MANDALAY - Non si viene a Mandalay per la città in sé ma per i suoi dintorni, per raggiungere i quali è la base di partenza obbligata. Viaggiando da solo il mototaxi è la soluzione ideale, e Soso il mio chaperon: l’ho conosciuto in una tea house il pomeriggio di domenica, giorno del mio arrivo, e lo spunto era stata una chiacchierata sulla “cinesizzazione” della città di cui parlavo nel post precedente. Non si è proposto lui: sono stato io a chiedergli se sarebbe stato disposto a fare servizio anche fuori città. Questo per spiegare quanto la gente di qua sia solitamente poco invadente e pressante. Affare fatto, e da allora è la mia guida di fiducia. Molto valide e informata. Ha subito capito le mie preferenze, e mi propone sempre delle alternative ai luoghi frequentati dai turisti intruppati nei viaggi di gruppo (quelli che per pigrizia mentale non si fanno problemi a riempire le tasche di chi governa questo Paese da qualcosa come 50 anni) e anche per le visite “obbligate” trova il modo di non farmi pagare l’assurdo biglietto cumulativo per i “Siti archeologici dell’area Mandalay”, dieci dollari in valuta che vanno a rimpinguare le casse governative e di cui non un solo cent si tramuta in finanziamenti per restauri conservativi e attività di scavo; non ci pagano neanche il personale, che infatti di regola non chiede il biglietto all’interno delle pagode: il trucco sta nel fatto di passare dalle entrate secondarie, e Soso sa alla perfezione quali sono. Altro esempio: esistono in città due monasteri di legno, della stessa epoca (150 anni fa) e pressoché identici. I turisti vengono convogliati in quello che rientra nel circuito dei “Siti archeologici governativi”, mentre i clienti di Soso e della maggior parte dei suoi colleghi vengono portati in quell’altro, dove ieri, in perfetta solitudine e in un’atmosfera idilliaca, ho assistito alle attività mattutine dei monaci, oggi alloggiati in bungalow attorno a quel prodigio di intarsi in tek dei loro predecessori che è stato abbandonato per prudenza, ma che viene accuratamente accudito con oli impregnati che ribollono in calderoni, tinteggiature costanti e attenzioni di ogni genere. Per conto mio, invece, ho deciso di andare a vedere la “Snake Pagoda” a Paleik, dove alle 11 vengono lavati e nutriti i pitoni da cui deriva il nome, piuttosto che il monastero di Aramapura dove folle (relative) di turisti maleducati vanno a sbattere in faccia ai monaci foto e videocamere mentre fanno la fila per ricevere il loro cibo quotidiano e le regalie (spazzolini da denti, paste dentifricie, saponi) prima di entrare in refettorio (ai donatori è concesso il "privilegio" di porgerli ai monaci di persona, per cui parenti e amici si improvvisano distributori di vivande e di “beni di conforto”). Narra la leggenda che un uomo sognò che tre serpenti si fossero accoccolati attorno alla statua del Buddha e che lì sarebbe dovuta sorgere una pagoda: al risveglio davvero tre pitoni erano lì a tenere placidamente compagnia all’Illuminato, e la “paya” venne effettivamente costruita, ed è una delle più vecchie dell’area, oltre che popolari tra la gente del luogo: di stranieri oltre a me c’era solo una coppia di tedeschi. Peccato che quest’anno (e da alcuni anni) in questo periodo la temperatura sia un po’ più fresca del solito, circostanza che rallenta il metabolismo dei rettili, animali a sangue freddo, in più sono in fase di muta, per cui niente bagnetto nella vasca appositamente agghindata con erbe profumate; infine, uno dei tre pitoni è ammalato, però lo spettacolo si è tenuto stato lo stesso. Alle 11 precise, accompagnate dal suono del gong, i due pitoni, alquanto intorpiditi, arrotolati uno a destra e l’altro alla sinistra della statua del Buddha, vengono presi in consegna da due anziani addetti che li trattano come dei nipotini (sono dei rispettabili bestioni di quattro metri di lunghezza) che, aiutati da alcuni volontari (tra cui io, che ho una predilezione per i pitoni), li “srotolano” per portarli all’esterno attorno a una strana torre dell’orologio in stile inglese, in pieno sole. Lì i due serpenti, alla maniera delle batterie solari, prendono energia e vita, cominciano a muoversi, vengono accarezzati dagli astanti, presi in braccio, si scattano foto per immortalare i coraggiosi, spesso bambini, che sono quelli che ne hanno meno paura (il pitone ha una forza formidabile ma non è aggressivo). Li si lascia “ricaricare” per un po’ e alla fine, senza pranzo (rinviato alla sera: un pastone a base di uova e latte, alimenti per cui qualsiasi serpente va pazzo), li si ritrasporta all’interno e, lasciati alla base della statua del Buddha (in candido marmo levigato, mi pare), vanno a ritrovare la loro postazione preferita. Appena fuori della pagoda c’è una serie di “tea house”, ossia una serie di baracchini di bambù dove un iniziale tè (con latte, dolce, delizioso, tipo quello indiano) è diventato un pasto a base di “mounti” (ogni riferimento all’attuale premier per caso è, per l’appunto, casuale), tagliolini di riso freddi con verdure e anacardi, seguito da una insalata locale: foglie di diverse piante, tra cui tè, pressate e condite con olio e altri ingredienti croccanti, che fanno pensare a dei piccoli crostini, questa omaggio della cuoca lusingata dalla velocità e accuratezza con cui ho ripulito il piatto precedente; come dessert un frutto chiamato “squat apple”, mai visto prima, una piccola mela rugosa fatta a scaglie, con un interno cremoso e dolcissimo, anche se pieno di semi. Sono stati i proprietari della “tea house” a propiziare l’incontro che avrebbe coronato la giornata ma che mi farà rimanere comunque impresso questo viaggio: visto che con Soso stavamo andando alla ricerca di siti abbandonati e in taluni casi diroccati, ci hanno segnalato una pagoda che non si trovava esattamente nelle vicinanze e che nemmeno il mio conducente conosceva: la Mat Kayar. E siamo partiti alla ricerca. A oltre un’ora da Mandalay, per strade sterrate, passando per villaggi rurali, chiedendo informazioni a ogni incrocio, ci siamo arrivati. Un monastero semplice, rurale: qualche bungalow, una costruzione più grande, con un paio di tavoli all’esterno, poteva sembrare un’osteria di paese, a uno dei quali sedevano due monaci, uno più anziano e quasi imponente, l’altro più giovane, ma almeno sulla trentina. Ci si fa accomodare, immediatamente ci viene servito del tè, e senza alcuna richiesta dell’anguria tagliata a pezzettini, poi un’altra porzione, delle arachidi, di nuovo dell’insalata ma di sole foglie di tè, giusto per piluccare e chiacchierare. Sono affascinato dall’uomo che ho davanti, dal suo sorriso sincero, forte; dal suo sguardo forte e dolce al contempo, dal portamento, dai lineamenti nobili, dalla risata aperta, dalla voce profonda. Quest’uomo emana carisma, non un’aura di santità: di umanità. Percepisco che è un capo. Lui probabilmente, per un qualche motivo, prova una simpatia immediata per me: si comunica attraverso Soso, che gli dice che vengo dall’Italia. Si accenna a Roberto Baggio, buddhista dichiarato, amato da queste parti tranne che dal governo, ma lo capisco anche senza interprete, e lui capisce me, dal tono di voce e dallo scambio di sguardi, dall’unisono delle risate, dalla mimica. Alla nostra età, mi fa capire a gesti, i capelli diventano bianchi e cadono, i denti si guastano, gli occhi smettono di vedere però la mente è lucida. Mi chiede quanti anni ho: 57 a maggio, gli dico. 62, mi fa lui. Eravamo tre fratelli, il più giovane ha la tua età. E allora tu sei il mio “Big Brother”, gli rispondo. E voglio una foto con te. Concessa, sempre che io ne faccia una con lui dopo aver visitato il sito (per quello eravamo venuti) di pagode fatiscenti, rinvenute sotto terra e arbusto come all’Angkor Wat in Cambogia, e ora riparate soltanto attraverso le donazioni di privati, nessun contributo pubblico, in più il bonzo è responsabile del piccolo monastero locale (oltre a insegnare in quello più grande, ad Aramapura), per ora solo sette monaci, ma si farà. Tra una foto e l’altra, una visita del sito, con una trentina di stupa di diversa epoche, immersi in un panorama meraviglioso, le colline del vicino Shan sullo sfondo, nel mezzo di una campagna fertile e coltivata fino all’ultimo ettaro, in uno spazio curato, pieno di fiori, perfino con una sorta di tunnel in mezzo a delle bougainvillee rosa e rosso sangue. E un’emozione profonda, ma serena, me l’ha data il girovagare nell’area attorno al monastero, un villaggio rurale dove fervevano le attività quotidiane; semplici case di bambù, qualche volta rinforzate da elementi in legno o muratura; aie piene di animali e con la gente dedita ad attività, e con strumenti, che da noi vengono nel migliore dei casi ricordate nei musei dedicati alla civiltà contadina. Povertà: può chiamarsi tale? Comunque non indigenza. In campagna si sopravvive. Ma nelle vicinanze di luoghi dove sono presenti monaci come Big Brother si percepisce un’aura diversa. Qui c’è un’autorità, che parla alla gente perché vive tra la gente e ha gli strumenti per farsene interprete. E’ quest’autorità morale che può parlare a nome di tutti.
La parte sui pitoni l'ho letta a volo e cercando di non capire. Ma dove l'hai sentita che i pitoni piacciono a tutti? A me no, uffa! Però, questo tuo villaggio, questo Big Brother, i panorami che descrivi (e nonostante la descrizione dei terrorizzanti pitoni), mi hanno incantata.
RispondiEliminaMa dove l'ho scritto che i pitoni piacciono a tutti? Purtroppo non è così, adorabili bestiole ingiustamente vituperate. Ai bambini che erano lì però piacevano molto!
RispondiEliminaSorry, forse non l'hai detto.
EliminaDev'essere stato il mio leggere veloce cercando di non saperne niente di pitoni, ad avermi portata all'errore.
Ma,"adorabili bestiole"?
Sì.
Se se ne restano lì dove sono amate e non me le trovo davanti.
Perché, a qual punto, non sento ragioni: urlo di terrore puro...
... è un calarsi in una realtà affascinante e magica.
RispondiEliminaGrazie!!!
p.s: Forse per un retaggio atavico la maggior parte degli occidentali non ama i rettili (herpetofobia), e le donne più degli uomini. Per un vero rispetto che nutro per tutti gli animali, li amo liberi e nel loro habitat naturale.
Ancora grazie per i tuoi "regali".