America Centrale. La parte
orientale della provincia di Sumatra Sud, pianeggiante e percorsa da
innumerevoli fiumi, ha in comune con quelle più a Nord di Jambi e Riau,
affacciate anch'esse sullo Stretto di Malacca, antichi trascorsi malesi.
Il suo capoluogo Palembang, oggi una città industriale molto inquinata,
la seconda dell'isola per numero di abitanti (quasi due milioni), fu la
capitale dell'impero buddhista di Sriwijaya, che aveva dominato per
secoli l'intera penisola malese. Quella
occidentale è dominata dai rilievi del Bukit Barisan, e le strade sono
se possibile ancora più impervie. Oltre alle coltivazioni delle
immancabili palme da cocco e da olio, quelle degli alberi di caucciù,
del tè e, nella confinante provincia di Lampung, del caffè e del pepe,
di cui viene qui prodotta una delle qualità più pregiate al mondo. Su
tutte, domina ovviamente l'industria del legname. Sulle colline che
danno sulle bocche dello Stretto della Sonda si adagia Bandarlampung,
principale porta d'accesso a Sumatra proveniendo da Giava, col terminal
dei traghetti di Bakauheni a 80 km, sulla punta più meridionale
dell'isola, di fronte a Merak. L'andirivieni, anche per le dimensioni
del traffico, è più simile a quello che c'era sul Canale della Manica
prima dell'attivazione del tunnel che a quello sullo Stretto di
Messina. Mode e usi occidentali si sono diffusi qui più che altrove a
Sumatra sia per l'innata vocazione agli scambi delle genti che da sempre
vivono sugli Stretti, sia perché importati dei più cosmopoliti
giavanesi, giunti qui in seguito alle politiche governative di
“transmigrasi”, ideate per cercare di rimediare alle condizioni di vita
nelle aree sovrappopolate, essenzialmente Giava seguita da Bali, e
contribuire al contempo a sviluppare quelle più selvagge e arretrate di
Sumatra e di altre isole dell'arcipelago, creando però non poche delle
tensioni che hanno fatto parlare dell'Indonesia come di un Paese
violento e pericoloso, e che hanno ben poco a che vedere con una visione
intergralista e ossessiva dell'Islam, che è anzi da sempre osteggiata
dai governi di Giacarta e non è nelle corde della popolazione.
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