YANGON – A Yangon esiste una pletora di Railway
Stations, che fanno capo a quella faraonica, in stile vittoriano, situata
subito a Nord del centro storico, fra la Sule e la Shwedagon Paya, e un numero
imprecisato ma tendente all’infinito di Beer
Stations. Quasi superfluo ricordare, a chi mi conosce, che al 3° giorno in
città abbia già creato un mio circuito preferenziale e personalizzato di queste
ultime. Il birromane è un animale estremamente abitudinario: metodico e
meticoloso, incline alla ritualità: ha bisogno di sicurezze. Sfatata la
leggenda per cui in Birmania la birra venga servita a temperatura ambiente,
perché nel frattempo i frigoriferi sono giunti anche qui mentre il ghiaccio era
conosciuto già da prima, e che quando viene spillata alla spina è comunque a temperatura
adeguata, e una volta stabilito che la “Myanmar”, la casa di gran lunga più
diffusa, è più che potabile (in una scala di valori la colloco all’altezza
della “Tiger” di Singapore, la birra che gode della distribuzione più capillare
in tutta l’Asia, della tailandese “Chang” e appena un gradino sotto la mitica
“Lao”, che come suggerisce il nome viene prodotta nel Laos), viene meno il
problema della ricerca del luogo di spaccio della marca preferita:
l’itinerario, station-to-station, per
concludere degnamente la giornata, viene stabilito in base al feeling che si crea tra fruitore,
gestore, camerieri e clientela abituale; il che, con l’aggiunta delle variabili date dalla
posizione e dall’ambiente, crea quella miscela che, se è quella giusta, fa
scoccare la scintilla. Come l’amore, quello vero. Poiché quella di ieri era
l’ultima serata nella capitale prima di spostarmi verso Nord, a Mandalay, ho
pensato bene di santificare, in un certo qual modo, l’ultimo “giro” birresco
facendo in modo di meritarmelo. Come premio per qualcosa che desse un senso
compiuto alla giornata. Qualcosa in tema di stations
e che pochi viaggiatori stranieri sperimentano dal vivo: l’intero tracciato
della Circe Line: quello che, per
l’appunto station-to-station, compie
la linea ferroviaria ereditata dalla Corona Britannica percorrendo il perimetro
esterno alla città, partendo dalla stazione principale e completandovi il
circuito. Più che un’avventura (niente di pericoloso: la gente di qui è
estremamente civile ed educata, amichevole, ben disposta e mai invadente con lo
straniero.), un “viaggio nel viaggio”, che fa prendere un contatto concreto con
la realtà del luogo. Viaggio che inizia a un’ora imprecisata: “quando arriva il
treno”, e al binario che sarà. Fare il biglietto è un’impresa anche per i
locali, perché la burocrazia da queste parti non ha limiti: occorrono montagne
di scartoffie, e relativo personale per riempirle, per il rilascio di un
semplice tagliando. Fortunatamente adocchio un baracchino su cui campeggia il
cartello “Complaints”, e non “Informations”, eppure l’istinto mi suggerisce che
è il posto giusto. E ho ragione, perché il responsabile mi prende amabilmente
sotto la sua custodia e mi fa oltrepassare una serie di deliranti recinzioni
metalliche, attravesare i binari (senza passerella, s’intende: da un
marciapiede all’altro) fino a giungere all’ufficio che presiede i binari 5 e 6:
lì vengo consegnato agli incaricati del rilascio del biglietto (completato a
mano). Dietro esibizione del passaporto, s’intende, e dopo la compilazione
dell’apposito, interminabile, modulo. Per uno straniero il costo è un dollaro
USA: quando rispondo che non ce l’ho, rimangono dapprima disorientati, poi
accettano 1000 kyat, ossia la moneta locale (che al cambio valgono comunque
almeno 1,25 dollari). Alla fine sono ferrovieri, gente per definizione e
storicamente aperta al mondo e al prossimo, a tutte le latitudini, e quindi
solidale e disponibile nei confronti del forestiero, specie se viaggiatore: in un qualsiasi altro
ambito della pubblica amministrazione, gli addetti sarebbero stati
irremovibili. O dollaro o niente biglietto. Il treno arriverà non si sa quando,
in un qualche orario dopo le 13.40, né a quale tra i due binari 5 o 6: infatti
farà il suo trionfale ingresso in stazione al n° 3. Mi ci scorterà un altro
ferroviere che mi ha preso sotto la sua tutela, guidandomi in una gincana fra
un binario e l’altro, un treno in partenza e uno in arrivo: ma niente paura,
perché la loro velocità massima, una volta lanciati, è di 20 KM/h. Quello
preciso al minuto, sarà il tempo di percorrenza del circuito extracittadino:
esattamente tre ore, durante le quali è passato il mondo, fra chi scende e chi
sale, chi vende e chi compra, chi si riposa, chi traffica, chi fa il suo
lavoro, chi allatta, chi conversa, chi dorme, chi pensa agli affari suoi, chi ti guarda e
con cui cominci a scambiare qualche gesto, nel linguaggio universale: un segno
d’intesa, uno sbadiglio a indicare noia, sete, stanchezza, oppure complicità
curiosità nei confronti di qualcosa che stai condividendo. Dentro il vagone,
l’umanità più varia in tutte le sue varianti di età, sfaccettature, attività,
condizioni (generalmente modeste), sempre dignitosa. Fuori, oltre il finestrino
(privo di vetri, così come le vetture, che risalgono se va bene agli anni
Trenta, sono prive di porte, con le panche a liste di legno disposte per il
lungo, come nei tram), il panorama perlopiù della miseria, specialmente a
ridosso delle decine di stazioni in cui il convoglio rimaneva fermo per meno di
un minuto, il tempo necessario per le rapide operazioni di carico e scarico di
persone e merci le più diverse che si effettuano anche quando si rimette in movimento, per quanto è lento. Baracche
su baracche, quando va bene di compensato, altrimenti di paglia e cartoni e pallet, per tenerle sollevate dal
terreno, attraversate da rigagnoli e canali maleodoranti e inquinati, con l’acqua dai colori
più improbabili; qualche volta agglomerati di costruzioni in muratura, qualcuna
d’epoca (in qualche rara zona residenziale periferica), perlopiù orridi caseggiati
in stile sovietico; una decina almeno di vastissimi compound militari, questi sì dotati di solide e funzionali
costruzioni in muratura, nonché di rimesse colme di automezzi nuovi di zecca;
in mezzo, chilometri di aperta campagna coltivata, risaie, orti, alcune lagune
da pesca. Tre ore in cui mi è parso di fare un viaggio nel tempo, a ritroso,
prima ancora che nello spazio. Nella realtà, in carne e ossa, di questo Paese,
infelice ma non disperato, paziente ma non remissivo, vessato ma non
rassegnato. Oggi ho comunque raggiunto la certezza che anche Yangon è entrata a far parte di quella speciale categoria di citta, quelle "del cuore" per cui andrà in scena, prima della partenza, il rituale della nostalgia preventiva.
Scusa eh? Ma chi era poi 'sto Chatwin? Una Circle Line umana e ambientale, intrisa quel tanto di birra da sfumare in una serie di flash che la mente scatta man mano che legge per finire, partita da Yangon, sorprendentemente e piacevolmente, a Saigon. Sarà anche che Chatwin non disponeva di internet point, ma a questi link non c'è mai arrivato. Si attende Mandalay...
It's gorgeous!!!
RispondiEliminaScusa eh? Ma chi era poi 'sto Chatwin? Una Circle Line umana e ambientale, intrisa quel tanto di birra da sfumare in una serie di flash che la mente scatta man mano che legge per finire, partita da Yangon, sorprendentemente e piacevolmente, a Saigon.
RispondiEliminaSarà anche che Chatwin non disponeva di internet point, ma a questi link non c'è mai arrivato.
Si attende Mandalay...