martedì 20 gennaio 2009

I cinesi di Sabah e gli oranghi di Semenggoh


Mount Kinabalu di Ibnu YusufKOTA KINABALU (Sabah) - Non sono attrezzato né fisicamente, né materialmente e meno che mai psicologicamente per affrontare la scalata del Mount Kinabalu (4095 metri: la cima più alta dal massiccio dell'Himalaya fino alla Nuova Guinea) né tentato dallo snorkeling lungo gli oltre 14 mila chilometri di coste dello Stato in questa stagione di monsoni, per cui il motivo principale che mi ha spinto in questa città, che fino al 1963, sotto dominio britannico, era chiamata Jesselton, è la presenza del terminal dei ferry che portano a Labuan (dovuto omaggio a Salgari) e quindi nel sultanato del Brunei con il quale i collegamenti stradali dal Sarawak sono laboriosi. KK, com'è chiamata comunemente, non può essere paragonata alla rilassante, in qualche modo incantata Kuching, con cui ha in comune la simbologia animale, in questo caso il cigno anziché il gatto; anche perché ha avuto la sventura di essere stata rasa al suolo due volte durante la Seconda Guerra Mondiale dagli Alleati: la prima volta nel tentativo (vano) di fermare i giapponesi, la seconda per convincerli alla resa. Moderna ma per nulla sgradevole, 350 mila abitanti che non si ammassano nella stesa area alla maniera indonesiana ma distribuiti per svariati chilometri lungo la fascia costiera, Kota Kinabalu è la capitale del Sabah, uno Stato semi autonomo come Sarawak, in perenne conflitto col governo centrale perché solo una minima parte degli utili prodotti qui (materie prime) torna ad affluire nelle casse locali, e che attulamente risulta il più povero di tutta la Federazione Malese, con un tasso di disoccupazione Kota Kinabalu di mewotvicino al 20%. Colpa anche del forte incremento demografico degli ultimi 25 anni, dovuto in gran parte dall'immigrazione incontrollata, soprattutto dalle vicine Filippine. Come se non bastasse, la vicinanza dell'arcipelago porta anche problemi di contrabbando, pirateria e pure l'imbarazzante presenza dei ribelli musulmani di MIndanao che si rifugiano nel Sabah per sfuggire all'esercito di Manila. A prima vista tutti questi problemi non si notano, e KK mi sembra essenzialmente una città di commercio e come tale, per definizione, in mano ai cinesi, quanto mai attivi in questi giorni vicini alle celebrazioni del loro Capodanno, che raggiungeranno il culmine nella notte tra domenica e lunedì. Siccome buona parte dei negozi, all'ingrosso o al minuto, dei ristoranti, delle imprese di tutti i generi sono in mano loro, che alla  festa e alle tradizioni ci tengono e non badano a spese, la città è bardata di palloncini, lampioni, striscioni rossi; l'attività nei templi buddhisti e nelle sedi delle varie società e famiglie ferve come non mai: si tirano fuori e si lustrano maschere e cosutmi, si preparano le coreografie delle sfilate, si propaga ovunque una diffusa atmosfera che sta fra il Carnevale di Rio e Fuorigrotta, perché quanto a fuochi d'artificio i cinesi non sono secondi a nessuno e perfino i napoletani si inchinano, riverenti, davanti ai maestri assoluti. Sono curioso di come se la caveranno nella Chinatown di Bandar Seri Belawan, capitale del Brunei, dove vige la legge coranica, e cercherò di essere là nella notte del passaggio dall'anno del topo a quello del bufalo. Fornita di alcuni musei interessanti, tra cui quello di etnologia e storia naturale, dopo il commercio l'altra attività di KK è il turismo, qui organizzato in maniera quasi industriale, e con forti interventi statali, a differenza che nel Sarawak, dove tutto si svolge in un'atmosfera più familiare e informale e molto più rilassata, dove nessuno si sogna di spingerti a fare per forza qualcosa. Orang utan a SemenggohE' anche per questo che ho preferito fare la visita a un centro di riabilitazione degli orang utan (in bahasa malaysia letteralmente "uomo della foresta") nei pressi di Kuching, a Semenggoh, piuttosto che in quello famosissimo di Sepilok, purtroppo preso d'assalto daii turisti, per una scelta irresponsabile da parte dell'amministrazione, col risultato che l'eccessivo contatto con gli umani ha portato delle malattie che rendono difficilissimo il ritorno in natura dei primati. A Semenggoh, venerdì scorso, c'erano dieci visitatori e nel centro una trentina di orang utan, e una dozzina quelli che hanno pasteggiato a due passi di distanza. Dopo averli osservati da vicino mi rifiuto di chiamarli animali, e la mia ricorrente battuta secondo cui sono le scimmie a discendere dall'uomo e non viceversa assume un tono sempre meno paradossale, perché non è detto che la linea evolutiva non porti nella loro direzione, Lo dimostra la razionalità e, insieme l'intelligenza con cui reagiscono alla drastica riduzione, a opera dell'imbecillità e dell'avidità umana, del loro habitat naturale, facendovi fronte attraverso un ferreo controllo delle nascite. A costo di estinguersi volontariamente in una sorta di eutanasia volontaria. Noi, che siamo così evoluti, stiamo ad ascoltare un babbione vestito di bianco o dei barbudos col turbante o il cilindro in testa, e la conseguenza sono le bidonville della islamica Jakarta o della cattolicissima Manila, tanto per rimanere in zona. E poi voglio vederlo, un umano, così atletico da muoversi con la grazia e disinvoltura di un orang utan, anche con un piccolo aggrappato, come danzando tra rami di alberi alti trenta metri, ad aprire una noce di cocco in tre secondi o sbucciare le banane con una mano sola!

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