"Tre volti" di Jafar Panahi. Con Behnaz Jafari, Jafar Panahi, Marziyeh Razaei, Maedeh Erteghaei, Narges Delaram e altri. Iran 2018 ★★★★+
Inarrestabile, il grande regista iraniano Jafar Panahi, dopo essersi riconvertito in Taxi Driver, facendo di necessità virtù e trovando il modo di eludere il divieto di girare film in esterni, continua la sua personale Odissea alla ricerca di un modo di raccontare storie e, soprattutto, il suo Paese, questa volta non sulle strade della capitale, come nel delizioso Taxi Teheran, ma in trasferta, sulle brulle montagne dell'Iran Occidentale, nella regione azera da cui lui stesso è originario. Vi si reca assieme all'amica Behnaz Jafari, una delle più brave e famose attrici del Paese, questa volta col pretesto di chiarire in via definitiva il mistero di un video giunto sullo smartphone dell'artista in cui una ragazza, aspirante attrice e studentessa al conservatorio di Teheran, si rivolgeva a lei perché intercedesse con la famiglia, e in particolare il fratello maggiore, perché non ostacolasse la sua aspirazione di diventare a sua volta attrice: nel video, dopo aver visto svanire i tentativi di mettersi in contatto con Jafari, la ragazza, Marziyeh, sembrava aver inscenato un suicidio. Il tutto è ovviamente un pretesto e, con la scusa dell'indagine sulla fine della ragazza, definita unanimemente dalla ruspante popolazione locale una velleitaria "testa vuota", trasforma gli incontri e le conversazioni con l'umanità del posto in un'occasione per creare dei quadretti che illustrano meglio di qualsiasi saggio la contraddittoria realtà di un Paese si cui si sa (e vuol sapere) poco o nulla, in equilibrio instabile tra arcaicità e modernità, dove ci sono più parabole satellitari che medici e infermieri; dove l'emancipazione femminile è una chimera ma le donne appaiono non solo più determinate ma, a ben vedere, più forti degli uomini. Panahi e Jafari trovano anche modo di rendere omaggio a due figure del cinema e dello spettacolo iraniani osteggiate dal regime khomeinista: Behrouz Vossoughi, che da anni vive in California, di cui Panaji scova una vecchia locandina a casa di un anziano di quando fu protagonista in Tangsir girato da Amir Naderi, mentre immagina di ritrovare in quelle contrade sperdute, autoesiliata e ritirata a vita privata in una modesta casa dove dipinge e continua a professare la sua arte ma non in pubblico, Kobra Saeedi, la danzatrice Shahrzad, star degli anni Settanta sparita dalle scene dopo la rivoluzione del 1979. Solidali con Panaji, si continua ad apprezzarlo non solo per solidarietà con la sua battaglia di libertà, per la sua tenacia, la serenità e senso dell'ironia che lo contraddistinguono nonostante l'isolamento e le restrizioni, ma perché la sua bravura di regista e narratore di storie traspaiono anche da queste pellicole prodotte artigianalmente con i limitatissimi mezzi di cui dispone.
Inarrestabile, il grande regista iraniano Jafar Panahi, dopo essersi riconvertito in Taxi Driver, facendo di necessità virtù e trovando il modo di eludere il divieto di girare film in esterni, continua la sua personale Odissea alla ricerca di un modo di raccontare storie e, soprattutto, il suo Paese, questa volta non sulle strade della capitale, come nel delizioso Taxi Teheran, ma in trasferta, sulle brulle montagne dell'Iran Occidentale, nella regione azera da cui lui stesso è originario. Vi si reca assieme all'amica Behnaz Jafari, una delle più brave e famose attrici del Paese, questa volta col pretesto di chiarire in via definitiva il mistero di un video giunto sullo smartphone dell'artista in cui una ragazza, aspirante attrice e studentessa al conservatorio di Teheran, si rivolgeva a lei perché intercedesse con la famiglia, e in particolare il fratello maggiore, perché non ostacolasse la sua aspirazione di diventare a sua volta attrice: nel video, dopo aver visto svanire i tentativi di mettersi in contatto con Jafari, la ragazza, Marziyeh, sembrava aver inscenato un suicidio. Il tutto è ovviamente un pretesto e, con la scusa dell'indagine sulla fine della ragazza, definita unanimemente dalla ruspante popolazione locale una velleitaria "testa vuota", trasforma gli incontri e le conversazioni con l'umanità del posto in un'occasione per creare dei quadretti che illustrano meglio di qualsiasi saggio la contraddittoria realtà di un Paese si cui si sa (e vuol sapere) poco o nulla, in equilibrio instabile tra arcaicità e modernità, dove ci sono più parabole satellitari che medici e infermieri; dove l'emancipazione femminile è una chimera ma le donne appaiono non solo più determinate ma, a ben vedere, più forti degli uomini. Panahi e Jafari trovano anche modo di rendere omaggio a due figure del cinema e dello spettacolo iraniani osteggiate dal regime khomeinista: Behrouz Vossoughi, che da anni vive in California, di cui Panaji scova una vecchia locandina a casa di un anziano di quando fu protagonista in Tangsir girato da Amir Naderi, mentre immagina di ritrovare in quelle contrade sperdute, autoesiliata e ritirata a vita privata in una modesta casa dove dipinge e continua a professare la sua arte ma non in pubblico, Kobra Saeedi, la danzatrice Shahrzad, star degli anni Settanta sparita dalle scene dopo la rivoluzione del 1979. Solidali con Panaji, si continua ad apprezzarlo non solo per solidarietà con la sua battaglia di libertà, per la sua tenacia, la serenità e senso dell'ironia che lo contraddistinguono nonostante l'isolamento e le restrizioni, ma perché la sua bravura di regista e narratore di storie traspaiono anche da queste pellicole prodotte artigianalmente con i limitatissimi mezzi di cui dispone.
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