MANDALAY – Mandalay, pronunciata, all’inglese, “Mandalee”, è la seconda città del Myanmar e capitale della “Division”, o regione, che ne è il cuore. Città fondata
solo nel 1857 da Mindon Min, penultimo sovrano del regno birmano, ne fu la
capitale fino alla definitiva conquista da parte degli inglesi nel 1885, dopo
essere stata trasferita qui da Amapura nel 1861. Abitudine, quella di spostare
la capitale da un posto all’altro di quest’area attraversata dall’imponente e
placido Irrawaddy, l’arteria pulsante del Paese, a maggior gloria al sovrano di
turno: Amapura, Inwa, Sagaing, Shwebo ne sono degli esempi. Un milione di
abitanti, moderna, vibante, l’influenza cinese si coglie a prima vista, e le
differenze con Yangon saltano all’occhio: maggiore ricchezza, che si nota
immediatamente dal parco macchine più aggiornato, dai negozi e magazzini e
dalla quasi inesistente attività commerciale da strada; marciapiedi e manto stradale
in condizioni più che accettabili; l’invasione di motorini e conducenti che non rispettano mai le
strisce pedonali e suonano sempre il clacson (ma mai ossessivamente come in India); orrida
architettura sino-comunista, di cui risparmio la documentazione fotografica a
chi legge, che vede le sue vette nella faraonica e pletorica stazione
ferroviaria e nello zeygo, i due
palazzoni che ospitano il mercato centrale che è stato trasferito qui dopo che
nel 1990 fu smantellato, con grande sconcerto della popolazione, quello
“storico”, progettato dall’italiano Calvari (che fu anche primo segretario del
Comune di Mandalay): la pianta ortogonale e gli ampi viali, che ricordano da
vicino le città argentine; l'esistenza di targhette sulle vie e di indicazioni stradali decifrabili; la minore presenza sia di “beer stations”, sia di
cani e di gatti (che vengano requisiti, soprattutto i primi, a scopo gastronomico, secondo i gusti alimentari cinesi?). Il boom economico si è verificato con la
riapertura della Burma Road che via Lashio, capitale dello Stato Shan, porta in
Cina, negli anni Novanta, alimentato dai proventi dei lucrosi traffici di pietre preziose ed eroina,
e ha “messo il turbo” con la progressiva liberalizzazione del commercio col
potente vicino, ottimo cliente tra l’altro per il petrolio e il gas birmano, e
che si presenta qui con progetti chiavi in mano per la costruzione di
infrastrutture: lo si nota dalla quantità di alberghi cinesi in città ma anche
dal recente completamento a tambur battente dell’autostrada tra Yangon e Mandalay (messa in
cantiere forse perché passa dalla nuova capitale Nay Pyi Taw, anch’essa
edificata dai cinesi) che consente il dimezzamento di tempi di percorrenza (il
bus, partito alle 8 di sabato sera da Yangon, è giunto a Mandalay alle 4 del
mattino di ieri, con quattro ore di anticipo su ciò che riportavano le edizioni
più aggiornate delle guide). Dell’”invasione cinese” e dei timori che suscita,
ho parlato con più di una persona, tra cui Soso, il mototaxista che è già
diventato la mia guida sipirituale di Mandalay, che ho conosciuto in una “tea
house” all’aperto davanti a una scodella di mohinga, la deliziosa zuppa di
pesce e noodles che può considerarsi il piatto nazionale. Uno degli aspetti più
belli di questo Paese è la facilità con cui si entra in contatto con la gente
del posto, che nella maggior parte possiede una sufficiente infarinatura della
lingua inglese (uno dei rari lasciti positivi del colonialismo britannico), e che per natura ama chiacchierare, in particolar modo
scambiare idee e impressioni con chi viene da lontano, curiosa com’è di sapere
come vanno le cose dalle altre parti. Aspetto che viene confermato dalla fame
di notizie: con una buona istruzione di base garantita per tutti (che si ferma però al
primo livello, verso i 12 anni: poi diviene privata e più costosa),
l’analfabetismo è pressoché debellato da tempo, e appena possibile tutti si
gettano su giornali, riviste, manuali e libri (che spesso consistono soltanto
in fotocopie): l’editoria da queste parti è sicuramente un settore promettente
in vista di una prossima possibile apertura in senso democratico. Il primo
approccio con la città si è concluso con la salita alla Mandalay Hill, altura
di 230 metri da cui si gode di una vista spettacolosa al tramonto, propiziata da
una giornata tersissima, sulla città,
con al centro il Mandalay Palace un’area quadrata circondata da due chilometri
di mura e da un fossato ricostruita negli anni Novanta, le colline dello Shan e il corso
dell’Irrawaddy, lungo una scalinata che passa da uno stupa, o zedi (che
contiene generalmente una reliquia) a un pahto (più propriamente un santuario:
i termini si confondono) fino a un Buddha eretto quasi sulla sommità. Ai
prossimi giorni la perlustrazione dei dintorni.
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