"Io sono Tempesta" di Daniele Luchetti. Con Marco Giallini, Elio Germano, Eleonora Danco e altri. Italia 2018 ★½
Al solito, quanto maggiori sono le aspettative, tanto più cocente è la delusione quando risultano malriposte alla prova dei fatti, di conseguenza ancora più severo il giudizio. Giallini e Germano, che comunque tengono in qualche modo in piedi il film, da soli dovrebbero essere una garanzia, e così la regìa di Daniele Luchetti, che pure alcuni buoni film li ha girati, dopo Il portaborse che l'ha reso famoso. Diciamo che la commedia caciarona all'italiana non è nelle sue corde: e si vede. La domanda è perché ci sia cascato. Potrebbe anche funzionare l'idea di un film sulla cialtronaggine generalizzata, ma in tal caso sarebbe opportuno che emergesse da un racconto aderente alla realtà, di denuncia dura oppure, all'opposto, di satira feroce; qui si manda tutto in vacca fin dall'inizio, perché se le vicende di Numa Tempesta, un finanziere "senza fissa dimora" il quale vive in alberghi di lusso che compra quando sono sulla via del fallimento per rivenderli agli arabi o ai russi o trasformarli in sale bingo, gestisce fondi da milioni di euro ma finisce a scontare una vecchia condanna per frode fiscale ai servizi sociali ricordano in tutta evidenza da vicino quelle del pregiudicato brianzolo che condiziona non solo la vita politica ma l'abito mentale di una consistente parte degli italiani, qui si fa di ogni erba un fascio e tutto il Paese, in ogni suo aspetto, a cominciare dai canoni estetici (tatuati, mignotte rifatte e pagliacci, in più il tutto in romanesco) sembra in preda alla berlusconite, a cominciare dalla corte dei miracoli che il condannato si trova a dover accudire nel suo anno di "lavori sociali". E che il buon Numa, una simpatica canaglia dal volto umano e un cuore, in fondo, d'oro, circuisce per ricavarne un giudizio positivo come assistente sociale al fine di ottenere dalla direttrice della Onlus dove presta servizio, una beghina con qualche fregola residua, il benestare per riavere il passaporto allo scopo di portare a termine una speculazione in Kazakhstan. Alla fine anche i poveracci imparano presto la lezione della finanza creativa e Numa si redimerà in due modi: affidando loro una sala bingo e andando volontariamente in carcere non tanto a scontare la pena, ma a riallacciare il rapporto con un padre lo riteneva solo un povero coglione e la cui mancanza sembra averlo reso lo stronzo che è. Ossia, oltre al luogocomunismo che aleggia su tutto il film, per cui l'Italia è solo fatta da furbi, in sostanza: il vippume da un lato e il sottoproletariato straccione dall'altro, e in mezzo il pidiota come categoria umana nelle sue varie sfaccettature, in questo caso quello "cooperante" per carità cristiana, il precipizio nel baratro del buonismo più bieco e scontato. Una tristezza. Con queste premesse, arrivederci a chissà quanto, caro Luchetti...
Al solito, quanto maggiori sono le aspettative, tanto più cocente è la delusione quando risultano malriposte alla prova dei fatti, di conseguenza ancora più severo il giudizio. Giallini e Germano, che comunque tengono in qualche modo in piedi il film, da soli dovrebbero essere una garanzia, e così la regìa di Daniele Luchetti, che pure alcuni buoni film li ha girati, dopo Il portaborse che l'ha reso famoso. Diciamo che la commedia caciarona all'italiana non è nelle sue corde: e si vede. La domanda è perché ci sia cascato. Potrebbe anche funzionare l'idea di un film sulla cialtronaggine generalizzata, ma in tal caso sarebbe opportuno che emergesse da un racconto aderente alla realtà, di denuncia dura oppure, all'opposto, di satira feroce; qui si manda tutto in vacca fin dall'inizio, perché se le vicende di Numa Tempesta, un finanziere "senza fissa dimora" il quale vive in alberghi di lusso che compra quando sono sulla via del fallimento per rivenderli agli arabi o ai russi o trasformarli in sale bingo, gestisce fondi da milioni di euro ma finisce a scontare una vecchia condanna per frode fiscale ai servizi sociali ricordano in tutta evidenza da vicino quelle del pregiudicato brianzolo che condiziona non solo la vita politica ma l'abito mentale di una consistente parte degli italiani, qui si fa di ogni erba un fascio e tutto il Paese, in ogni suo aspetto, a cominciare dai canoni estetici (tatuati, mignotte rifatte e pagliacci, in più il tutto in romanesco) sembra in preda alla berlusconite, a cominciare dalla corte dei miracoli che il condannato si trova a dover accudire nel suo anno di "lavori sociali". E che il buon Numa, una simpatica canaglia dal volto umano e un cuore, in fondo, d'oro, circuisce per ricavarne un giudizio positivo come assistente sociale al fine di ottenere dalla direttrice della Onlus dove presta servizio, una beghina con qualche fregola residua, il benestare per riavere il passaporto allo scopo di portare a termine una speculazione in Kazakhstan. Alla fine anche i poveracci imparano presto la lezione della finanza creativa e Numa si redimerà in due modi: affidando loro una sala bingo e andando volontariamente in carcere non tanto a scontare la pena, ma a riallacciare il rapporto con un padre lo riteneva solo un povero coglione e la cui mancanza sembra averlo reso lo stronzo che è. Ossia, oltre al luogocomunismo che aleggia su tutto il film, per cui l'Italia è solo fatta da furbi, in sostanza: il vippume da un lato e il sottoproletariato straccione dall'altro, e in mezzo il pidiota come categoria umana nelle sue varie sfaccettature, in questo caso quello "cooperante" per carità cristiana, il precipizio nel baratro del buonismo più bieco e scontato. Una tristezza. Con queste premesse, arrivederci a chissà quanto, caro Luchetti...
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