domenica 5 dicembre 2010

L'anima di Hong Kong


Tempio buddhistaHONG KONG - Accennavo nel post di tre giorni fa all’anima di Hong Kong. Giovedì sera, davanti a un piatto  di gamberi piccanti e a una bottiglia di birra Tsingtao, fraternizzavo con un uomo sui 45 anni, un cinese – così si è presentato sottolineandolo orgogliosamente – nato a Hong Kong. Ha un figlio che studia a Londra e, forse influenzati da questa aura british, si è attaccato il discorso parlando del tempo. Mi confermava – me ne ero già al corrente da precedenti viaggi nel Sud Est Asiatico – che è questa, da ottobre a dicembre, la stagione migliore per venire a Hong Kong, quando si abbassano sia le temperature sia il tasso di umidità, piove poco, spira una gradevole brezza che ripulisce l’aria e rende terso il cielo, cosa che in città capita abbastanza di rado. Esaurito l’argomento meteorologico, trattandosi di un cinese e non di un inglese, si è passato subito a parlare di cibo, e dei posti migliori: dove si mangia meglio spendendo meno, preferibilmente gli “stalls” di strada prossimi ai mercati. Era insieme alla sua attuale compagna, una “baba-nonya”, o “peranakan” una cinese di Malesia con sangue misto, di Penang. Che quando ho chiamato la sua città Georgetown si è aperta in un sorriso a 32 denti e profusa in apprezzamenti entusiasti: a riprova che i cinesi della “diaspora” conservano generalmente in buon ricordo dell’amministrazione britannica, che li accolse a braccia aperte incoraggiandone l’immigrazione e le attività e concedendo loro opportunità che venivano negate dalla madrepatria. All’usuale domanda del mio interlocutore se mi piacesse Hong Kong, ho risposto che mi sentivo a mio agio e che ne apprezzavo il carattere cinese e internazionale insieme. “Eccone un esempio – mi ha detto facendo cenno ai tavoli attorno al nostro, disposti per strada nella zona del mercato di Temple Street -: qui c’è il mondo. Ma anche troppi cinesi di quelli di là”, indicando il Nord, alle sue spalle.Cena in strada in Temple StreetAlla mia domanda se li temesse e cosa pensasse della situazione di Hong Kong dopo ilhandover del 1997, mi ha risposto obliquamente, partendo da due premesse. La prima, la crisi finanziaria che travolse le cosiddette “Tigri Asiatiche” in coincidenza con la fine dell’amministrazione britannica e il passaggio alla Repubblica Popolare, pur rimanendone per altri 50 anni una SAR, regione ad amministrazione speciale; la seconda che la Cina sarà, volenti o nolenti, il Paese più sviluppato e finanziariamente potente  del mondo già nel medio periodo, oltre che ad essere il più popolato da un pezzo e con questo occorre fare i conti, Hong Kong ma anche gli altri Paesi, a cominciare dagli USA (che sono tenuti “per le palle” dalla Cina, che ne ha in mano i titoli del suo debito pubblico), i quali in Asia, così come in Africa, contano sempre meno e sono in evidente declino. Ora i cinesi della Repubblica Popolare si presentano a Hong Kong come dei parvenu, degli zotici pieni di soldi ma senza un minimo di cultura e educazione. Quelli che sono emersi sono dei buzzurri, ed era inevitabile con un sistema politico-sociale come il loro. Esattamente come i russi danarosi, tutti più o meno ammanicati col sistema paramafioso messo in piedi da Putin, il sodale del Banana –ho osservato – che si presentano in Italia e in Europa a fare shopping, dagli alberghi alle società calcistiche e perfino ai giornali, come in Inghilterra (vedi Independent). Risultato di un sistema immondo, una feccia che ha pochi precedenti, e col danaro che gli esce dalle orecchie. Ma cambierà tutto nel giro di una sola generazione, ha replicato il mio interlocutore. Quando torneranno in patria i figli di costoro, che stanno studiando all’estero, nelle migliori università del mondo (era evidente l’orgoglio paterno e implicito il riferimento all’esperienza londinese del figlio) anche il sistema della Repubblica Popolare diventerà tutta un’altra cosa rispetto a ora, che al momento non riusciamo a immaginarci ma il processo sarà inevitabile. Mi è tornato alla mente quanto osservato sulle caratteristiche della “diaspora cinese” durante un viaggio di due anni orsono: quello che rende differente i figli di quello che fu il Celeste Impero, prima ancora delle leggendarie intraprendenza e laboriosità, è la cultura. Un valore di per sé, sempre ricercato. La prima cosa che un cinese fa, una volta che ha raggiunto una ragionevole stabilità economica, è investire sui figli, dando loro la migliore istruzione possibile. Lo fanno tutti, sia quelli che hanno fatto fortuna lontano dalla madrepatria, rendendosi presto indispensabili per far funzionare i Paesi in cui si trovano a vivere, sia quelli che stanno arricchendo ora nelle Zone ad Economia Speciale (SEZ) della Repubblica Popolare: i primi perché hanno memoria storica della miseria da cui sono venuti; i secondi perché conservano comunque un sottofondo culturale ultramillenario che 60 anni di intorpidimento sotto il  regime comunista, che pretendeva di cancellare la storia e annichilire l’individuo, non sono riusciti a cancellare e che è pronto a riemergere alla prima occasione propizia: in questo Hong Kong, sfuggita alle campagne maoiste indirizzate a forgiare “il nuovo uomo  cinese”, culminate nella Rivoluzione Culturale, è rimasta probabilmente la città più cinese di tutte: sempre ha investito nella cultura dei suoi figli. Questo vuol dire guardare al futuro: investendo nei giovani ma ricordandosi del proprio passato, e qualsiasi paragone con la situazione italiota è superfluo. Seguendo da lontano la ribellione degli studenti contro la riforma universitaria  promossa da un’idiota senza arte né parte, già mediocre studentessa e avvocato con abilitazione compiacente, e auspicando una generale ribellione dei giovani, a cominciare dai lavoratori precari, non rimane che dire “Forza ragazzi: fate senza di noi. E nonostante noi”.Facciata

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