sabato 10 gennaio 2009

Il posto delle libellule


Kraton Kesepuhan CirebonCIREBON – Situata a metà strada fra Semarang e Giakarta sulla costa settentrionale di Giava, questa tranquilla città di circa 280 mila di abitanti è fuori dalle rotte turistiche abituali ma i suoi tre kraton e, a quel che si dice, l'ottima cucina di pesce sono un ottimo motivo per una visita se non altro ritardare per quanto possibile l'impatto con i giganteschi e quotidiani ingorghi della capitale con cui toccherà comunque fare i conti nei prossimi due giorni, in quanto Giakarta è tappa obbligatoria per i voli in uscita dal Paese, inevitabile data l'imminente scadenza del visto indonesiano, di trenta giorni in entrata, a pagamento e non rinnovabile né soggetto a estensione. Cirebon venne fondata come sultanato indipendente attorno al 1500, fu alleata del regno di Mataram e nel 1705 divenne protettorato olandese, amministrata congiuntamente da tre sultani, fatto a cui si deve la dovizia di palazzi dei regnanti, kraton per l'appunto: si tratta del Kesepuhan (in alto, a destra) eretto nel 1527, del Kanoman, che risale al 1588 e del Kecirebonan, costruito nel 1839, che è tuttora la residenza dell'attuale famiglia reale. Oltre a questo, non c'è praticamente nulla da vedere, tantomeno il mare: ché da queste parti non si usa né una strada litoranea né una semplice passeggiata e forse è anche meglio, considerata l'abituale grossezza, il moto ondono impetuoso e il colore poco allettante, almeno in questa stagione. Al massimo il porticciolo, dove dondolano i variopinti e tradizionali peraho (i praho di salgariana memoria, sotto a sinistra) usati per la pesca. In compenso la città è letteralmente invasa da sciami di libellule, grosse quanto dei passeri ben pasciuti, che con i  loro movimenti simili a quelli degli elicotteri, fatti di sospensione nell'aria e improvvisi scarti laterali, rendono l'atmosfera vagamente inquietante e Fishermanallucinogena. A Cirebon, su una base islamica si sono innestate le più moderne usanze giavanesi, quelle sundanesi e quelle cinesi, dando vita a un cocktail culturale ed etnico che si legge anche dai lineamenti degli abitanti, piuttosto eterogeneo e frizzante, e questo dà un senso a una città che, a parte i kraton, risulta alquanto insignificante. Non so se la particolare insistenza, che rasenta la molestia, da parte soprattutto dei guidatori di becak, i “trisciò”, sia dovuta alla scarsa familiarità coi turisti, ma sentirsi apostrofare centinaia di volte al giorno non solo con la litania hallo mister, ma con la domanda where are you going, o what are you looking for in una città che si sviluppa su una sola strada che l'attraversa e in cui da vedere e fare non c'è assolutamente niente, salvo appunto passeggiare, risulta esasperante. Tanto più se fatto, come talvolta ho l'impressione, con una traccia di arroganza: al di là dell'idiosincrasia che nutro in generale per qualsiasi estraneo tenda ad impicciarsi dei fatti miei spinto non da curiosità ma dall'ansia di spillarmi quattrini. E' anche il primo posto in Indonesia in cui mi pare che alcuni si dilettino a fare commenti e riderti alle spalle, sicuri che non si capisca la lingua, ma i toni rimangono inequivolcabili. Da un altro punto di vista, quello della scarsa per non dire nulla versatilità linguistica degli indonesiani è un problema in un Paese che ha visto crollare gli afflussi turistici in seguito a una serie di attentati da parte di estremisti islamici, a cominciare da quello a Bali nel 2002 seguiti da quelli a Jakarta del 2003 e 2004. Ho sentito spesso gente che mi chiedeva il motivo della cattiva stampa di cui gode l'Indonesia, con i ministeri degli Esteri dei Paesi occidentali che invitano a evitarla e quantomeno a usare estrema prudenza. Credo di aver già detto altrove che si tratta di un allarmismo assolutamente ingiustificato: mai durante un mese in giro da solo ho avuto una sensazione di insicurezza o di pericolo, sicuramente meno che in una qualsiasi periferia urbana eurpoea: il pericolo islamico, se così vogliamo chiamarlo, lo si avverte molto più in nella supponente, “sicura” e turisticizzata Francia che non nell'immensa periferia povera di Giakarta. L'islamismo è quanto mai bonario e tollerante, buona parte della gente non è osservante, e non costituisce un problema. Ma le carenze nei confronti del viaggiatore straniero esistono e creano disagi, a cominciare dall'incomunicabilità. Ieri ad esempio, per visitare il kraton Kesepuhan, ho dovuto Cirebon by Margret van Ommeningaggiare una guida, le cui uniche parole intelleggibili erano yes e portughs, che si pronunciano pressoché uguali anche in bahasa indonesia, e non ha smesso di parlare per mezz'ora, nonostante gli ripetessi fino alla noia che non capivo un accidenti. Nel museo, non una  didascalia era in inglese, idem per la scarse se non inesistenti indicazioni per le strade. Scena simile in un famoso ristorante di pesce: non uno che parlasse due parole in croce d'inglese maccheronico, e menu rigorosamente monolingue, senza nemmeno usare l'accortezza di farlo fotografico, come perlopiù accade: ho finito per cenare in un warung per strada, con griglia all'aperto, accomodato su una stuoia stesa sul marciapiede, usando l'universale sistema del guarda-e-indica, componendo la mia comanda con il dito. E così nell'albergo in cui mi trovo: bello, elegante, moderno. In mezzo alla veranda campeggia un frigorifero con una decina di Coca Cola, qualche bottiglietta d'acqua e alcune di tè freddo. Birra: neanche a parlarne. Questo avrebbe già dovuto indurmi al sospetto. Sulla lista del bar è annunciata la scelta tra una decina di fantastici succhi di frutta, tutti naturali, tutti invitanti. Mezz'ora di questo rituale: un receptionist prende l'ordine: succo di mango, decido. Ce ne sono alberi stracarichi, intorno: vado sul sicuro, mi dico. Riferisce la comanda via telefono all'addetto, in divisa, che si trova a meno di dieci metri e che risponde, annuendo, in mia presenza. Posata la cornetta, questi va in cucina dai cui meandri viene inghiottito. Ricompare sorridente sulla scena dopo un po' con un sacchetto in mano e si mette a pasturare i pesci nella vasca del patio e intanto mi guarda, ammiccando. Dopo dieci minuti arriva il receptionist incravattato, quello che parla 8 parole d'inglese: sorry mister, manga finish. Lemon, orange. E vada per il lemon! La scena si ripete uguale, solo l'addetto alla pastura dei pesci è diverso. Ma sempre in divisa, impeccabile. Svanisce nel nulla. Dopo un'altra decina di minuti ritorna l'incravattato: sorry mister, lemon finish. “Ok orange, no problem”, gli dico, e mi accorgo che mi sono già messo al suo livello di comunicazione: frase essenziale ma al contempo incerta, dizione sincopata e sorriso accomodante, magari con lieve, ripetuto inchino incorporato. Dopo altri dieci minuti, nicchiando con la testa come preso da un tic e sorridendo come un ebete, e con una sete bestiale, rientro in camera, dandomi del pirla. Sto già rantolando, disidratato, quando bussa alla porta un tipo, divisa sempre perfetta, e sul vassoio campeggia un bicchierone di succo su cui galleggia un enorme pezzo di ghiaccio. Era mandarino, spaventosamente dolciastro, allappante. E oggi, dopo averlo ingurgitato, seguito dal pesce, regolare e inevitabile ha colpito il cagotto. Va un po' meglio nelle stazioni, dove alle biglietterie c'è sempre del personale, prevalentemente femminile, in grado di capire e farsi capire: e ho notato da subito che sono le ragazze a essere più sveglie e istruite. Nel mio albergo sono tutti rigorosamente maschi, e questo spiega molte cose. 

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