giovedì 30 dicembre 2010
Saigon, il ritorno: missione compiuta e "bingo"!
SAIGON (SÀI GÒN ) – Si finisce dove si era cominciato la volta precedente. Mi ha fatto davvero tanto piacere tornare in questa città e concludere qui questo mio giro in Vietnam, perché qui avevo avuto il primo impatto col Paese cinque anni fa, e siccome nonostante le apparenze indulgo al sentimentalismo, mi era rimasta nel cuore e sono felice di essere di nuovo qui. Con alcune città, piuttosto che con altre, si crea un rapporto particolare: ha a che fare col fatto che alcune ti aprono le porte su un mondo che non conoscevi; altre per il loro carattere peculiare: quelle “del cuore” per entrambi gli aspetti, e per questo gruppo io coltivo quella che chiamo “nostalgia preventiva”, ossia nel momento stesso in cui ci sono arrivato, o tornato, già mi dispiace lasciarle, quindi indulgo con ancora più attenzione su alcuni particolari, pratico delle sorti di rituali anche inconsci e in sostanza mi predispongo mentalmente e affettivamente a ritornarci. L’esempio più eclatante di questa mia peculiare attitudine è Buenos Aires, città che peraltro predispone di suo alla malinconia, così come Lisbona; Monaco di Baviera, Londra; Madrid più di Barcellona, Budapest più che Praga, Belgrado più che Zagabria, curiosamente Roma ma più ancora Napoli (il mio primo “gateway” per il Sud), Istanbul, Il Cairo, Città di Messico, San Paolo molto più che Rio, anche se sembra paradossale; un po’ Parigi, nonostante la mia scarsissima simpatia per qualsiasi cosa abbia a che fare con la Francia, Bangkok per quanto riguarda l’Oriente; mentre città come New York, Santiago del Cile, Lima, Dublino, Pechino o Vienna mi lasciano sostanzialmente indifferente quando non mi stanno istintivamente sui coglioni.Questa mattina, giornata soleggiata e relativamente fresca, dopo che alcuni rapidi acquazzoni nella serata di ieri hanno provveduto a far diminuire il tasso di umidità, come prima cosa mi sono fatto portare in “Xe Om”, ovvero mototaxi, al consolato cambogiano, nella zona delle ex ambasciate, uffici ed edifici pubblici in stile europeo adiacenti al centro, e ho avuto la conferma della prima impressione avuta ieri arrivando in città: che il traffico fosse nettamente più ordinato rispetto a come me lo ricordassi cinque anni fa, e diminuito quello motociclistico, non del tutto compensato, fortunatamente, da un incremento di quello a quattro ruote. Quasi spariti anche i “cyclo”, un tempo simbolo di Saigon, confinati ormai in alcune strade del centro cittadino: la Municipalità pare seriamente intenzionata ad abolirli completamente in un futuro molto prossimo. Lavoro terribilmente faticoso, quello dei guidatori di "cyclo": dalla fine della guerra era stato per decenni l’ultima risorsa di ex soldati e ufficiali dell’esercito sudvietnamita, gli unici a pagare per davvero la sconfitta, come se avessero avuto una particolare colpa ad essere stati coscritti dalla parte sbagliata (in alto, la piazza Ben Thanh e la Sun Wah Tower sulla destra). Ultima cosa balzata all’occhio: i locali tra Pham Ngu Lao e il viale Bui Vien, zona di turisti a budget limitato come l'area di Kao San a Bangkok, hanno rinnovato l’ambiente esterno, e le sedie sembrano decisamente più confortevoli (ma è rimasta uguale l'ambientazione westerndel 17th: oggi come 5 anni fa mi chiedo il perché di una guerra per diventare piùyankees degli yankees: seconda foto). Nelle more della pratica burocratica e in attesa di ritirare il passaporto opportunamente fornito di permesso di entrata nel reame di Cambogia (24 U$D, grazie!), sono andato a fare un giro al mercato di Dan Sinh, conosciuto anche come “War Surplus Market”, ossia delle eccedenze belliche, di cui non è rimasto nulla che rievocasse la guerra, e nemmeno in giro per la città: acqua passata, ma solo 5 anni fa i “souvenir”, dalle piastrine di riconoscimento dei soldati USA agli “Zippo” personalizzati, agli oggetti ricavati da pallottole di ogni calibro erano reperibili ovunque. Un gran bel segno, per una volta, dei tempi che cambiano. Altro mercato pressoché sparito quello “Vecchio”, di cui rimane solo la sezione alimentare a ridosso dei cantieri che fioriscono nella zona di Dong Khoi, quella più “in” della città con il migliori alberghi, locali e negozi (a livello europeo), per renderla più omogenea (anche questo è socialismo, no?).Tornando alla “nostalgia preventiva” di cui parlavo all’inizio, essa opera in modo di acuire in maniera stupefacente le facoltà già di per sé poco comuni del mio naso di individuare i posti autentici in cui i locali vanno a fare bisboccia e comunque a vivere e mostrarsi nella maniera più autentica. In Vietnam questi luoghi sono, come ho già avuto modo di dire, i “Bia Hoi”, ossia spacci di birra alla spina (qui al Sud la misura minima presa in considerazione è quella di un litro a cranio, come del resto alla mai abbastanza lodata Hofbräuhaus di Monaco di Baviera, profondo Sud anch’essa, della Germania), servito in bidoncini di plastica che si possono anche asportare: spesso negozi con una sola luce e qualche tavolino o sedia all'esterno, tipicamente rossa o blu, rigorosamente di plastica e prelevata da qualche fornitura per scuole materne o prime classi delle elementari; altre volte locali più ampi, magari ricavati da magazzini, con sedie più solide e tavoli talvolta in metallo, come in questo caso (foto qui sopra). Qui si fraternizza. Ieri pomeriggio, appena giunto, avevo ritrovato quasi al primo colpo il “Bia Hoi” che frequentavo assiduamente 5 anni fa: in un primo tempo ero rimasto perplesso perché vedevo sui tavoli soltanto birre in bottiglia. Al secondo passaggio ho notato la spina, il “baslotto” col ghiaccio, i bidoncini di plastica: ne ho chiesto uno (14.000 Dong, 45 centesimi di €) e mi sono sentito nuovamente a casa. Tutto come allora: la “vecia” che somministra birra con molta signorilità e tiene i conti con precisione teutonica, però gentilmente; la figlia sui 40, belloccia e vestita in maniera vistosa, seduta a uno dei tavolini a fare da attrazione e da contorno, sostanzialmente da PR, la clientela più variegata che si possa immaginare. Dopo questo aperitivo, stuzzicato con un paio di granchi sgranocchiati al volo, mi sono sentito definitivamente “tornato a Saigon” al tavolo di uno dei ristoranti di strada che spuntano la sera attorno al mercato di Ben Thanh, quello più grande e centrale della città. Anche questi sono diminuiti nel frattempo, ma offrono pur sempre la migliore cucina che si possa trovare in tutto il Vietnam, un vero sunto delle specialità di tutto il Paese, con materia prima di freschezza assoluta, quando non viva.Per completare il come back mancava soltanto una cosa e mi ci sarei dedicato stamattina: perché a Dong Khoi ci ero andato non tanto per visitare i mercati e meno ancora per vedere i posti alla moda, quanto nella segreta speranza di ritrovare un “Bia Hoi” che avevo intercettato per puro caso, cinque anni fa, in un pomeriggio domenicale particolarmente afoso, dopo un pranzo allucinante di una quindicina di portate (per quanto minuscole, tante), in un ristorante coreano non lontano dal fiume. Mi era rimasta impressa come l’esperienza più tipicamente vietnamita di tutto quel viaggio. Non ne avevo l’indirizzo né altro indizio che questi frammenti di memoria, ma incredibilmente i sensi, opportunamente stimolati e acuiti proprio dalla “nostalgia preventiva” che avevo innescato già dal mio arrivo in città, hanno portato i miei passi prima sul “City of Seul”, che stentavo a riconoscere, e poi, letteralmente guidato da un sesto senso o da una memoria inconscia, l’ho ritrovato, il “Bia Hoi” dei miei ricordi. Lo stesso ambiente, la stessa gente e soprattutto lo stesso tipo di atmosfera che avevo conservato nel ricordo in questi anni. Accade questo, quando c’è il “cuore”, perché la “nostalgia preventiva” opera proprio così, riportandoti inevitabilmente nei posti dove sei stato bene, con te stesso come con gli altri, che alla fine risultano solo apparentemente degli sconosciuti. A parte una coppia di scozzesi, ero l’unico occidentale, per di più spaiato, in mezzo a un centinaio di indigeni, uomini e donne, a un diverso stadio di allegria ma tutti educatamente socievoli, in questo vasto locale d’altri tempi, di cui alcuni particolari accendevano ancora di più riminiscenze quasi infantili. Come la signora che con un rampone afferra e poi con una specie di coltellaccio seghettato riduce a frantumi il ghiaccio: perché per fare un “chopp”, che non è un ‘invenzione brasiliana, come credono i carioca, per servire la birra alla spina, occorrono dei blocchi di ghiaccio vero e degni di questo nome, non dei cubetti perfettini sparacchiati da un frigorifero all’americana da 3000 €: cazzate. Per ottenerli e poterli scolpire, occorrono delle vere e proprie fabbriche di ghiaccio, le ultime delle quali che facessero forniture le avevo viste un anno fa a Buenos Aires e in Uruguay: ancora una volta un tuffo nei ricordi d’infanzia, come quelli che risalgono alla metà degli anni Sessanta quando giravano ancora per Milano camion carichi di blocchi di ghiaccio coperti di sacchi di juta per rifornire i frigidaire delle latterie e trattorie di quartiere. Così come c’erano i carbonai.Saigon per me è questa, ed è questa città che ho ritrovato. Saigon, sempre al centro degli avvenimenti cruciali per il Paese negli ultimi cento anni, non ha né la storia né i monumenti, né il fascino e il tocco di classe indiscutibile di Hanoi, ma è una città vera, spregiudicata, forse puttana, ma viva, pulsante, generosa, autentica. Spregevole e corrotta, come la definiscono, ma guarda caso sempre oggetto delle attenzioni dei poteri che vi si sono succeduti, è una città che sopravvive a tutto, e tutto digerisce: anche i comunisti venuti dal Nord. Sicuramente li ha “corrotti”, come se fosse un problema con gente che come unica dimensione ha quella del potere: col risultato che oggi Saigon prende il capitalismo molto meno sul serio che la sua “rivale” Hanoi; risulta infinitamente e più autenticamente popolare della capitale, che sembra preda della buzzurraggine tipica dei parvenu. La gente è più amichevole, sorridente, meno fissata col denaro, soprattutto ironica e autoironica: non si prende troppo sul serio, indizio di saggezza. Non è raro, come occidentali, vedersi strizzare l’occhio o un segno d’intesa, quasi a dire: ce l’abbiamo fatta, nonostante tutto. Non c’è da stupirsi. Chi mi segue sa che preferisco mille volte le contraddizioni (sempre che sappiano di realtà), o se vogliamo la “dialettica in atto” al suo supposto superamento e reductio ad unum, a quella Verità Assoulta ammantata di ideologia che per me significa imbalsamazione. Insomma la vita a un suo simulacro. In definitiva, anche se non mi rimangio una delle parole scritte su Hanoi, le preferisco Saigon, perché qui sta il mio cuore.
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