giovedì 12 gennaio 2012

Do the Strand



YANGON - Il primo impatto con l’ex capitale del Paese da qualche anno chiamato Myanmar non poteva essere migliore. L’aeroporto, forse perché dev’esserne una vetrina: lustro, luminoso, semplice, sufficientemente funzionale, a parte la facciata pomposa con decoro dorato sul lato della pista: per dare il benvenuto all’ospite nel Paese, appunto, dell’oro. Funzionari scrupolosi più che pedanti,  una certa reminiscenza di socialismo reale  - ci sono molte assonanze con l'Avana - viene temperata dalla naturale gentilezza e cortesia della gente di qua, compresa quella in divisa. Almeno con gli stranieri autorizzati. Oltre a una temperatura perfetta, 25 gradi al tramonto, con un impressionante concerto di uccelli che sembravano impazziti dopo essersi dati convegno nel viale alberato antistante l’uscita e poi via, verso il centro della città, in lieve discesa: otto chilometri circa, ma di traffico piuttosto intenso, alle 6 di sera. Si passa in fianco alla Shwegadon Paya, il più famoso monumento birmano, con l’enorme stupa coperto di lamine d’oro illuminato a giorno, e si rimane fulminati. Come non bastasse, a fare da rotatoria nel punto più nevralgico del traffico cittadino, la Sule Paya, vecchia di duemila anni. Il cuore della città. Che in birmano si chiama Yangon, e non Rangoon come l’avevano battezzata gli inglesi. Così come Myanmar non è un nome nato dalla fantasia spesso malsana dell'attuale governo, pur capace di inventarsi una nuova capitale, Nay Pyi Taw, nel 2005, immersa nel nulla, a fianco della strada che sale da Yangon a Mandalay, ma il nome birmano per “Burma” usato sempre dagli inglesi e quindi imposto. Lo preciso a scanso di equivoci, prima di attirarmi degli strali censori. Anche se mi capiterà lo stesso di usare il termine Birmania. Yangon è delimitata a Ovest e a Sud dal fiume omonimo, e a Est dal canale Pazundaung Chaung che a sua volta confluisce nel fiume: come tutto il Paese, vive sull'acqua e di acqua. Ne muore anche, talvolta. Come nel caso del ciclone Nargis del magggio 2008, che ha lasciato tracce ovunque. Quindi, dopo un primo approccio al mondo delle pagode con la visita della Botataung Paya, ai margini del centro storico e in prossimità dei moli sul fiume, a incuriosirmi sono state le visibili tracce della colonizzazione inglese e la loro convivenza con una realtà locale fatta anche di baracche e aspetti campestri proprio nello Strand, il vialone che costeggia il fiume, sede di parecchi palazzi pubblici, a cominciare dalle Poste, dall’ambasciata britannica e dall’autorità portuale, e che mi ha fatto venire in mente, come accompagnamento musicale adeguato, il famoso brano dei Roxy Music cantato da Brian Ferry (cosa c’è di più brit?). Sotto questo aspetto, come per lo stato delle strade e i marciapiedi a dir poco disconnessi, Yangon mi ricorda da un lato Phnom Penh quando la visitai la prima volta, 7 anni fa, e dall’altro le città indiane, cui le accomunano non solo lo stile di molte costruzioni ma anche i caratteri della scrittura nonché i lineamenti della gente, in cui si notano spesso tracce di caratteri indiani sia per il taglio degli occhi, sia per il colore della pelle, e anche in questo ho notato somiglianze con i khmer che abitano la Cambogia, con cui i birmani hanno in comune anche la estrema gentilezza (mai servile) e disponibilità verso il prossimo e lo straniero in particolare. Un altro Paese in cui ho lasciato il cuore e che le prime ore in Birmania mi hanno subito ricordato, per il modo di fare delle persone, e il fatto di vivere in povertà ma non proprio in miseria, e comunque dignitosamente, è il Laos. Anch’esso prevalentemente rurale e alquanto isolato, con la differenza che il Myanmar è un Paese estremamente ricco di materie prime anche strategiche (come il petrolio) e di una popolazione mediamente bene istruita. Che attende solo di decollare, come mi ha detto un monaco buddista ieri, e non riesce a capire perché non può avere un livello di vita pari almeno a quello dei vicini thailandesi. Di cui i birmani, in realtà, sanno assai poco essendo loro pressoché impedito di viaggiare all'estero, e non è detto che il tipo di sviluppo intrapreso dalle “Tigri asiatiche” piacerebbe al giovane e impegnato monaco, se lo conoscesse da vicino. Anche se quello che voleva dire è che il suo popolo merita di vivere meglio. E su questo siamo d’accordo.


2 commenti:

  1. Non credo di poter immaginare quale sensazione proverei a guardare, arrivando dalla "civiltà occidentale", la bellezza di uno stupa ricoperto di lamine d'oro.
    So però che, ogni volta che mi è successo di scendere all'aeroporto di ritorno da qualche viaggio, la sensazione immediata di questo nostro Paese è stata sempre di profonda desolazione.
    Immagino che per "vivere meglio", noi dovremmo abbattere un po' di orrori e seminare un po' d'erba,: anche senza i magnifici stupa d'oro, basterebbe.
    Concordo quindi con la tua sintesi finale: non è detto che, se lo conoscesse più da vicino, al monaco (ma anche a un qualunque altro birmano) piacerebbe lo "sviluppo" all'occidentale della vicina Thailandia.
    In fondo, lui, nel suo pase, ha molti divieti oggettivi che limitano la sue aspirazioni (a viaggiare, per esempio).
    La vicina Thailandia ha in comoenso il più alto tasso di schiavismo sessuale infantile.
    Solo per dirne una.
    Non so se valga a definire la Thailandia un paese migliore della Birmania.

    RispondiElimina
  2. Grazie, è stato un vero piacere leggerti, mi hai ridato la voglia di visitare la Birmania. Quando mi si ripresenterà l'opportunità di andarci la coglierò al volo.
    Forse è egoismo il mio, ma preferirei che rimanesse così come lo descrivi anche se auguro a questo popolo tutta la evoluzione e il progresso che merita.
    Do your best to enjoy your staying there.
    I'm waiting to read more from you,
    Friendly yours

    RispondiElimina