SINGAPORE - A prima vista, quello che dal mio arrivo qui vedevo scorrere sugli schermi TV nelle modernissime e deliziosamente gelide stazioni della MRT (Mass Rapid Transportation, la metropolitana locale) in attesa dei treni, sembrava essere il trailer
di un film d'azione in uscita per le prossime festività natailzie:
probabilmente una pellicola sul terrorismo. Poi mi sono accorto che si
trattava di uno spot del governo che invita il pubblico a stare
all'erta sugli oggetti sospetti lasciati nei convogli e a collaborare
con le autorità. Abituato all'ipocrisia del politicamente corretto
e al fumo negli occhi buonista nostrani, mi ha stupito, s'intende
positivamente, la crudezza del filmato e l'esplicità del tono. Il video
ha come protagonista un giovane d'aspetto anonimo ma di evidenti
fattezze malesi (e dunque probabilmente islamico) che, approfittando
della confusione sul metrò, “dimentrica” una borsa sotto un sedile,
abbandona il treno e mentre lo osserva entrare in un tunnel estrae un
cellulare e si vede il dito in primo piano pronto
ad azionare il fatale collegamento... Il più delle volte il film si
ferma a questo punto e prende a parlare, con tono pacato, un funzionario
governativo. Mi era sempre rimasto il dubbio che si interrompesse in
occasione dell'arrivo di qualche treno in stazione, finché oggi, preso
dalla curiosità, ne ho lasciato passare uno e ho
constatato che continua davvero: cortometraggio la bomba, in effetti,
esplode, e seguono filmati su attentati ai treni avvenuti a Londra,
Madrid e Mumbai (non ancora aggiornati, questi ultimi). In una città in
cui la minoranza islamica è comunque consistente e visibile, non ho
notato alcuna reazione d'offesa o di fastidio, e in chi guardava lo spot
ho notato semmai un atteggiamento attento, consapevole e, in qualche
modo, di condivisione. Da un lato sono rimasto colpito come davanti a
una minaccia grave qui non ci si nasconda dietro a un dito. In sostanza
il messaggio è: questi banditi fanno stragi in giro per il mondo e ci
minacciano direttamente proprio perché siamo una società multietnica e
multireligiosa che funziona. Bisogna aver paura di questa gente perché
ci detesta proprio per quello che siamo, quindi teniamo gli occhi aperti
e collaboriamo. Dall'altro mi ha fatto riflettere sul melting pot di Singapore. La città del leone (singa
in malese) è, come detto, a maggioranza cinese, e cinese, di formazione
inglese, è stata la sua guida: Lee Kuan Yew, ininterrottamente primo
ministro dal 1959 al 1990, seguito dal fido Goh Chok Tong (ora Ministro Senior) a cui nel 2004 è succeduto il figlio Lee Hsien Loong per riprendere la dynasty. Il patriarca, 85 anni, si è riservato la carica di Ministro Mentore. Lee Kuan Yew era stato tra i fondatori, nel 1954, e primo segretario, del
partito socialista PAP (partito d'azione popolare), che aveva al suo
interno anche una componente comunista. Le sue due linee guida:
industrializzazione a tappe forzate tramite
intervento massiccio dello Stato nelle infrastrutture e politica della
casa. Si può rimanere inorriditi davanti agli alveari di 30-40 piani che
incombono ovunque (anche se in un Paese dove si sono costruire "le
Vele' e lo ZEN è meglio tacere) ma Singapore ha dalla metà degli Anni 90
la più alta percentuale di proprietari di casa al mondo, e una delle
piu basse di criminalità. Quanto alla rete infarstrutturale, dalle
strade al porto ai servizi, il futuro è già qui. Insomma: pugno di ferro
in guanto di velluto, niente di diverso rispetto a quanto sarebbe
successo in Cina negli ultimi 15 anni ma senza avere avuto una Tien Anmen. Dall'altro
lato, massima attenzione all'integrazione etnica e religiosa, ben
memori del fatto che la stessa indipendenza di Singapore è avvenuta per
motivi razziali: nel 1965, infatti, era stata espulsa (non certo
controvoglia, peraltro) dalla giovane Federazione Malese, con cui i
rapporti sono sempre rimasti tesi, perché poco omogenea essendo a
maggioranza cinese. Massima quindi la libertà religiosa e culturale le
cui manifestazioni vengono incoraggiate in ogni modo, e quattro le
lingue ufficiali dello Stato: malese, tamil, cinese inglese. Ed è
proprio questa la lingua franca tra le diverse etnie, dal
1987 promossa a prima lingua per tutti nelle scuole di ogni ordine e
grado. Dal 2000, poi, è stata lanciata la campagna governativa “Speak
Good English”, per migliorarne lo standard. E sicuramente qui si parla
il migliore inglese di tutta l'Asia, salvo forse che a Hong Kong. In
realtà le comunità convivono ma tendono a non fondersi e sono abbastanza
atomizzate anche al loro interno, a cominciare da quella cinese: la
provenienza dalle diverse province del colosso di terraferma è resa
evidente negli “Hawker Stalls”, ossia nella gastronomia: hokkien,
teochew, hakka, cantonese, e non a caso il governo ha lanciato la “Speak
Mandarin Campaign” sulla falsariga di quella per l'inglese. Astuti,
previdenti e realisti, i “Leoni” si portano avanti tenendo
presente chi comanda a Pechino. Rischia così di perdersi la cultura dei
“perenankas”, tipica di Singapore. Il termine significa “mezza-casta” in
malese e di riferisce ai discendenti di un uomo cinese e di una donna
malese (anche se esistono, ma meno numerosi, casi di peranankas
arabi, ebrei o indiani), per cui i figli hanno ereditato il nome e la
religione dei padri e usi, costumi e lingua dalla madre, con mescolanze
audaci nell'idioma e di grande successo nella gastronomia. Ma per
preservare l'armonia e la multietnicità, l'occhiuto governo locale
garantisce comunque il suo appoggio alle organizzazioni che sono nate
per preservarne le tradizioni e peculiarità.
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