Autorità morale e istituzioni
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Sule Paya |
YANGON – Descrivere le grandi pagode di questa città risulta essere non solo
difficile ma anche un esercizio inutile. A tanto dovrebbero bastare le foto,
sempre che riesca a postarne qualcuna. Ciò che queste non possono esprimere è
l’atmosfera di cui sono intrise e il senso che hanno per la popolazione locale, il
modo in cui questa li vive. I birmani sono profondamente pervasi dal pensiero e
dall’etica buddista, ed è anche noto che i monaci sono non soltanto l’autorità
morale (e all’occorrenza la coscienza civile) ma anche l’unica vera istituzione
riconosciuta da tutti nel Paese, ma luoghi come le pagode, che racchiudono una
serie che sembra infinita di templi, sono una parte importante della loro
esistenza e delle loro giornate; spazi che vivono per ritrovarsi con sé
stessi, i propri pensieri, staccarsi dal quotidiano, prendendosi, per così
dire, una vacanza. Ma senza dimenticarsene. Ognuno segue i suoi rituali, fa le offerte all’animale che
rappresenta il proprio giorno di nascita, a uno spirito o a una reincarnazione
del Buddha; oppure fa quel che crede: alcuni si dedicano alla meditazione,
altri intonano litanie di gruppo, pranzano, si appisolano, leggono,
chiacchierano con un monaco. Questi a loro volta si dedicano alle attività più
disparate, compresa quella di attaccare
volentieri bottone coi visitatori stranieri e lasciarsi andare a lunghe
disquisizioni calcistiche. Anche per chi non è buddista, l’atmosfera delle
“paya” è contagiosa: anche nella strepitosa Swedagon, meta incessante di
pellegrini e di turisti che domina la città ed è visibile da quasi tutti i suoi
punti, dopo che si rimane stupefatti e incantati dalle decine di zedi, dalle
nicchie, dalle statue, dai mille colori sfavillanti, dall’oro rilucente, si
viene presto pervasi da un senso di rilassamento, di pace, e si finisce per
prendere esempio dai locali, cercarsi una nicchia dove fermarsi, in un ambiente
con cui ci si trova in sintonia, sistemarsi a proprio agio e perdersi, facendo
vagare il pensiero. A me è pure capitato di appisolarmi, ed è stata una delle
“penniche” pomeridiane più soddisfacenti di cui ho memoria. Ero in realtà reduce da una
intensa giornata di scarpinamento e di visite alle diverse “paya”: avevo cominciato
dalla Sule, che risale a duemila anni fa, e che funge da rotatoria nel più
importante snodo di traffico del centro cittadino, con uno zedi (o stupa) che culmina con una campana anch’essa
inconsuetamente ottagonale, alta 46 metri, e nel cui perimetro si aprono una
serie di negozietti del più vario tipo: un barbiere, una copisteria, un
internet point, un paio di astrologi e lettori della mano. Sacro e profano si
accompagnano sempre nella vita di uno zedi
birmano. Al seguito di un monaco e di uno studente di architettura e restauro
con cui mi ero messo a chiacchierare, sono andato a visitarne altre due: la
Ngahtatgyi Paya, dove si trova un imponente Buddha seduto su un incredibile
baldacchino di legno finemente intarsiato (due anni di lavoro di restauro), alto
45 metri, bianco, con vestito dorato tempestato di giade, smeraldi, rubini, diamanti, in un’area
piena di monasteri, in mezzo alla giungla: in alcuni casi sempilcissimi bungalow, in altri
casotti coloniali riadattati (era una zona residenziale dove vivevano gli inglesi) qui vivono, anche se non si notano, più di mille monaci; poi,
appena attraversata la strada (quella che conduce dalla Swegadon
all’aeroporto), la Chaukhtatgyi Paya, dove si trova invece un gigantesco e
impressionante Buddha dormiente, lungo 72 metri, e custodito all’interno di un
capannone col tetto di metallo. All’interno del complesso del tempio, che
ricorda un villaggio campestre di un'altra epoca, si trova anche il centro Shweminwon Sesana
Yeiktha, dove si riuniscono a meditare molti buddhisti birmani. E’ intuibile
per quale motivo queste due “paya” non vengano per nulla pubblicizzate. In
tutti i casi, e negli ultimi due in particolare, basta varcare la soglia di
queste pagode per entrare in una dimensione completamente diversa da quella
caotica della città circostante, eppure nessuno meglio dei monaci sa
interpretarne e coglierne la realtà.
Aleggia, leggendo questo post, un'aura misteriosa, cioè mistica. Quella dimensione del sacro che, nel suo significato più alto non può che comprendere la dimensione umana che il sacro partorisce.
RispondiEliminaIn particolare in quest'ultima foto, dove l'ombra e la luce formano quasi il simbolo dello yin-yang (il Tutto, cioè il bianco abbracciato al nero, dove il nero contiene un punto bianco e il bianco un punto nero, cioè la Perfezione dell'Universo nella sua totalità).
Sullo sfondo dei panni stesi, abiti vuoti dei monaci, i rinuncianti, si apre fra le piante e la terra battuta uno scorcio di luce da cui si intravvede, oltre un tetto, un micro tetto dorato di un (possibile?) stupa.
Insomma, se questo è l'inizio di un viaggio, ha le premesse per rivelarsi un rito di trasformazione.
Umana e Divina, che questa è sempre trasformazione anche di quella.
Chapeau e buon proseguimento...
Non trovo le parole giuste, ne ho solo una: MERAVIGLIOSO!
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