"Cold War" (Zimna wojna) di Pawel Pawlikoswski. Con Joanna Kulig, Tomasz Kot, Borys Szyc, Agata Kulesza, Cédric Kahn, Jeanne Balibar. Polonia 2018 ★★★★½
A differenza di chi ha visto in Cold War un film girato su misura per un pubblico e una critica festivalieri e per cinéphiles (ha vinto la Palma d'Oro a Cannes per la miglior regia quest'anno, dopo che Pawlikowski era stato premiato con l'Oscar per Ida nel 2015), io l'ho trovato un film che, per quanto giocato sulla metafora (peraltro perfettamente intellegibile, con un minimo di sforzo e di conoscenza della storia europea recente), racconta in maniera coinvolgente la vicenda di un amore turbolento negli anni che vanno dal 1949 al 1964 attraverso una serie di quadri, che si susseguono in ordine cronologico, ambientati via a Lodz e Varsavia, in Polonia; a Berlino Est, in Jugoslavia; a Parigi e, per chiudere il cerchio, nuovamente in Polonia. Nella Polonia socialista dell'ultimo dopoguerra Wiktor è un valente musicista di formazione borghese che dirige con Irena (Agata Kulesza, già protagonista in Ida) la Scuola di Musica di canto popolare che diventerà il famoso Gruppo Mazowsze, e gira per il Paese (anche culturalmente da ricostruire) a documentare tradizioni popolari e reclutare talenti da formare, e tra questi emerge immediatamente Zula, strepitosamente interpretata da una memorabile Joanna Kulig (la quale anche in Ida aveva una parte non secondaria), che da sola vale il biglietto, una giovane proletaria dal carattere indomabile, sincera fino alla brutalità, in libertà condizionale per aver accoltellato il padre che aveva tentato di violentarla. Lo sguardo e l'espressione che ha quando, guardando in faccia Wiktor, gli dice: "Mi aveva scambiato per mia madre: gli ho fatto provare la differenza" fanno sí che ci si innamori immediatamente di lei, a maggior ragione Wiktor, e il rapporto tra il maestro e mentore e l'allieva si trasforma in una relazione forte quanto clandestina mentre la fama del gruppo cresce, con Zula come elemento di spicco, fino alla trasferta a Berlino Est nei primi anni Cinquanta. E' in questa occasione che Wiktor, che si trova sempre più in disaccordo con la linea troppo propagandistica e politicizzata che viene imposta al gruppo, pianifica la loro fuga a Ovest ma all'ultimo momento Zula (che era pure stata incaricata di spiarne i movimenti) rinuncia, e lui parte da solo (cosa che lei gli rimprovererà anni dopo). Wiktor si stabilirà a Parigi, dove si esibisce come pianista in un celebre locale jazz, lavora e frequenta l'ambiente bohèmien rimanendo purtuttavia un esule, per quanto di successo finché, dopo essersi incontrati una prima volta in Jugoslavia e poi ritrovati a Parigi durante una tournée dei Mazowsze, Zula rimane con lui e inizieranno una convivenza tempestosa quanto il loro rapporto, anche perché lei non si adatta alla vita e non è in grado (né vuole) comprendere le metafore (Pawlikowski le mette in bocca esplicitamente questo termine) in uso nell'ambiente che frequentano, e finisce per lasciarlo e rientrare in Polonia, dove alla fine tornerà anche lui, perché non può farne a meno (sia di lei, sia del suo Paese: l'amore di una vita in entrambi i casi, difficile quanto inevitabile) in una sorte di espiazione. 85' di emozione pura, girati in un bianco e nero efficace e suggestivo in quel formato 4:3 che esalta la figura intera, colonna sonora perfettamente modulata sulle diverse situazioni (non manca Per 24 mila baci di Celentano sullo sfondo, ancora oggi uno degli standard immancabili in feste e sagre dei paesi ex comunisti), eccellenti gli attori, ma la piccola grande Joanna Kulig una spanna su tutti.
A differenza di chi ha visto in Cold War un film girato su misura per un pubblico e una critica festivalieri e per cinéphiles (ha vinto la Palma d'Oro a Cannes per la miglior regia quest'anno, dopo che Pawlikowski era stato premiato con l'Oscar per Ida nel 2015), io l'ho trovato un film che, per quanto giocato sulla metafora (peraltro perfettamente intellegibile, con un minimo di sforzo e di conoscenza della storia europea recente), racconta in maniera coinvolgente la vicenda di un amore turbolento negli anni che vanno dal 1949 al 1964 attraverso una serie di quadri, che si susseguono in ordine cronologico, ambientati via a Lodz e Varsavia, in Polonia; a Berlino Est, in Jugoslavia; a Parigi e, per chiudere il cerchio, nuovamente in Polonia. Nella Polonia socialista dell'ultimo dopoguerra Wiktor è un valente musicista di formazione borghese che dirige con Irena (Agata Kulesza, già protagonista in Ida) la Scuola di Musica di canto popolare che diventerà il famoso Gruppo Mazowsze, e gira per il Paese (anche culturalmente da ricostruire) a documentare tradizioni popolari e reclutare talenti da formare, e tra questi emerge immediatamente Zula, strepitosamente interpretata da una memorabile Joanna Kulig (la quale anche in Ida aveva una parte non secondaria), che da sola vale il biglietto, una giovane proletaria dal carattere indomabile, sincera fino alla brutalità, in libertà condizionale per aver accoltellato il padre che aveva tentato di violentarla. Lo sguardo e l'espressione che ha quando, guardando in faccia Wiktor, gli dice: "Mi aveva scambiato per mia madre: gli ho fatto provare la differenza" fanno sí che ci si innamori immediatamente di lei, a maggior ragione Wiktor, e il rapporto tra il maestro e mentore e l'allieva si trasforma in una relazione forte quanto clandestina mentre la fama del gruppo cresce, con Zula come elemento di spicco, fino alla trasferta a Berlino Est nei primi anni Cinquanta. E' in questa occasione che Wiktor, che si trova sempre più in disaccordo con la linea troppo propagandistica e politicizzata che viene imposta al gruppo, pianifica la loro fuga a Ovest ma all'ultimo momento Zula (che era pure stata incaricata di spiarne i movimenti) rinuncia, e lui parte da solo (cosa che lei gli rimprovererà anni dopo). Wiktor si stabilirà a Parigi, dove si esibisce come pianista in un celebre locale jazz, lavora e frequenta l'ambiente bohèmien rimanendo purtuttavia un esule, per quanto di successo finché, dopo essersi incontrati una prima volta in Jugoslavia e poi ritrovati a Parigi durante una tournée dei Mazowsze, Zula rimane con lui e inizieranno una convivenza tempestosa quanto il loro rapporto, anche perché lei non si adatta alla vita e non è in grado (né vuole) comprendere le metafore (Pawlikowski le mette in bocca esplicitamente questo termine) in uso nell'ambiente che frequentano, e finisce per lasciarlo e rientrare in Polonia, dove alla fine tornerà anche lui, perché non può farne a meno (sia di lei, sia del suo Paese: l'amore di una vita in entrambi i casi, difficile quanto inevitabile) in una sorte di espiazione. 85' di emozione pura, girati in un bianco e nero efficace e suggestivo in quel formato 4:3 che esalta la figura intera, colonna sonora perfettamente modulata sulle diverse situazioni (non manca Per 24 mila baci di Celentano sullo sfondo, ancora oggi uno degli standard immancabili in feste e sagre dei paesi ex comunisti), eccellenti gli attori, ma la piccola grande Joanna Kulig una spanna su tutti.
Mah...Lo sto vedendo ora e non mi convince, noioso perfino come storia d'amore, senza contare l'inutile esibizione finto storica del b/n che, vista la tendenza ad andare avanti per salti temporali senza legarli fra loro, ci si aspetterebbe che almeno un salto lo facesse verso la fine facendo comparire il colore, che avrebbe dato un po' di rotondità a un film che poteva essere da cinéphiles giusto nella Polonia sovietica (o nella Yugoslavia di Tito)...
RispondiElimina