MELAKA - O
Malacca, da cui prende il nome il famoso e cruciale stretto fra la
penisola malese e Sumatra, che si trova esattamente a metà della rotta
che congiunge la Cina all'India, crocevia di traffici di ogni genere ora
come seicento anni fa, quando vi fu fondato il più potente impero
malese. Ci sono arrivato ieri da Singapore, seguendo le tracce di
Parameswara, un principe hindu rinnegato che proveniva da un piccolo
regno nel Sud di Sumatra, il quale aveva reso indipendente dall'impero
dei Majapahit di Giava. Un secessionista e un pirata a tutti gli
effetti: inseguito dai giavanesi, si era rifugiato a Tamasek e fu lui a
cambiarne il non in Singapore, la città del Leone. Accolto dal
re locale, lo accoppò una settimana dopo, prese possesso della città e
da lì continuò le sue scorrerie finché i siamesi, di cui Tamasek era
vassalla, si mosserò per bloccarlo. Si rifugiò dall'altra parte del
braccio di mare, individuando nel villaggio di pescatori di Melaka un
altro punto nevralgico per controllare lo stretto, e un porto naturale
ideale, per la profondità delle sue acque. Infine, si offrì tributario
dell'imperatore cinese Ming, che proprio in quell'epoca, 1400 e
dintorni, aveva incoraggiato spedizioni per individuare nuove rotte
verso Occidente. E Malacca divenne il porto dove le giunche cinesi
incociavano i navigli degli altri grandi commercianti dell'area: gli
indiani. Poi arrivarono i portoghesi, intenzionati a soppiantare i
veneziani nel commercio delle spezie, che questi si procuravano dagli
arabi che a loro volta le compravano dagli indiani: a Malacca. I
"portugis", come li chiamano qui (ci sono ancora loro discendenti
diretti in un sobborgo della città), avevano costruito una serie di
forti per controllare la rotta fino alle Molucche, da dove arrivavano
le spezie, e approfittando di un pretestuoso attacco alla loro flotta
conquistarono Malacca, fortificandola, nel 1511: di A' Fortuna,
questo il nome del manufatto, rimane oggi uno spunzone ad eterna
memoria perché venne distrutto dagli inglesi trecento anni dopo. In
mezzo vi furono gli olandesi, i "belanda" nell'idioma locale, di cui
probabilmente rimangono le tracce più consistenti nella eterogenea
architettura della città, il cui dominio seguì per un secolo e mezzo
quello di 130 anni dei lusitani, ma che sottovalutarono l'importanza
strategoica della città privilegiando Batavia, l'odierna Giacarta, che
rimase il punto di partenza dei loro interessi sullo scacchiere Sud-Est
asiatico. Nel 1941, ingolositi dalla sua posizione startegica,
arrivarono i giapponesi del miitico generale Yamashita, che presero di
sorpresa le gaurnigioni britanniche, sbarcando a Kota Bharu nelle stesse
ore in cui stavano bombardando Pearl Harbour, e le polverizzarono,
stabilendosi qui e a Singapore. Con questo bel po' di storia alle
spalle, non stupisce che Melaka faccia parte delle Città Patrimonio
dell'Umanità protette dall'Unesco. La città oggi è un porto di medie
dimensioni e un centro vivace, dove la multietnicità è, se possibile,
ancora più marcata che a Singapore e dove il passato ha lasciato le sue
tracce non soltanto nell'architettura del centro strorico ma nel
carattere di tutto l'agglomerato urbano, così come negli usi, nella
gastronomia, negli oggetti: numerosi i negozi di antiquariato, intenendo
quello autentico e non quello ad uso turistico. Il gruppo cinese è
quello più organizzato e potente, come spesso accade, e anche qui è
ancora viva, e non ha quindi bisogno di particolare protezione come
nella vicina Città Stato, la cultura peranakan, ossia sino-malese (detta anche baba-nonya,
dai nomi riservati ai discendenti, rispettivamente maschi e femmine, di
questi matrimoni misti). E' stupefacente poi vedere come convivono, è
il caso di dirlo, a pochi metri di distanza, talvolta un tempio di
fronte all'altro, il muezzin con il bonzo e coi suonatori di tamburi
indù; nonostante la presenza in pieno centro della Chiesa di Cristo, in
fianco allo Stadthuys (municipio,chiaramente olandese) e quella
di Francesco Saverio, anche lui in azione da queste parti, gli unici a
non vedersi in giro sono gli intonacati cattolici. Nemmeno adesso cnella
prossimità delle feste natalizie. Come loro ci sono ma non si vedono i
pirati: se il porto non ha più l'importanza di un tempo, ci sono loro a
tenere sotto controllo le attività nello Stretto, adesso come seicento
anni fa. Mentre quelli attivi in Somalia son o un fenomeno recente,
questi sono endemici, forse meno spettacolari ma incredibilmente
efficienti. Dei veri professionisti.
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