venerdì 20 gennaio 2012

Roberto Baggio e il linguaggio universale del pallone

MANDALAY - Dotato dalla natura della scienza infusa del calcio, Roberto Baggio, classe 1967, è stato sui campi di gioco un “illuminato”. Giocatore che aveva col pallone un rapporto di dialettica hegeliana accompagnata  a una fantasia picassiana e a un senso geometrico pitagorico, è stato il calciatore buddhista più famoso al mondo, uno dei più amati in assoluto. Perfino in Italia, patria dei mille campanili, con qualsiasi maglia giocasse: dopo quella biancorossa dei “lanieri” della natìa Vicenza, quella che gli stava meglio, anche esteticamente, era quella viola della Fiorentina; poi quella azzurra della nazionale, che condusse praticamente da solo alla soglia della vittoria del Mondiale di USA 1994, che le fu negata, vedi gli scherzi del destino, proprio per un calcio di rigore decisivo sbagliato in maniera incredibile proprio da lui, il “Divin Codino”. Mi piace però ricordare che il suo cuore è sempre stato nerazzurro. A lui si attagliava alla perfezione dal definizione di uno capace di “pensare con i piedi”, oltre che con la testa (cosa non scontata, questa, perché bisogna averci un cervello dentro e farlo funzionare) e può sembrare un paradosso che la sua fama sia dovuta a ciò che sapeva inventare con la parte meno nobile del corpo umano, nella visione buddhista. Qui in Birmania, Paese che buddhista lo è profondamente, è ancora oggi nella memoria di tutti, a quasi otto anni dal suo ritiro, una via di mezzo tra un “nat” (spirito) e un guru e la sua fama oscura perfino quella di Maradona. E i birmani di pallone se ne intendono: seguono quello internazionale con passione, sono informatissimi su tutti i tornei nazionali e le competizioni di coppa europei, ne vedono in diretta le partite più importanti delle “beer station” e nelle “tea house” coi televisori sintonizzati sui canali satellitari sportivi; entra in tutti i discorsi con gli stranieri (di sesso maschile e non USA), un ottimo veicolo di comunicazione, un minimo comun denominatore utile a farci rendere conto di quanto simili, nelle nostre pulsioni primarie, a tutte le latitudini, e sempre capaci di tornare bambini quando c’è da correre dietro a una palla da prendere a pedate. E non è un caso che gli statunitensi, salvo rare eccezioni, questo linguaggio non lo sappiano parlare e non lo capiscano: infatti faticano a comprendere ciò che è fuori dai loro confini, che sono in realtà molto limitati. Che il calcio sia un linguaggio universale lo sanno anche i giovani monaci che due giorni fa in un monastero ai piedi della Sagaing Hill, a una ventina di chilometri da Mandalay, sull’altra sponda dell’Ayeyarwady, ho visto togliersi le tonache, appenderle a un cancello, agghindarsi con ciò che rimaneva arrivare a condividere lo stesso paio di scarpe, quella destra a uno e quella sinistra all’altro, e darci dentro con un entusiasmo incontenibile: ho fatto in tempo a salire in cima alla collina, visitare tutte le pagode sul percorso, ammirare lo splendido panorama delle migliaia di stupa disseminati sulle colline circostanti e, sullo sfondo, il corso maestoso e placido dell’Ayeyarwady, imponente anche in questo periodo di “secca”.  Grazie Robi, dunque, per aver insegnato calcio su tutti i campi del mondo: scene come queste sono il migliore omaggio alle magie che hai saputo regalarci.

1 commento:

  1. Che bello, chissà se Roberto Baggio ti legge. Immagino che potrebbe fargli piacere, anche se la sua perfetta buddhità certo non cederebbe mai alla vanità.
    Però, il condividere senza inutili autocompiacimenti i doni di cui madre natura ci ha dotato, non è forse il primo passo verso una Pace Illuminata per tutti?
    Il calcio, può essere il "mezzo"?
    Forse sì...
    Uno dei più diffusi e, come scrivi, uno dei più contagiosi.
    Che sia per via della rotondità della palla?

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