Myanmar, a piccoli passi fuori dal tunnel
La scorsa settimana, alla domanda su quanto il Myanmar fosse democratico in una scala da uno a dieci, Aung San Suu Kyi, trionfatrice delle elezioni parziali tenutesi ieri, rispose: "Siamo all'inizio del primo gradino". Il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (NLD), ha conquistato almeno 40 dei 44 seggi per cui si era presentata sui 45 in palio tra Camera bassa Camera alta e Camere regionali: i risultati definitivi si avranno nei prossimi giorni e il pronostico oscilla tra i 43 e l'en plein. Percentuali simili se non maggiori a quelle delle elezioni scippate del 1990, quando con il 60% dei voti totali ottenne l'80% dei seggi parlamentari, e puntualmente disattese dal regime militare che tormenta il Paese da 50 anni. Non cambia molto da un punto di vista pratico: anche conquistando tutti i seggi in palio la NLD avrebbe soltanto il 5% dei deputati in un parlamento dominato dai militari e dal partito che li spalleggia, l'Unione per la solidarietà e lo sviluppo, e i cui poteri sono alquanto limitati, ma l'affermazione del movimento guidato da Aung San Suu Kyi ha un'enorme significato simbolico, e non è escluso che il presidente ed ex generale Thein Sein offra alla NLD incarichi di governo, anche allo scopo di ottenere la revoca delle sanzioni economiche da parte soprattutto di USA e UE e alleggerire così l'isolamento del Paese. Le aperture avvenute nel corso dell'ultimo anno sono state sorprendenti, dalla liberazione di molti prigionieri politici alla legalizzazione della NLD, dall'allentamento della censura a una serie di accordi con gruppi armati delle minoranze etniche (quanto questo tema sia importante per il futuro del Paese lo spiega bene Léon de Riedmatten, mediatore svizzero per il Myanmar), fino alla progressiva riduzione delle restrizioni agli ingressi e alla mobilità dei visitatori stranieri (di cui io stesso ho usufruito di recente), ma non c'è da illudersi che il regime molli facilmente il potere. L'importante è che il movimento dei democratici birmani sia rientrato in gioco e possa magari sfruttare le incrinature che si manifestano in una giunta militare non più così monolitica come qualche tempo fa. Con la speranza che il saggio e squisito popolo birmano riesca a tenere a bada le smanie e le brame sia degli "esportatori di democrazia" occidentali sia dei turbocapitalisti-leninisti di Pechino.
Soprattutto le ultime due.
RispondiEliminaNei tempi lunghi, ciò che oggi appare come un raggio di luce, potrebbe rivelarsi un raggio laser pronto a incenerire ciò che di prezioso ancora si conserva nella cultura del popolo birmano.
Ciò che auguro a questo paese è di poter iniziare un percosro verso l'uscita dal tunnel della dittatura senza dover per questo cedere saggezza in cambio di qualche i-Pod o di qualche fast-food.
Il rischio delle aperture democratiche imposte dall'uscita dalle sanzioni Usa, è che anziché sviluppare la diffusione di un benessere "alla birmana", importino di forza - come è successo ovunque - quei tratti delle cultura occidentale americana che ha livellato i consumi appiattendo il mondo sulle esigenze della produzione (e dei consumi) di massa utili solo al capitalismo.
Il che, noi testimoni per primi - non sempre è indice di maggiore libertà e maggiore democrazia.
Bene, intendiamoci, che vi siano spiragli e aperture nel paese.
Solo mi spiacerebbe che uno degli ultimi paesi "sani" culturalmente, finisse omologato agli standard capitalistici da cui noi occidentali fatichiamo ora a liberarci.