MACAO - La prima impressione sbarcando a Macao è che sia infinitamente più portoghese di quanto Hong Kong sia inglese: è indubbio che i lusitani lascino nei luoghi entrati in loro possesso una maggiore traccia, almeno in termini architettonici: l’esempio di Salvador in Brasile è il più evidente, e lo stesso vale per Goa, in India. Immaginarsi a Macao, che è la più antica enclave europea in Estremo Oriente, dal 1557. Senza dimenticare che fino alla loro espulsione nel 1762 furono attivi nella loro sfrenata attività di conversione e indottrinamento i gesuiti: a loro si deve il monumento simbolo della città, ossia le rovine di San Paolo, o meglio la facciata in pietra che ne rimane dopo l’incendio che distrusse gli alloggiamenti militari che vi si era insediati (foto in alto). Pietra su cui sono incisi episodi della vita dei santi: una specie di bibbia dei poveri a uso degli illetterati. E’ dal 2005 che l’UNESCO ha dichiarato il centro storico, con una trentina di edifici e piazze, Patrimonio dell’umanità. Tra essi, il Palazzo del Leal Senado (rimasto fedele al Portogallo durante il dominio spagnolo tra il 1580 e il 1668), il Largo omonimo, La Fortaleza do Monte, la biblioteca di Sir Robert Ho Tung, il Largo do lilao, la Casa del Mandarino, il tempio di A-Ma, Il teatro Dom Pedro V (ultima foto in basso), la Cattedrale della Sé e le chiese di San Laurenço, Santo Domingo, Santo Agostinho, Santo Antonio, San José col relativo seminario. In parecchi angoli della città si ha l’impressione di trovarsi alla Baixa o a Graça a Lisbona, oppure a Porto: lo dicono le facciate delle case, talvolta gli azulejos, le scritte bilingui - che aiutano non poco - la pavimentazione spesso piastrellata (viene in mente quella di Avenida Atlantica, a Rio), l’abbondanza di piazze e slarghi. Macao per i portoghesi era un insediamento strategicamente perfetto: una stretta penisola con due porti naturali, uno che fronteggia la costa continentale e uno sul Fiume delle Perle, a Sud della quale si trovano due isole, Taipa e Coloane, ora collegate con due punti modernissimi e arditi, che fino a pochi decenni fa costituivano il retroterra agricolo della colonia. L’importanza commerciale di Macao aveva cominciato a declinare già alla metà dell’Ottocento, con l’avvento delle navi a vapore che hanno favorito i traffici col continente attraverso l’isola di Hong Kong: da allora un ruolo importantissimo l’ha avuto il gioco d’azzardo, grazie a una legislazione favorevole, che ha assunto un ruolo cruciale nella sua economia, tuttora in piena espansione così come il turismo: a 75’ di traghetto è sempre stata la prima “via di fuga” da Hong Kong e ora è meta di un turismo non certo d’élite dalla Repubblica Popolare.Mentre però a Hong Kong i cinesi “continentali” si disperdono e vagano come intimoriti, soverchiati dal ritmo frenetico della città (e dalla sua “anima”, come notavo nel post precedente) qui impazzano e non si può fare a meno di notarli: si muovono a frotte(vedi foto qui sopra) spintonando e urlando come forsennati, mangiano, bevono e ruttano anche camminando, scaracchiano in continuazione per terra, fotografano qualsiasi cosa, indossano vestiti da supermercato sovietico e giubbotti e scarpe di plastica, possibilmente bianche. Soprattutto ti camminano addosso come se fossi trasparente e sbucano e ti si piazzano davanti ogniqualvolta stai per fotografare qualcosa che ti interessa: sono già preoccupato per cosa mi aspetta a Guangzhou fra due giorni, quando ne avrò intorno una dozzina di milioni. Macao è sempre stata un rifugio per i cinesi che fuggivano dalla fame e dall’oppressione politica, anche durante il Novecento, e l’ultima ondata consistente, che ha quasi raddoppiato gli abitanti della città (portando all’urbanizzazione di Taipa e Coloane realizzata con inquietanti palazzoni di trenta e più piani) risale al 1966/67, all’epoca della Rivoluzione Culturale, a riprova di quanto sia piacevole vivere sotto un regime comunista. Ora Macao conta circa seicentomila abitanti, e l’atmosfera è ovviamente molto più rilassata rispetto a Hong Kong: si potrebbe dire che vi si respira un’aria mediterranea. Edifici a parte, lo si nota anche nel cibo: numerosi sono i ristoranti portoghesi, gestiti da lusitani (ce ne sono più di diecimila) e “macanesi”, i meticci che tuttora parlano “patua”, circa ventimila, e la cui cucina è un curioso e saporito miscuglio che ha ascendenti nella madrepatria come in tutti i possedimenti portoghesi attorno al mondo, compresi Angola, Mozambico e Timor. Nonostante quest’aura europea, nel suo carattere Macao è però molto più cinese e provinciale di Hong Kong, non avendone l’apertura internazionale, e la presenza lusitana si rivela pura scenografia. Ne ho avuto conferma parlando con un portoghese che sta facendo un viaggio attraverso il passato coloniale del suo Paese, e proveniente da Goa, il quale usava il termine fantasma: quello che aleggia, perfino nelle scritte e nelle pietanze, ma sono pochissimi che parlano o solo intendano il portoghese, mentre in qualsiasi altra ex colonia è la lingua ufficiale o compresa da tutti, a cominciare dai 200 milioni di brasiliani.
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