BANDUNG –
Nota un tempo come ”la Parigi di Giava”, la capitale di Giava Ovest,
quarta città dell'Indonesia coi suoi oltre due milioni di abitanti,
circondata da vulcani e posta essa stessa sul declivio di una collina, a
un'altezza media di 750 metri, Bandung è il cuore della cultura
sundanese. Fondata solo alla fine dell'Ottocento come gaurnigione
coloniale dagli olandesi, acquistò importanza in brevissimo tempo come
città industriale e di commerci oltre che polo universitario di primario
rilievo, ed è anche l'esempio di una tipica città indonesiana di
dimensioni medio-grandi e vale solo per questo una visita, anche se di
fatto non c'è quasi niente di memorabile da vedere, a parte un notevole
Museo Geologico, con una sezione dedicata alla vulcanologia, un'altra
alle ricerche petrolifere, oltre a raccolte di fossili, tra cui la
riproduzione del teschio dell'Uomo di Giava e lo scheletro di un
Thyrannosaurus Rex (con un commosso ricordo del grande, geniale Marc
Bolan da parte dello scrivente; foto più sotto a sinistra),
museo che ha sede nello stesso bell'edificio coloniale in cui aveva sede
il Servizio Geologico Olandese. Per chi come me si interessa di
politica internazionale, d'obbligo una visita al Museo della Conferenza
Asia-Africa, che si tenne qui nel 1955 ed ebbe come protagonisti, tra
gli altri, Sukarno, Zhou En Lai, Ho Chi Minh e Nasser, con tanto di
documenti, foto e reperti d'epoca, e che si trova nel bel palazzo che la
ospitò, costruito per l 'occasione. Rimane la moderna ed enorme moschea
centrale, situata nell'Alun Alun (piazza principale: foto in basso a destra) i cui due minareti ricordano dei fari marittimi o anche delle torri televisive, e da cui i sofferenti latrati del muezzin
si diffondono per tutta la città prima ancora che si intraveda la prima
luce del giorno. Non si può nemmeno dire che Bandung sia orrenda, né
squallida, né particolarmente sporca: la città ha quantomeno una forma,
un senso, una sua dimensione e una identità, al di là di un
traffico demenziale e dell'inesistenza di un qualsivoglia piano
viabilistico, che a mio parere non è mai nemmeno stato vagamente preso
in considerazione. Divisa a metà dalla ferrovia
che collega Jakarta a Surabaya e passa per Yogyakarta, attraversando da
latitudinalmente l'isola, la parte a Sud
della stazione costitusce il centro vero e proprio e raccoglie il
nucleo per così dire storico: qualche palazzo d'epoca coloniale lo si
scorge ancora; la parte a Nord, in cui si trovano i
quartieri residenziali e benestanti, alcuni dei quali chiusi da sbarre e
con tanto di gabbiotti per la sorveglianza all'ingresso, si inerpica
sulla collina di Dago, dalla cui cima si gode un vista panoramica
spettacolate sulla città e sui vulcani che la circondano: il Tanghkuban
Prahu (barca rovesciata) a Nord, il Patuha e il Guntur
a Sud. Città industriale, dicevo, e commerciale: le due zone urbane
sono divise anche per settore merceologico. Nella parte alta domina il
tessile, e la strada principale, Jalan Chiubaduyut, è conosciuta come la
Strada dei jeans, caratterizzata da orribili statue
di gesso, a comiciare da quella di Rambo; in quella bassa, con epicentro
Jalan Chihampelas, è il delirio della scarpa tarocca, (sepatu
il termine indonesiano per calzatura, con una reminiscenza iberica).
Prezzi ridicoli, come del resto la qualità: a parte che per un
occidentale di corporatura appena normale trovare una misura o un numero
adatto è impresa praticamente impossibile. Quello che ci si chiede, è
come e a chi si possa vendere la spaventosa quantità di merce esposta,
ma è evidente che l'offerta segue la domanda, e se le finiture lasciano a
desiderare, è altresì vero che la gente compra e si veste e dunque
evidentemente ha soldi da spendere, se affolla centri commerciali,
negozi e gli onnipresenti Outlet, che spuntano ovunque. Outlet: insegna che unisce la città alta con quella bassa, parola feticcio di Bantung come l'espressione hub a Singapore. Bantung è anche sede dell'Istituto di Tecnologia, fondato nel 1920. Fu la prima università olandese aperta agli indonesiano, e dal 1920 al 1925 vi studiò Sukarno, che fu tra i fondatori della Bandung Study Society,
i cui membri avrebbero dato vita al Partito Nazionalista Indonesiano,
promotore dell'indipendenza del Paese. I suoi studenti hanno sempre
mantenuto viva la tradizione di attivismo politico, dalla pubblicazione
nel 1978 del Libro bianco della lotta studentesca, in
cui si denunciava la corruzione agli alti livelli della pubblica
amministrazione, alle manifestazioni quotidiane di centomila studenti
del 1998, che portarono alle dimissioni di Suharto. Oggi stesso ho
assistito a un corteo di protesta, peraltro civilissimo (non si trattava
di estremisti islamici), contro i bombardamenti israeliani sulla
Striscia di Gaza dei giorni scorsi. Un'ultima notazione: non si capisce
perché anche un Paese prevalentemente islamico festeggi la fine
dell'anno cristiano con tanto fervore. Tra l'altro in questo periodo,
come da noi, ci sono le ferie scolastiche invernali: e nella sostanziale
assenza di stagioni che caratterizza le zone equatoriali non se ne vede
il motivo, se non uno scimmiottamento del tanto criticato (ma invidiato
e
scopiazzato) Occidente. Così l'intero Paese è in movimento, in
particolare sono in fuga dalla città gli abitanti di Jakarta, e ogni
meta va bene compresa Bandung, se non altro perché più fresca della
capitale. Che poi la vacanza consista nello stare chusi in albergo, è un
altro paio di maniche. Sembra di essere in Russia: nessuno in giro,
rari gli escursionisti sui vulcani e senza lavoro
le guide, il turista indigeno-tipo staziona con amici o membri della
famiglia assiso su una sediola in polietilene davanti alla camera
d'albergo, con vista sul patio, porta rigorosamente spalancata su un suk in miniatura in cui è stata trasformata la stanza, televisione accesa su una qualche sit-comedy e thermos
col tè a portata di mano. D'obbligo la tenuta in braghette corte e
maglietta arrotolata sopra l'ombelico per gli uomini e sandali di
plastica variopinta e trasparente del genere muco per le donne. Il
montare dell' attesa della mezzanotte lo si nota, e soprattutto sente,
per il crescente entusiasmo con cui scoppiano mortaretti e si suonano,
col trascorerre dei giorni e in un crescendo rossiniano nelle ultime
ore, le trombette di cartone multicolore in vedita a montagne in tutti
gli angoli delle strade: rimane da scoprire se qui ci sia qualche piatto
tradizionale per l'occasione e con quale liquido si proceda ai brindisi
si rito. Colgo l'occasione per rallegrami per la fine del fottuto bisesto
con gli eventuali lettori e ringraziare in anticipo per la sveglia che
mi sarà senz'altro data domattina alle 6 dai messaggi di auguri che
immancabilmente mi verranno spediti a quell'ora non tenendo conto della
differenza di fuso orario. Ma i fumi dell'alcol fanno di questi scherzi
e io, che sarò incredibilmente sobrio, apprezzerò perché sarà il
momento di rimettersi nuovamente in moto e montare sul treno: prossima
tappa Yogyakarta, la capitale culturale di Giava, dove in quanto a bellezze e cose da vedere si va a colpo sicuro!
mercoledì 31 dicembre 2008
lunedì 29 dicembre 2008
Le piogge e le orchidee di Bogor
BOGOR - Distante appena una cinquantina di chilometri dalla tentacolare Jakarta, la megalopoli in continua espansione di cui di fatto costituisce ormai una specie di sobborgo, Bogor
coi suoi oltre 700 mila abitanti assume nei confronti della capitale il
rango di una cittadina; in compenso, pur essendo situata a soli 300
metri d'altezza, gode di un clima incomparabilmente più salubre e
fresco, e il fatto di detenere il record di precipitazioni annue
sull'isola di Giava (una media di 322 acquazzoni vi si scatenano nel
corso di un anno), un po' come la Pedemontana friulana, nota come Il Pisciatoio,
o Masone, in Italia, non ne diminuiscce la gradevolezza. Saranno
l'abbondanza di acque che l'attraversano, oltre a un fiume vero e
proprio diversi torrenti, e le montagne che si scorgono poco lontane
all'orizzonte, ma sembra di essere a una quota decisamente maggiore. Ho
gradito molto la frescura dopo lo spostamento da Sumatra a Giava di
ieri: il problema non è stata la traversata dello Stretto della Sonda,
da Bakahueni a Merak, due ore di traghetto gradevoli, su una nave
spaziosa e opportunamente ventilata, quanto il trasferimento da Merak a
Bogor. L'idea era quella di evitare come la peste Jakarta e, carta
stradale alla mano, in effetti la via più diretta verso Bogor è
costituita da una statale, così ho cercato, nel caos di un sedicente terminal (uno spiazzo sterrato pieno di buche, pozzanghere e immondizia con ai bordi un mercato scalcinato
in cui non una sola persona spiccica una parola di inglese), un bus
verso questa città e ho beccato quello più scalcagnato preso finora in
Indonesia. Naturalmente sono stato smentito e la tradotta, dopo un'ora
di attesa, ha imbucato puntualmente l'autostrada in direzione di Jakarta
e che, attraversata una buona fetta della città, continua poi fino a
Bogor. Pensavo che nella più ricca e moderna Giava velocità e qualità
degli spostamenti migliorassero rispetto a Sumatra,
ma la media è rimasta sui consueti 35 km/h, e questo perché il
personale di bordo, oltre all'autista un bilgiettaio e un
“procacciatore”, il cui ruolo è stare sul predellino e urlare a
squrciagola per esaltare la qualità del mezzo e invogliare le gente a
servisrene e a stiparlo fino all'inverosimile, pensa bene di utilizzare
ogni uscita, pagare al casello, cercare il terminal locale (che
in genere è un'intera strada della città ai cui margini si affolla una
variegata umanità) e procedere nella pesca del viaggiatore in attesa, e
quindi reimmettersi in autostrada. Così per ben 6 volte nei 90
chilometri scarsi che separano Merak da Jakarta. Ecco spiegata le media
anche su strade più decorose. Sulla qualità meglio sorvolare, salvo lo
spettacolo, a ogni fermata, della corte dei miracoli in transito nel
corridoio della corriera a vendere qualsiasi mercanzia, chitarrosi
stonati e propagandisti politici compresi, oltre a imbonitori che si
piazzano sul bus tra una fermata e l'altra e magnificare le doti di un
attrezzo da cucina, un set da toilette da viaggio o la bontà di
un frutto ignoto di cui il personaggio ha un intero sacco pieno: e
prosegue implacabile, finché non ha venduto quanto si era prefissato.
Con estremo sollievo sono così giunto al terminal di Bogor, un
altro anfratto infernale sotto un cavalcavia, da dove mi sono mosso con
l'unico mezzo che abbia un senso usare in queste circostanze: un
mototaxi, anche grazie al fatto che pur di arraffare un cliente, i
benemeriti guidatori sono disposti a sobbarcrasi il fardello di
qualsiasi bagaglio, oltre al dolce peso del trasportato. Città
affollata, dunque, e discertamente incasinata, con molti abitanti della
capitale in trasferta. Il primo impatto, oltre alla temperatura
perfetta, è stato uno splendido tramonto dalla terrazza di un caffè alla
moda, un vero posto da fighetta e puzzoni, dove mi sono
intrufolato a sbafo senza essere fermato da una schiera di posteggiatori
di SUV (anche qui l'emblema del cretino di successo e degli
spandimerda) e lacché in divisa. Bogor, Buitenzorg in olandese, è però
famosa a livello internazionale per i suoi giardini botanici. Il Kebun Raya
(giardino grande) è il cuore della città, qualcosa come 80 ettari nel
pieno del suo centro, un'oasi di pace percorsa da ruscelli e con
svariati stagni coperti da fiori di loto e laghetti attorno al quale
scorre un traffico incessante. Il parco dell'Istana Bogor, il palazzo
del governatore generale Stamford Raffles (lo stesso che legò il suo
nome a Singapore, cfr foto in alto a sinistra) durante l'interregno inglese, fu trasformato dal professore olandese Reinwardt in orto botanico e inaugurato dai suoi compatrioti nel 1817. Nel comprensorio oltre 15 mila specie di
alberi e piante, più di 400 specie di palme e, solo nelle serre delle
orchidee, 3000 varietà di questo magnifico fiore. Fu in questi giardini
botanici che i ricercatori olandesi svilupparono molte delle
coltivazioni tipiche delle colonie, dal tè, alla cassava, alla cannella,
al tabacco, alla corteccia di china, e a tutt'oggi il Kabun Raya
è uno dei più importanti centri di ricerche botaniche dell'intera
Indonesia. All'interno anche un museo zoologico con una collezione della
fauna di Giava, animali impagliati, farfalle, raccolte di coeotteri e
altri insetti, conchiglie e perfino l'enorme scheletro di una
balenottera azzurra arenatasi sulle coste dell'isola nei primi decenni
del secolo scorso. Nonostante la pioggia, leggera ma incessante, vi ho
trascorso una giornata intera deliziosa, allietata da un pranzo di
prim'ordine in un ristorante curatissimo. Unica pecca, cartacce e
immancabili contenitori e sacchetti di plastica sparsi un po' ovunque
nonostante la adeguata presenza di bidoni e cestini per i rifiuti, a
testimonianza di un rapporto con la natura problematico da parte degli
asiatici in generale e di una sensibilità ambientale piuttosto
peculiare: sembra di essere in Italia.
sabato 27 dicembre 2008
Dalla Trans Sumatran Highway al Krakatoa
KALIANDA -
Trenta ore esatte di bus, da Bukittinggi a Bandarlampung, sullo Stretto
della Sonda, tutto per vedere ciò che rimane di Lui: probabilmente il
vulcano più famoso del mondo, il Krakatoa, Krakatau in idioma
locale, che saltò letteralmente in aria la mattina del 27 agosto del
1883, provocando la più violenta esplosione che si ricordi.
L'autodistruzione del Krakatoa, che risultava inattivo da almeno 200
anni e costituiva nulla più che una specie faro, un punto di riferimento
per la navigazione nello Stretto della Sonda, con tanto di fuochi
d'artificio, comportò una serie di eruzioni di una violenza tale da
lanciare intorno qualcosa come 20 chilometri cubi di lapilli, con un
pennacchio di ceneri che raggiunse gli 80 km di altezza. E che caddero
in abbondanza anche su Singapore, a quasi mille chilometri di distanza, e
oscurarno il cielo sulla Sonda, con un effetto da eclissi totale, per
24 ore. In più, il crollo dei coni del vulcano causò un'onda di tsunami alta
40 metri che si abbattè con effetti catastrofici su Giava e Sumatra,
causando almeno 36 mila vittime. Come in occasione dello tsunami di
esattamente quattro anni fa, l'onda raggiunse perfino Aden dopo 12 ore.
Oggi del Krakatoa rimane un arcipelago di isole, che costituiscono
l'omonimo Parco Nazionale, sparse attorno al suo erede e sostituto, l'Anak Krakatau,
il figlio di Krakatoa. Un figlio dal carattere volubile e,
opportunamente, fumantino che, attivo dal 1928, da allora è in costante
crescita (qui sopra in piena attività, lo scorso anno: in alto a destra, a distanza di sicurezza).
Ho fatto un tentativo di raggiungerlo questa mattina, a bordo di una
tipica imbarcazione locale, una lancia della larghezza massima di 90 cm
dotata di due bilancieri (in pratica, un parallelepipedo di fusti di
bambù fissati sopra lo scafo, con i due più robusti disposti
parallelamente) ma l'alzarsi del vento e l'ingrossarsi a vista d'occhio del mare hanno fatto desistere il capitano e il pilota,
e ci hanno bloccato a meno di dieci miglia dall'area inducendoci a più
miti consigli, ovvero a una visita delle isole disseminate nello
stretto della Sonda. E dopo un'andata tranquilla, il ritorno alla base
di Kalianda, 50 km a Sud di Bandarlampung, è stato non poco movimentato.
Trenta ore di bus, dicevo, ma ne è valsa la pena, a prescindere dall'escursione al vulcano e dal prossimo attraversamento dello Stretto, perché percorrere la “Trans Sumatran Highwway” è stata comunque un'esperienza
senza pari. A dispetto del nome altisonante, l'unica strada che
attraversa Sumatra da Nord a Sud è poco più larga di una mulattiera in
mezzo alla giungla, è in condizioni quantomeno precarie, con la sede
stradale che spesso viene del tutto a mancare, costellata di buche
profonde come crateri, in sintonia con la natura vulcanica
dell'isola; stato che peggiora durante la stagione dei monsoni,
tutt'ora in corso, con improvvise alluvioni, valanghe di fango, ponti
crollati e tuttavia trafficata incessantemente nei due sensi da mezzi di
ogni genere, dai TIR ai bus a lunga percorrenza ai carri trainati dai
buoi (in fianco una situazione tipica: foto di roche4711).
L'intasamento è all'ordine del giorno, gli incidenti spaventosi e la
mortalità, lungo la strada, e livelli di epidemia. Eppure sono contento
di averla percorsa per oltre due terzi, perché i panorami che si godono
sono impagabili, così come lo è osservare la vita di tutti i giorni e
provare a intendersi con i compagni di viaggio sulle scalcagnate
corriere, che quanto a comfort sono simili ai chicken bus, gli
School Bus USA riciclati, diffusi nell'America Centrale. La parte
orientale della provincia di Sumatra Sud, pianeggiante e percorsa da
innumerevoli fiumi, ha in comune con quelle più a Nord di Jambi e Riau,
affacciate anch'esse sullo Stretto di Malacca, antichi trascorsi malesi.
Il suo capoluogo Palembang, oggi una città industriale molto inquinata,
la seconda dell'isola per numero di abitanti (quasi due milioni), fu la
capitale dell'impero buddhista di Sriwijaya, che aveva dominato per
secoli l'intera penisola malese. Quella
occidentale è dominata dai rilievi del Bukit Barisan, e le strade sono
se possibile ancora più impervie. Oltre alle coltivazioni delle
immancabili palme da cocco e da olio, quelle degli alberi di caucciù,
del tè e, nella confinante provincia di Lampung, del caffè e del pepe,
di cui viene qui prodotta una delle qualità più pregiate al mondo. Su
tutte, domina ovviamente l'industria del legname. Sulle colline che
danno sulle bocche dello Stretto della Sonda si adagia Bandarlampung,
principale porta d'accesso a Sumatra proveniendo da Giava, col terminal
dei traghetti di Bakauheni a 80 km, sulla punta più meridionale
dell'isola, di fronte a Merak. L'andirivieni, anche per le dimensioni
del traffico, è più simile a quello che c'era sul Canale della Manica
prima dell'attivazione del tunnel che a quello sullo Stretto di
Messina. Mode e usi occidentali si sono diffusi qui più che altrove a
Sumatra sia per l'innata vocazione agli scambi delle genti che da sempre
vivono sugli Stretti, sia perché importati dei più cosmopoliti
giavanesi, giunti qui in seguito alle politiche governative di
“transmigrasi”, ideate per cercare di rimediare alle condizioni di vita
nelle aree sovrappopolate, essenzialmente Giava seguita da Bali, e
contribuire al contempo a sviluppare quelle più selvagge e arretrate di
Sumatra e di altre isole dell'arcipelago, creando però non poche delle
tensioni che hanno fatto parlare dell'Indonesia come di un Paese
violento e pericoloso, e che hanno ben poco a che vedere con una visione
intergralista e ossessiva dell'Islam, che è anzi da sempre osteggiata
dai governi di Giacarta e non è nelle corde della popolazione.
mercoledì 24 dicembre 2008
Tra i laghi e i vulcani di Sumatra Ovest
BAYUR – (LAGO MANINJAU) –
La zona di Bukittinggi, a Sumatra Ovest, a due ore di viaggio dalla
moderna Padang, terza città dell'isola, affacciata sull'Oceano Indiano, è
il cuore di questa rigogliosa regione vulcanica, dove sopravvivono
numerose aree di foresta pluviale, abitata prevalentemente dalla
popolazione minangkabarau. Come i batak, anche le tribù minang
sono arrivate a Sumatra dalla Penisola Malese, attraversando lo Stretto
di Malacca, tra il 1000 e il 2000 A.C., per stabilirsi poi sugli
altipiani dei monti Bukit Barisan, anche se la leggenda vuole che
discendano da Alessandro Magno, e siani giunti a sulla grande isola
guidati da Maharjo Dirajo, il figlio più giovane dell'imperatore
macedone. Sebbene questo popolo sia di religione musulmana, la sua
struttura sociale si conserva di tipo matrilineare, e lungo il ramo
femminile vengono trasmesse proprietà e ricchezze. Ogni minangkabarau appartiene al clan della propria madre, il cui nucleo base è il sapariouk
(ossia pentola di riso: è cioè formato da coloro che sono imparentati
per linea materna che mangiano insieme) ed è composto da madre, nipoti e
genero,
mentre la figura maschile più importante della famiglia è il fratelllo
maggiore della madre. Molteplici le ipotesi sull'origine del nome di
questa popolazione, ma tutte hanno a che fare con il termine kerbau,
che significa bufalo: anche qui come nella zona del Lago Toba animale
totemico, alla forme delle cui corna si rifanno sia l'architettura sia i
motivi dei ricami sia i, generale, dei costumi tradizionali dei minangkabarau,
di cui fanno parte i difusi combattimanti tra bufali. Tipiche
specializzazioni artigianali di questo popolo sono la tessitura e la
lavorazione dell'argento. Ci si trova a oltre 900 metri d'altezza, per
cui la temperatura pè estremamente gradevole ed è un piacere
attraversare queste terre ondulate, particolarmente fertili perché
risultato delle eruzioni dei circostanti vulcani Merapi, Singgalang e
Sago, tutti attivi e tutti abbondantemente superiori ai 2000 metri
d'altezza, e soggette ad abbondanti e regolari precipitazioni. Uno degli
angoli più belli della regione è il Lago Maninjau, formatosi nel
cratere del vulcano omonimo, tranquillo, pulitissimo, perfetto per la
balneazione, con acque dalla temperatura ancora più tiepida di quelle
del Lago Toba, nonostante sia profondo fino a 400 metri, senza per
questo assumere quelle caratteristiche termali che renderebbero
sfiancante, nonché alla fine sgradevole, nuotarvi. Vi si giunge dopo
un'ora e mezzo di viaggio da Bukittinggi, il tempo necessario per
percorrere i 38 chilometri di strada a saliscendi in una zona collinare
panoramica e rigogliosa, per poi affrontare ben quarantaquattro tornanti
per discendere il cratere e che porta al lago: l'impressione è di
scendere dallo Stelvio, trovando al fondo della valle non Bormio o
Trafoi ma un lago incantato, che ricorda quelli laziali. Fortunatamente
l'asfalto tiene e la sede stradale è relativamente ampia, a differenza
delle condizioni generali della rete viaria di Sumatra. Anche qui, oltre
alla risicoltura a terrazza, obbligata dalla conformazione del terreno,
e alla coltivazionedi ortaggi e frutta, sono diffuse pesca e
piscicultura: una specie di carpa che costituisce l'alimentazione-base, come anche delle frittelle di equivalenti dei “gianchetti”, insieme al rendang, uno spezzatino di bufalo cotto a fuoco lento nel latte di cocco speziato, altro piatto tipico della cucina Padang
(che prende il nome dalla capitale di Sumatra Ovest) accompagnati,
ovviamente, da riso. Molto rari i turisti; come il Lago Toba questo è un
Luogo-Cynar: ideale contro il logorio della vita moderna.
Se uno non riesce a togliersi di dosso la frenesia e la voglia di
strafare in un posto come questo, significa che gli sono definitivamente
fottuti i neuroni e che è irrecuperabile! La prossima tappa sarà
Bandarlampung, nell'estremità meridionale di Sumatra, affacciata sul
Canale della Sonda che la separa da Giava, dove dopo 24 ore di bus,
opportunamente programmate per il giorno di Natale, mi attende il
vulcano Krakatoa, nel bel mezzo dello stretto, prima di sbarcare su
Giava. Nel frattempo, buone feste a chi mi segue su queste pagine!
domenica 21 dicembre 2008
I batak: gli ex cannibali ora devoti
TUK TUK – LAGO TOBA – I batak
sono un popolo proto-malese dicendente dalle tribù neolitiche che
abitavano la zona montagnosa del Nord dell'attuale Thailandia e della
Birmania finché non vennero sospinte verso Sud dal susseguirsi di ondate
migratorie di popolazioni mongole e siamesi. Una volta giunti a Sumatra, si stabilirono nei dintorni del Lago Toba, le cui montagne
circostanti garantivano protezione dalle invasioni di cui già erano
stati vittime e hanno vissuto per secoli in stato di quasi totale
isolamento dal mondo, acuito dal fatto che, sospettosi com'erano anche
tra batak, evitavano di costrure strade e ponti e
perfino di curare la manutenzionme dei sentieri naturali che collegavano
i loro villaggi. Oggi se ne contano ancora più di sei milioni,
suddivisi in ben sei diversi gruppi linguistici, concentrati
sul fertile altopiano di Karo, in un'area che si estende per 200 km a
Nord e 300 a Sud del Lago Toba. In Occidente ne parlò per primo il
viaggiatore inglese William Marsden, che alla fine del '700 raccontò di
aver scoperto un regno altamente civilizzato, con un proprio sistema di
scrittura ma in cui si praticava il cannibalismo
rituale: ossia cibarsi della carne dei nemici uccisi in guerra (erano
tra le popolazioni più bellicose dell'isola e le loro tribù erano in
perenne conflitto guerra tra di loro) e di coloro che avevano violato gravemente l'adat,
ossia le leggi consuetudinarie. L'uso venne meno soltanto dopo il 1816.
Oscura l'origine del loro nome: secondo la versione più accreditata batak
pare fosse un nomignolo affibbiato loro dai musulmani che significa
“manigiatore di carne di maiale” (o di umani, che sembra abbiano lo
stesso sapore), il che me li rende affini e particolarmente simpatici.
Per molto tempo i batak vissero accerchiati dagli
accesi musulmani di Aceh e di Sumatra Ovest, e nonostante i ripetuti
tentativi di conquista da parte dei primi, finirono per essere
sottomessi dagli olandesi, e così ecco spiegata la diffusione del
cristianesimo, soprattutto nella versione protestante, anche se
sopravvivono molte credenze e vengono praticati rituali animisti che si
rifanno alla tradizione, in particolare il culto degli antenati e degli
spiriti oltre che quello del tondi, che sarebbe
l'anima che vive accanto al corpo ma ogni tanto se ne distacca, causando
le malattie, per cui bisogna ingraziarsi il proprio tondi facendo
offrendogli sacrifici. Anche la conversione ha a che vedere con un
evento che agli occhi dei batak appparve come qualcosa di miracoloso:
un raccolto aprticolarmente abbondante subito dopo la comparsa del
missionario tedesco Nommenson. L'albero sacro rimane a tutt'oggi il
baniano, simbolo della vita. Dell'architettura ho detto nel post
precedente: anche le costruzioni più moderne conservano buona parte
degli elementi tipici pur avendo una struttura in muratura, ma rimangono
anche villaggi costituiti da case completamente in legno. L'influenza
indiana è piuttosto evidente non solo
nell'architettura ma anche nella risicoltura, nella diffusione generale
del gioco degli schacchi, nella tessitura del cotone. E, in parte, nei
lineamenti della popolazione. Tipicamente batak è la danza di una marionetta chiamata sigalegale,
che un tempo era utilizzata nelle cerimonie funebri per comunicare con
gli spiriti dei morti e farli rivivere: il pupazzo, in legno (di
baniano, naturalmente) e alto non meno di cinquanta centimetri e montato
su un a grossa cassa, da cui viene manovrata dal burattinaio, veniva addobbato con gli oggetti del defunto. Il tutto al suono di un'orchestra gamelan, formata da strumementi a percussione e fiati (anche qui lonfluenza indiana è evidente) e la supervisione di un dukun, un mistico. Oggi la danza della sigalegale, vestita con il classico costume batak (sarong
blu scuro, camicia abbondante e turbante rosso), viene spesso inserita
anche nei riti martrimoniali. Particolarmente sviluppato l'artigianato:
la lavorazione dei metalli ma soprattutto del legno. Anche i pustaha, libri magici di profezie che contengono la storie scritta dei batak, sono incisi su legno o bambù. Infine, i batak
sono un popolo particolarmente musicale: tradizionalmente melodie e
canti accompagnano le cerimonie religiose più che essere forme di
intrattenimento, ma oggi è difficile trovare qualcuno che non sappia
suonare uno strumento musicale, tutte le case posseggono una o più
chitarre e tamburi, i ragazzi sono ghiotti di spartiti di muscia di
qualsiasi genere che in Indonesia sono difficili da reperire, e ogni
sera dai bar dove si radunano a chiacchierare o a giocare a biliardo
uomini di tutte le età, si sentono intonare a squarciagola canti che a
noi occidentali non sono del tutto estranei per tonalità e melodia, e
che poco hanno a che fare con quelle che per noi sono le insopportabili
nenie di influenza araba o cinese. Horas!
sabato 20 dicembre 2008
Horas!
TUK TUK – DANAU TOBA – Il Lago (danau
in lingua bahasa indonesia) Toba è un bellissimo specchio d'acqua
trasparente di tutte le sfumature, dal verde al turchese al blu
scuro, di origine vulcanica, situato in mezzo a Sumatra Nord, il più
grande dell'isola coi suoi oltre 1700 km quardati di superficie (a sinistra in una foto a infrarossi dal satellite). A cinque ore di strada da Medan, ci sono arrivato mercoledì con un taxi collettivo fino
a Parapat, e da lì un traghetto porta a Samosir, un'isola di forma
pressoché ovale che si erge al centro del lago, nata da un'eruzione,
estesa quasi quanto Singapore. A essere pignoli Samosir è una penisola,
collegata alla terraferma dalla parte opposta del lago rispetto a
Parapat da un lembo di terra sottilissimo e per di più solcato da un
canale, ma si percepisce come isola ed è questo il punto decisivo. Il
capoluogo è Tuk Tuk, (niente a che vedere con gli Ape-taxi tipici della
Thailandia) che è anche il centro più grazioso e quello dove sono
concentrati gli alloggi per turisti. La prima cosa che stupisce è la
loro disponibilità, molto superiore alla domanda: tempo fa il lago era
molto frequentato da viaggiatori zaino in spalla, per cui la popolazione
batak che abita la zona (crisitani e in maggioranza protestanti, ci tornerò successivamente) hanno affiancato la gestione di resort
alle attività tradizionali: l'agricoltura, principalmente riso, ma
anche ortaggi (ho visto delle commoventi piccole piantagioni di
peperoncino, per la mia gioia) e frutta (manghi, banane, susine, lime)
nonché l'allevamento. Oltre al pollame, che scorazza ovunque,
principalmente bellissimi bufali color cenere e teneri, invoglianti porcelli
in miniatura neri, in versione sia pelosa sia glabra, caprette
bianconere. Il tutto in un'atmosfera talmente rilassata che induce
all'ozio più totale, alla chiacchiera gratuita, alla lettura,
all'osservazione del panorama e alle altrui attività che si svolgono con
calma, senza stress. A cui ci si adegua immediatamente, tantoché io
stesso ho dovuto controllare il giorno del mio arrivo qui su un'agenda,
avendo perso completamente la cognizione del tempo, pur cosciente del fatto
che oggi sia sabato. Oltre che a lasciarsi andare completamente
all'ozio, che essendo il padre dei vizi è il più piacevole e dolce in
cui indulgere, e qui ci si riece con una particolare intensità, ci si
può dedicare alle passeggiate, al trekking più
impegnativo sulle alture circostanti, dove ci sono anche cascate e
sorgenti di acque termali; ad andare a zonzo in bicicletta, oppura fare
più opportunamente in moto il periplo di Samosir. Non c'è traccia di
povertà, le persone del posto sono gentilissime e accoglienti, l'isola è
completamente autosufficiente, i turisti sono diventati per qualche
misteriosa ragione rari e, quei pochi che arrivano fin qui, amabilmente
squinternati e in tono con l'ambiente, e comunque innocui nella loro
comune esecizio dell'ozio, che culmina nell'arte della pennica,
praticata in qualsiasi momento della giornata quando si è giunti allo
stremo delle forze per resistere all'insana voglia di intraprendere
qualcosa. Si direbbe che la divinità che vigila sul lago, sull'isola in
particolare e sulla tranquillità e rilassatezza dei luoghi e dei costumi
sia Morfeo, e consiglio questo posto a chiunque voglia staccare la
spina e togliersi di dosso la frenesia da marionette esagitate, caricate
a pila atomica, che ci portiamo addosso. Aggiungo che il clima è
ideale: siamo a 800 metri d'altezza e il caldo è relativo, meno umido
che sulla costa e temperato da brezze. Assenti malaria e dengue, le
serate sono piacevolmente fresche e può essere gradevole mettersi
addosso una fellpa o usare una coperta leggera per la notte. Le
abitazioni sono in buona parte nello
stile tradizionale batak: costruite su palafitte (nella vesione moderna
talvolta con una parte inferiore in muratura che sostiene un secondo
livello, dalla superficie maggiore, in legno) e con i caratteristici
tetti a schiena d'asino, o talvolta a padiglione, con le punte aguzze
che ricordano le corna del bufalo, animale simbolo della regione, o la
forma dei galeoni che un tempo incrociavano nei mari attorno a Sumatra.
Nel delizioso resort in cui mi sono sistemato, ci sono otto o dieci spaziosi bungalow
costruiti in questo modo, da uno a tre livelli, il cui più caro costa
4,50 € al giorno: dotato anche di acqua calda, per quel che può servire a
queste latitudini equatoriali. Ci sono lavanderia e servizio internet,
un ristorante, uno staff amabile di ragazzi che si prende cura di tutto e
tutti, compreso l'orto da cui provengono le verdure utilizzate in
cucina, noleggio moto e biciclette, televisione satellitrare (quasi
sempre spenta) e una buona dotazione di DVD, connessione internet, non
velocissima ma discreta. Nelle aree comuni dell'edificio principale ci
si trova a chicchierare col gestore (per conto del fratello, che lavora
in Germania), i ragazzi dello staff e con gli altri ospiti,
esponenti abbastanza tipici della fauna che gravita nella zona: oltre al
sottoscritto un baffuto e tatuato marinaio di Amburgo di mezza età,
magro come un chiodo e spassosissimo; un giovane ingegnere capo di un
ufficio ricerche della Continental (l'equivalente tedesco della Pirelli),
da Norimberga, che per il decimo anno di seguito trascorre le sue
vacanze in Asia; un ventenne svedese allampanato e timidissimo sulle
tracce dei viaggi fatti dai genitori nella loro gioventù, e di cui segue
i percorsi di allora; un talentuoso giovane folk singer
statunitense con la chitarra perennemente in mano e dalla voce
straordinariamente simile a quella di Jim Morrison; infine, ultima
arrivata, una strampalata e vivacissima ultrasessantenne giornalista francese che ha diviso la propria vita tra America Latina e Sud Est Asiatico, attualmente vive a
Krabi, in Thailandia, ma durante l'alta stagione (da dicembre a
febbraio) scappa, affitta la casa e si rifugia in Indonesia. Considerato
che con 500 € al mese qui si fa la vita dei nababbi, con il ricavato
dell'affitto in Thailandia ci vive per il resto dell'anno, spese ed
eventuali tasse comprese. Un'ipotesi da prendere in considerazione e un
suggerimento che vi dò gratis, in maniera neanche tanto subliminale, se
le cose dovessero andare definitivamente a puttane nel nostro
civilissimo mondo avanzato, e nella Terra dei Cachi in particolare, e
avete paura che i soldi della pensione potrebbero non bastarvi. Horas! gente: è il saluto tradizionale in lingua batak.
martedì 16 dicembre 2008
La porta di Sumatra
domenica 14 dicembre 2008
Penang: la Malesia anglo-cinese
PENANG – Georgetown
è la capitale del Penang, il più piccolo dei 13 Stati della Federazione
Malese e l'unico ad avere una popolazione a maggioranza cinese, oltre
che una forte presenza indiana. Si trova nella parte nord-occidentale
della penisola, all'imbocco dello Stretto di Malacca, ed è dirimpettaia
di Medan, la più grande città dell'isola di Sumatra, in Indonesia, tra
le quattro e le cinque ore di traghetto, uno dei bracci di mare più
trafficati al mondo. Il territorio del Penang comprende, oltre
all'omonima isola, una sottile fascia costiera dove sorge Butterworth,
insediamento industriale abbastanza orribile e punto di partenza dei
traghetti che fanno ininterrottamente la spola con l'isola. I primi
abitanti arrivarono all'inizio del 1700 da Sumatra, dopo di che Penang
cadde sotto l'influenza del sultano del Kedah, il quale la cedette alla
Compagnia delle Indie Orientali nel 1771. in cambio della protezione
contro l'Impero del Siam. Il capitano Francis Light ne prese possesso
quindici anni dopo e la cessione venne formalizzata nel 1991, quando le
cambiò il nome in Prince of Wales Island, perché
acquisita il giorno del compleanno del futuro re Giorgio IV: da qui il
nome della capitale. E' questo il più antico insediamento britannico in
Malesia, anche se fu poi superato per importanza da Singapore e Melacca:
nonostante l'aspetto cinese sia predominante, l'impronta britannica è
ben presente con una serie di edifici coloniali ben conservati, a
cominciare da Fort Cornwallis, sorto nel punto in cui approdò Francis
Light nel 1786 e da cui oggi partono i ferry
diretti a Medan e alle isole Langkawi, nel Mar delle Andamane, una
delle principali mete turistiche del Paese. Lì vicino, la Victoria
Memorial Clock Tower, dono di un ricchissimo cinese per il giubileo di
diamante del 1897, alta 60 metri, tanti quanti gli anni dell'allora
regina. Nel Distretto Coloniale, tra il forte, la Town Hall e la City Hall, due palazzi neoclassici affiancati, si estende il padang,
un campo da gioco aperto circondato da edifici pubblici, caratteristica
degli insediamenti inglesi negli Stretti. Sempre in stile, sull'altro
lato del padang, il Palazzo dell'Assemblea di Stato, la Corte Suprema,
la chiesa anglicana di San Giorgio e qualla cattolica dell'Assunzione.
Ma non mancano altri edifici coloniali britannici, oggi sedi di banche,
scuole, o adibiti alle più diverse attività. Molto estesa è la Chinatown, brulicante di attività a tutte le ore, tra mercati diurni e notturni, shophouses, bancarelle di ogni genere, negozi di antiquariato, fabbri, artigiani, anzi: maghi del rattan,
botteghe di indovini e venditori di incensi e dei marchingegni più
strani, oltre a un buon numero di templi buddhisti. A Penang più che
altrove mi sono saltati all'occhio i Kongsi,
che sono le sedi di clan (e a metà Ottocento si catenò una guerra
particolarmente sanguinosa fra bande cinesi rivali alleate con
altrettante bande malesi) edifici che contengono un tempio ma sono anche
luogo di riunione per gli appartenenti della stesso clan, o famiglia
(che non è la stessa cosa). Il più notevole è quello dei Khoo,
elaboratissimo e colorato, dotato anche di un palcoscenico permanente
dell'opera cinese. Non manca un'altrettanto animata e vivace Little India,
con i suoi templi e le sue moschee, metre più decentrati sono il Tempio
Thailandese del Buddha Reclinato, una statua di 33 metri coperta di una
tunica color zafferano, che viene considerata la terza effige del
Budhdha più lunga al mondo e il Tempio Buddhista Birmano Dhammikarama,
coi suoi grandi elefanti di pietra a fare da guardia all'ingresso, il
più antico tempio buddhista di Penang. Un tempio induista e una moschea
si trovano anche in cima a Penang Hill, altura di oltre 800 metri che
domina la città e tutta l'isola, mentre ad Air Itam, una collina
adiacente, si trova anche il Kek Lok Si, il più grande tempio buddhista
della che si sviluppa su sette piani. Non mancano quindi le cose da
vedere e da fare, su quest'isola, che è anche il luogo in cui ho visto
finora più occidentali (a parte Singapore), inglesi di tutte le età in
particolare, forse alla ricerca delle vestigia del passato coloniale.
Una delle mete più interessanti di quelle visitate finora, assolutamente
meritevole di una sosta di qualche giorno. Banali e deludenti le
spiagge, invece, contornate da grattacieli e costruzioni piuttosto
squallide, e poco invitante anche il mare. Ma per quello ci sono le
Isole Langkawi, come dicevo sopra, per cui Penang è il punto di partenza
privilegiato. Mi ha stupito l'abbondanza di bar e negozi che vendono
alcolici, nonché la presenza piuttosto evidente di prostitute e locali
per massaggi decisamente ambigui, tanto da farmi credere che l'isola
godesse dello status
di porto franco, ma è un “privilegio” di cui Penang aveva usufruito
dall'indipendenza alla metà deggli anni Ottanta e lasciato da allora
alle Isole Langkawi. Ma l'occhio delle autorità dev'essere rimasto
socchiuso da allora, in segno di tolleranza e di sano senso degli
affari. Saggezza cinese.
venerdì 12 dicembre 2008
La terra del fulmine
KOTA BHARU - Tre
sono le ore di autobus che separano la capitale del Kelantan ("terra
del fulmine") da quella del Terengganu, lungo la statale 3 che segue la
linea della costa una trentina di chilometri all'interno, in mezzo a una
campagna tropicale dolcemente odulata che spesso è foresta fitta
ricchissima di palme da cocco, banani, alberi da gomma e, nella pianura
lungo il corso del fiume che dà il nome allo Stato. Il più rurale e
povero della Malaysia peninsulare, ma l'impressione è tutt'altro che
deprimente: qui davvero nessuno fa la fame, e l'agricoltura contribuisce
anzi in buona parte a rendere autosufficiente l'intero Paese. La
capitale non è una città bella ma relativamente ordinata, rispetto a
Kuala Terengganu è più omogenea e razionale, curata, senza essere in
preda a velleità di grandezza e progetti faraonici. Può darsi che sia
presente un maggiore senso del passato e della storia, e quindi meno
esibizionismo, e che questo si debba ai forti legami che il Kalentan ha
sempre avuto col Regno del Siam e, prima ancora, con l'impero Khmer. Che
la Thailandia sia a pochi chilometri lo si nota dai tratti delle
persone, dalle linee architettoniche, da qualche temnpio buddhista che
spunta qua e là nelle campagne anche se da quasi vent'anni lo Stato è
governato dal PAS, il partito islamico, che ha tentato per anni di
imporre la sharia ai propri cittadini, ad esempio le code
separate per uomini e donne ai supermercati, e anche le panchine
pubbliche, senza peraltro riuscirci. Io di tutta questa "islamicità" non
mi sono accorto: pur essendo venerdì, giorno di massima osservanza,
il cuore della città pulsava di vita e i centri commerciali erano
affollati fino alle 10 di sera, così come i caffè e i ristoranti ancora
aperti. E nessuno ti guarda con riprovazione se ti bevi una birra in un
locale getito da cinesi, che islamici non sono. Il centro storico,
conservato con attenzione, è situato in vista dell'imponente fiume
Kelantan, si estende intorno alla Piazza dell'Indipendenza (Medan
Merdekai) e comprende un gruppo di musei: quello reale, già residenza
del principe ereditario, quello delle cerimonie reali, quello islamico e
quello dedicato alle seconda guerra mondiale, un palazzo costruito nel
1912 per la Mercantile Bank of India e che fu utilizzato come quartier generale del Kempetai,
la polizia segreta giapponese. Ho notato invece che su questo versante
della penisola di parla l'inglese molto meno che nelle altre parti, e
non so quanto ciò possa essere dovuto al maggiore tradizionalismo o a
una forma di ostracismo. Abbastanza controproducente perché questa è
comunque una città di passaggio obbligato, che offre peraltro ottime ed
economiche possibilità di alloggio, verso la isole Perenthian, Lang
Tengah e Redang. Deserte in questo periodo di monsoni: i quali in questi
giorni di mio transito anno dato stranamente tregua. In attesa di
scatenarsi al momento (meno) opportuno.
giovedì 11 dicembre 2008
L'agguato del dengue
KUALA TERENGGANU - Prima
che venissero realizzati i collegamenti stradali con Kuala Lumpur e con
la costa occidentale della Malesia, che si raggiunge in una sgroppata
di 8 ore e mezzo di bus con un solo pit stop igienico,
in mancanza di servizi a bordo, il Terengganu, insieme al confinante
Kalentan, che occupa la parte settentrionale della Malesia peninsulare,
era la regione più isolata del Paese. E anche la più arretrata, finché i
proventi del petrolio non hanno cambiato la faccia di questo sultanato
(perché, ricordo, la Malaysia è una federazione di Stati, anzi: di nove
sultanati, che godono di un largo margine di autonomia). Nel caso della
capitale, Kuala Terengganu, con inserimenti architettonici discutibili e
spesso raffazzonati e un piano viario (non oso chiamarlo urbanistico)
demenziale, capace di rendere parossistica la confusione già esistente
in natura. Eppure la posizione sarebbe invidiabile, ai piedi di un
promontorio che si affaccia sul Mar Cinese Meridionale da un lato e la
foce del fiume omonimo: in cima alla collina i resti di un forte che
risale a metà '800, periodo di guerre feroci tra sultanati rivali. Di
fronte, l'isola di Pulau Duyung, dove le attività principali del kumpung
(villaggio) continuano ad essere la pesca e la costruzione di barche di
tipo tradizionale. L'acqua, ahimé, è di aspetto alquanto melmoso,
qualche relitto che spunta qua e là, all'orizzonte delle ciminiere e
alcuni cantieri: non proprio invitante. A parte la mancanza di punti di
riferimento, a peggiorare la situazione nell'orientarsi, i nomi delle
strade che si assomigliano tutti: Sulaiman, Ibrahim, Ismail, Ahmed,
Mohammed, tutti Sultan, che compiono, se non bastasse, circonvoluzioni
senza senso o, a volte, si interrompono all'improvviso. Le indicazioni,
come le strisce pedonali sono dei semplici optional,
pensate solo per gli automobilisti, e non aiuta neppure l'uso dei
caratteri latini nella lingua malese. Ho macinato chilometri, in cerca
di un luogo di ristoro segnalato sul lungomare, in una città che avrà sì
e no centomila abitanti e di cui conosco ormai ogni edificio.
Naturalmente non l'ho trovato, come nemmeno un lungomare degno di questo
nome. Per nutrirmi ho dovuto tornare nella piccolae compatta Chinatown
locale, naturalmente posta nel luogo più strategico, tra foce del fiume
e mare, che alla fine è sempre il luogo più autentico, organizzato,
genuino e affidabile. E stranamente ordinato e pulito: non che il resto
della città sia sporco, ma tende a essere trascurato e sciatto e dà una
sensazione di qualcosa di irrisolto. Sarà una cosiderazione banale, ma
mi vengono sempre in mente le parole di mio padre ancora quarant'anni
fa, che ripeteva sempre che è coi cinesi che bisognava prima o poi fare i
conti, altro che russi e americani. E lui li aveva conosciuti negli
anni Trenta, a casa loro, girando il modo sulle navi. Il tempo è
abbastanza clemente: una sola spruzzata di pioggia all'alba e per il
resto della giornata sereno alternato a nuvole, con una continua brezza
assai gradevole. In piena stagione monsonica non è male per viaggiare:
ed è così da quattro giorni. Questo non impedisce a zanzare e mosquitos
di essere fastidiosi: si sentono ma non si vedono. Ce ne si accorge
quando hanno già operato. A dispetto dei cartelli che si vedono un po'
ovunque sulle norme da tenere per evitare il dengue, in albergo perfino
la raccomandazione di tenere sempre ben chiusa la porta del bagno,
crateri nei marciapiedi che favoriscono l'accumulo di acqua stagnante,
canali di scolo che non fanno il loro lavoro, improvvisi spazi incolti
con pozzanghere che si trasformano in acquitrini sembrano essere il
luogo ideale di sviluppo per queste micidiali zanzare tipicamente
urbane. Alla fine, abbastanza deludente questa città che passa per
essere una roccaforte della cultura tradizionale, di cui ho visto poco
salvo alcune belle botteghe artigianali di batik e
una diffusione di zuccotti e veli maggiore che a Malacca, ma senza
alcun eccesso in senso integralista, salvo una scritta inneggiante a
Osama. E domani si va nella “città islamica” per eccellenza, come si
definisce Kota Bharu, la capitale del Kelantan, la regione più
settentrionale della Malaysia, che confina con la Thailandia.
martedì 9 dicembre 2008
Malacca, lo stretto dei pirati
MELAKA - O
Malacca, da cui prende il nome il famoso e cruciale stretto fra la
penisola malese e Sumatra, che si trova esattamente a metà della rotta
che congiunge la Cina all'India, crocevia di traffici di ogni genere ora
come seicento anni fa, quando vi fu fondato il più potente impero
malese. Ci sono arrivato ieri da Singapore, seguendo le tracce di
Parameswara, un principe hindu rinnegato che proveniva da un piccolo
regno nel Sud di Sumatra, il quale aveva reso indipendente dall'impero
dei Majapahit di Giava. Un secessionista e un pirata a tutti gli
effetti: inseguito dai giavanesi, si era rifugiato a Tamasek e fu lui a
cambiarne il non in Singapore, la città del Leone. Accolto dal
re locale, lo accoppò una settimana dopo, prese possesso della città e
da lì continuò le sue scorrerie finché i siamesi, di cui Tamasek era
vassalla, si mosserò per bloccarlo. Si rifugiò dall'altra parte del
braccio di mare, individuando nel villaggio di pescatori di Melaka un
altro punto nevralgico per controllare lo stretto, e un porto naturale
ideale, per la profondità delle sue acque. Infine, si offrì tributario
dell'imperatore cinese Ming, che proprio in quell'epoca, 1400 e
dintorni, aveva incoraggiato spedizioni per individuare nuove rotte
verso Occidente. E Malacca divenne il porto dove le giunche cinesi
incociavano i navigli degli altri grandi commercianti dell'area: gli
indiani. Poi arrivarono i portoghesi, intenzionati a soppiantare i
veneziani nel commercio delle spezie, che questi si procuravano dagli
arabi che a loro volta le compravano dagli indiani: a Malacca. I
"portugis", come li chiamano qui (ci sono ancora loro discendenti
diretti in un sobborgo della città), avevano costruito una serie di
forti per controllare la rotta fino alle Molucche, da dove arrivavano
le spezie, e approfittando di un pretestuoso attacco alla loro flotta
conquistarono Malacca, fortificandola, nel 1511: di A' Fortuna,
questo il nome del manufatto, rimane oggi uno spunzone ad eterna
memoria perché venne distrutto dagli inglesi trecento anni dopo. In
mezzo vi furono gli olandesi, i "belanda" nell'idioma locale, di cui
probabilmente rimangono le tracce più consistenti nella eterogenea
architettura della città, il cui dominio seguì per un secolo e mezzo
quello di 130 anni dei lusitani, ma che sottovalutarono l'importanza
strategoica della città privilegiando Batavia, l'odierna Giacarta, che
rimase il punto di partenza dei loro interessi sullo scacchiere Sud-Est
asiatico. Nel 1941, ingolositi dalla sua posizione startegica,
arrivarono i giapponesi del miitico generale Yamashita, che presero di
sorpresa le gaurnigioni britanniche, sbarcando a Kota Bharu nelle stesse
ore in cui stavano bombardando Pearl Harbour, e le polverizzarono,
stabilendosi qui e a Singapore. Con questo bel po' di storia alle
spalle, non stupisce che Melaka faccia parte delle Città Patrimonio
dell'Umanità protette dall'Unesco. La città oggi è un porto di medie
dimensioni e un centro vivace, dove la multietnicità è, se possibile,
ancora più marcata che a Singapore e dove il passato ha lasciato le sue
tracce non soltanto nell'architettura del centro strorico ma nel
carattere di tutto l'agglomerato urbano, così come negli usi, nella
gastronomia, negli oggetti: numerosi i negozi di antiquariato, intenendo
quello autentico e non quello ad uso turistico. Il gruppo cinese è
quello più organizzato e potente, come spesso accade, e anche qui è
ancora viva, e non ha quindi bisogno di particolare protezione come
nella vicina Città Stato, la cultura peranakan, ossia sino-malese (detta anche baba-nonya,
dai nomi riservati ai discendenti, rispettivamente maschi e femmine, di
questi matrimoni misti). E' stupefacente poi vedere come convivono, è
il caso di dirlo, a pochi metri di distanza, talvolta un tempio di
fronte all'altro, il muezzin con il bonzo e coi suonatori di tamburi
indù; nonostante la presenza in pieno centro della Chiesa di Cristo, in
fianco allo Stadthuys (municipio,chiaramente olandese) e quella
di Francesco Saverio, anche lui in azione da queste parti, gli unici a
non vedersi in giro sono gli intonacati cattolici. Nemmeno adesso cnella
prossimità delle feste natalizie. Come loro ci sono ma non si vedono i
pirati: se il porto non ha più l'importanza di un tempo, ci sono loro a
tenere sotto controllo le attività nello Stretto, adesso come seicento
anni fa. Mentre quelli attivi in Somalia son o un fenomeno recente,
questi sono endemici, forse meno spettacolari ma incredibilmente
efficienti. Dei veri professionisti.
domenica 7 dicembre 2008
I timori del Leone
SINGAPORE - A prima vista, quello che dal mio arrivo qui vedevo scorrere sugli schermi TV nelle modernissime e deliziosamente gelide stazioni della MRT (Mass Rapid Transportation, la metropolitana locale) in attesa dei treni, sembrava essere il trailer
di un film d'azione in uscita per le prossime festività natailzie:
probabilmente una pellicola sul terrorismo. Poi mi sono accorto che si
trattava di uno spot del governo che invita il pubblico a stare
all'erta sugli oggetti sospetti lasciati nei convogli e a collaborare
con le autorità. Abituato all'ipocrisia del politicamente corretto
e al fumo negli occhi buonista nostrani, mi ha stupito, s'intende
positivamente, la crudezza del filmato e l'esplicità del tono. Il video
ha come protagonista un giovane d'aspetto anonimo ma di evidenti
fattezze malesi (e dunque probabilmente islamico) che, approfittando
della confusione sul metrò, “dimentrica” una borsa sotto un sedile,
abbandona il treno e mentre lo osserva entrare in un tunnel estrae un
cellulare e si vede il dito in primo piano pronto
ad azionare il fatale collegamento... Il più delle volte il film si
ferma a questo punto e prende a parlare, con tono pacato, un funzionario
governativo. Mi era sempre rimasto il dubbio che si interrompesse in
occasione dell'arrivo di qualche treno in stazione, finché oggi, preso
dalla curiosità, ne ho lasciato passare uno e ho
constatato che continua davvero: cortometraggio la bomba, in effetti,
esplode, e seguono filmati su attentati ai treni avvenuti a Londra,
Madrid e Mumbai (non ancora aggiornati, questi ultimi). In una città in
cui la minoranza islamica è comunque consistente e visibile, non ho
notato alcuna reazione d'offesa o di fastidio, e in chi guardava lo spot
ho notato semmai un atteggiamento attento, consapevole e, in qualche
modo, di condivisione. Da un lato sono rimasto colpito come davanti a
una minaccia grave qui non ci si nasconda dietro a un dito. In sostanza
il messaggio è: questi banditi fanno stragi in giro per il mondo e ci
minacciano direttamente proprio perché siamo una società multietnica e
multireligiosa che funziona. Bisogna aver paura di questa gente perché
ci detesta proprio per quello che siamo, quindi teniamo gli occhi aperti
e collaboriamo. Dall'altro mi ha fatto riflettere sul melting pot di Singapore. La città del leone (singa
in malese) è, come detto, a maggioranza cinese, e cinese, di formazione
inglese, è stata la sua guida: Lee Kuan Yew, ininterrottamente primo
ministro dal 1959 al 1990, seguito dal fido Goh Chok Tong (ora Ministro Senior) a cui nel 2004 è succeduto il figlio Lee Hsien Loong per riprendere la dynasty. Il patriarca, 85 anni, si è riservato la carica di Ministro Mentore. Lee Kuan Yew era stato tra i fondatori, nel 1954, e primo segretario, del
partito socialista PAP (partito d'azione popolare), che aveva al suo
interno anche una componente comunista. Le sue due linee guida:
industrializzazione a tappe forzate tramite
intervento massiccio dello Stato nelle infrastrutture e politica della
casa. Si può rimanere inorriditi davanti agli alveari di 30-40 piani che
incombono ovunque (anche se in un Paese dove si sono costruire "le
Vele' e lo ZEN è meglio tacere) ma Singapore ha dalla metà degli Anni 90
la più alta percentuale di proprietari di casa al mondo, e una delle
piu basse di criminalità. Quanto alla rete infarstrutturale, dalle
strade al porto ai servizi, il futuro è già qui. Insomma: pugno di ferro
in guanto di velluto, niente di diverso rispetto a quanto sarebbe
successo in Cina negli ultimi 15 anni ma senza avere avuto una Tien Anmen. Dall'altro
lato, massima attenzione all'integrazione etnica e religiosa, ben
memori del fatto che la stessa indipendenza di Singapore è avvenuta per
motivi razziali: nel 1965, infatti, era stata espulsa (non certo
controvoglia, peraltro) dalla giovane Federazione Malese, con cui i
rapporti sono sempre rimasti tesi, perché poco omogenea essendo a
maggioranza cinese. Massima quindi la libertà religiosa e culturale le
cui manifestazioni vengono incoraggiate in ogni modo, e quattro le
lingue ufficiali dello Stato: malese, tamil, cinese inglese. Ed è
proprio questa la lingua franca tra le diverse etnie, dal
1987 promossa a prima lingua per tutti nelle scuole di ogni ordine e
grado. Dal 2000, poi, è stata lanciata la campagna governativa “Speak
Good English”, per migliorarne lo standard. E sicuramente qui si parla
il migliore inglese di tutta l'Asia, salvo forse che a Hong Kong. In
realtà le comunità convivono ma tendono a non fondersi e sono abbastanza
atomizzate anche al loro interno, a cominciare da quella cinese: la
provenienza dalle diverse province del colosso di terraferma è resa
evidente negli “Hawker Stalls”, ossia nella gastronomia: hokkien,
teochew, hakka, cantonese, e non a caso il governo ha lanciato la “Speak
Mandarin Campaign” sulla falsariga di quella per l'inglese. Astuti,
previdenti e realisti, i “Leoni” si portano avanti tenendo
presente chi comanda a Pechino. Rischia così di perdersi la cultura dei
“perenankas”, tipica di Singapore. Il termine significa “mezza-casta” in
malese e di riferisce ai discendenti di un uomo cinese e di una donna
malese (anche se esistono, ma meno numerosi, casi di peranankas
arabi, ebrei o indiani), per cui i figli hanno ereditato il nome e la
religione dei padri e usi, costumi e lingua dalla madre, con mescolanze
audaci nell'idioma e di grande successo nella gastronomia. Ma per
preservare l'armonia e la multietnicità, l'occhiuto governo locale
garantisce comunque il suo appoggio alle organizzazioni che sono nate
per preservarne le tradizioni e peculiarità.
venerdì 5 dicembre 2008
Orchard Road e le infinite vie dello shopping: tutte uguali
SINGAPORE – Orchard
Road è una delle strade commerciali più famose al mondo, come dire
Fifth Avenue a New York, Oxford Street a Londra e, fatte le debite
proporzioni, nel nostro orticello peninsulare via Condotti nella
capitale politica o Montenapoleone in quella della tangente. Gli
appassionati di shopping e gli immancabili fighetta obietteranno
che in Italia ci stanno però la moda, la creatività e la qualità che
tutto il mondo ci invidierebbe; il denaro, però, circola qua: e di sartoria
di alto livello di produzione nazionale, così tanto decantata, per
quanto poco ci capisca, ne ho vista ben poca, Tutt'al più magliette e
oggetti col marchio Ferrari, grazie probabilmente al primo Gran Premio
di Formula Uno in notturna organizzato qualche mese fa proprio a
Singapore. Ma la Ferrari costruisce motori che suonano sinfonie e opere
d'arte in forma di design, mica straccetti. In più, vince spesso. Altri
prodotti della operosa Terra del Cachi non ne ho visti in giro: nemmeno
l'ombra di quelli a tecnologia avanzata, in una delle
patrie dell'elettronica da consumo e con Giappone, Corea, Cina, Taiwan e
Malaysia a due passi; ma nemmeno quelli gastronomici: mi è capitato di
vedere in giro del vino francese, argentino, spagnolo, perfino tedesco
ma non italiano. Altrettanto, la città è piena di caffetterie Starfucks e Costa e gelaterie Hägen Dasz, frequentate anche qui dai pseudo liberal di buona famiglia in vena di esibizionismo e maniere affettate, e non c'è ombra di un Illy e nemmeno di un Segafredo, che in Europa almeno è presente nelle stazioni ferroviarie. Quanto agli americani finto ambientalisti e altroconsumisti di Starfucks, coi loro beveroni ributtanti a prezzi da delirio, non mancheranno di avere in Italia il successo già registrato dai loro compaesani gelatai yankee dal nome impronunciabile: i cretini presenzialisti che amano essere alla moda da noi sono irrefrenabili e non mancheranno di arrivare a frotte a decretarne il trionfo: con la mania dei muffin siamo già a un buon punto di intossicazione cerebro-alimentare. Per
quanto riguarda l'export neli Paeesi "emergenti" ci si salva, credo,
con la componentistica e con i mobili da cucina. Che non è uno scherzo,
ma il Prodotto Italia, in una via commerciale cruciale come
questa, proprio non c'è. Ecco: ho adocchiato una Nuova Cinquecento
della FIAT, pure piuttosto ammirata, ma è stata l'unica in mezzo a un
buon numero di VW Beetle, AUDI, Mercedes e, sorprendentemente, tante
Porsche. Ovvio che qui le vetture giapponesi non hanno quaasi
concorrenza, per quanto riguarda i comuni mortali. A parte questo,
Orchard Road, presentata come un potenziale attentato al vostro
portafogli, assomiglia ai Campi Elisei di Parigi, anche per le
dimensioni: forse meno pretenziosa ma altrettanto insignificante:
l'arditezza e inventiva degli architetti locali si è esibita altrove. A
differenza delle sue consorelle in giro per il mondo, si tratta di una
via commerciale vivibile e con un traffico scorrevole e regolato in
maniera esemplare, come spesso le cose in questa città. Perfino il
pubblico che l'affolla riesce a dare l'impressione di essere meno
intronato dalla droga dello shopping e standardizzato che altrove:
certo, due terzi del pubblico è composto da squinzie della più varia
età, etnia e credo religioso, che “la portano a prendere aria”, convinte
di “avercela” solo loro, sguardo vacuo e liquido al contempo, pronte a
fare aprire il portafoigli all'altro terzo, di sesso maschile, non
meno rimbecillito davanti ai negozi di materiale eletronico. Ma tutto il
carnevale mi sembra avvenire in modo più decente e meno sguaiato che
altrove. Poi ci sono gli immancabili pirla come me, che si fanno venire
le vesciche ai piedi a furia di camminare per chilometri nella caldazza,
e non possono nemmeno dirsi increduli perché sanno per esperienza che
così va il mondo, a qualsiasi latitudine.
giovedì 4 dicembre 2008
Qui comincia l'avventura...
SINGAPORE – Ero
al corrente che l'aeroporto di Changi fosse particolarmenete
efficiente, e non è un caso se da anni sia puntualmente votato come il
migliore al mondo. Volo da Dubai perfino in antricipo, atterrato in
perfetto orario solo perché l'aereo ha volteggiato per una mezz'ora
sopra l'isola. Sì: perché Singapore è una città-Stato ma la parte
edificata è circa la metà della sua superficie; un'isola, appunto, che
misura 42 km di lunghezza, 23 di larghezza, il tutto per 700 km
quadrati, contornata da oltre una sessantina di
“succursali” tra cui la più grande è Sentosa, dedicata allo svago e alla
balneazione, e nemmeno la più grande tra quelle che punteggiano
la parte più meridionale del Canale di Malacca, che separa le penisola
malese da Sumatra (Indonesia) nella sua parte più stretta, un grado
sopra l'Equatore. Una mezz'ora di coda per espletare le formalità
doganali, nemmeno troppo considerata l'eterogeneità degli sbarcati e
l'accuratezza dei controlli. Decisamente più veloci della media le
procedure cui sono suttoposti i cittadini UE, che ottengono anche,
seduta stante, un visto valido 90 giorni. L'operazione di consegna dei
bagali era stata nel frattempo così veloce, che gli stessi erano già
stati tolti dal nastro e accuratamente disposti, tutti in ordine come
soldatini e con il manico rivolto verso l'alto, in posizione di asporto,
ovviamente sotto la supervisione di una sorvegliante, da un lato del
nastro. Applausi, da parte di uno abituato alle inefficienze alitaliote
e ai furti costanti nei magazzini delle società di gestione, e visioni
fantascientifiche quando si passa ai servizi aeroportuali e
complementari. C'è semplicemente tutto quello che occorre, dalle
indicazioni comprensibili anche a un idiota ai bancomat. Quattro le
opzioni per arrivare in città, pur sempre un viaggio di una ventina di
minuti, ma per tutte le tasche: con la metropolitana, per un dollaro di
Singapore (all'incirca 40 euro cent) oppure, allo
stesso prezzo, in autobus di linea; 9 $ per lo Shuttle (minipullman da 9
posti, comodi, con aria condizionata, video di presentazione delle
attrazioni cittadine, non invadente e a volume dicreto), cinture di
sicurezza obbligatorie; infine tra i 15 e i 20 dollari locali, a seconda
del traffico, il taxi. Viene da urlare pensando ai 18 €
che vengono grassati dalle Ferrovie Nord con il famigerato Malpensa
Express o dagli shuttle tra Milano e Orio al Serio o Roma e Fiumicino,
per non parlare delle frequenze e dei prezzi improponibili dei taxi
nostrani. L'alloggio è nel cuore di Little India, bar e internet point aperti anche dopo
la mezzanotte, alcuni 24 ore su 24, nessuna faccia “malintenzionata” in
giro, ma nemmeno l'onnipresente controllo poliziesco che mi ero
immaginato. Sì, perché Singapore mi era stata dipinta come una sorta di
landa popolata da maniaci malati di igienismo, dove si multa
pesantemente quando non si arresta la gente che butta cartacce o cicche
per terra, una realtà claustriofobica,
strerilizzata e soggetta alla sorveglianza di un onnipresente Grande
Fratello un po' paranoico (anche se un pannello vicino alla City Hall ammonisce che A low crime rate doesn't mean no crime). Niente di tutto questo, come ho avuto modo di appurare girando per il quartiere dove soggiorno, Little India e l'adiacente quartiere arabo, e Chinatown. Sì: sembra un paradosso che esista una Chinatown
in una città dominata e costruita dai cinesi, che sono il 75% della
popolazione, ma si tratta di quel che è rimasto della città coloniale
all'ombra dei grattacieli, peraltro bellissimi, che
dominano la Downtown che dà verso il fiume (chiamato così ma si tratta
di un braccio di mare canalizzato). Esistono queste porzioni etniche della città, a cui si aggiunge quella malese di
Geylang, a Singapore Est, che conservano tutto il calore e colore degli
originali ma in un contesto pulito, privo di tensioni, in una parola
civile, senza essere semplici specchi per le allodole o barbatrucchi per
turisti, salvo, in parte, Chinatown. Dove però è sufficiente mettere piede nell'omonimo centro commerciale (che nulla ha a che vedere con un mall in stile yankee:
quelli si trovano in Orchard Road, mi dicono; semmai con un mercato
comunale al coperto di quelli a cui siamo abituati in Europa), per
essere certi di essere in mezzo alla gente del posto più autentica. Al
primo piano, uno dei più famosi hawker markets, i
baracchini alimentari che un tempo si trovavano per strada e che sono
stati messi al coperto in condizioni igieniche più che decenti: a
decine, delle diverse regioni cinesi e non solo (e' coperto tutto il
Sud-Est asiatico), con tavolini e sedili ancorati al pavimento, in
genere self service ma talvolta anche con servizio essenziale
al tavolo – a parte lavora una squadra di addetti alla pulizia: ho già
notato che generalmente si tratta di indiani del Sud o srilankesi. Ci si
siede naturalmente con degli estranei, senza formalità, ed è una
meraviglia: le persone sono gentili ma mai invadenti. Il cibo ottimo e
di una varietà impressionante e a prezzo irrisorio: per 5 $ (poco più di
due euro) ho pranzato con degli ottimi tagliolini in brodo con granchio
(vero e carnoso), gamberi e verdure, piccante il giusto e corroborante.
Per far fronte ai fortunali pomeridiani di stagione: perché è quella
dei monsoni, e all'Equatore non si scherza. Però gli scoli dell'acqua, a
Singapore, funzionano meglio che a Milano.
venerdì 4 luglio 2008
Saluti da Pantelleria
In alto, Punta Tre Pietre, vicino a Scauri, secondo centro dell'isola per numero d'abitanti. Mare pulito, fondali spettacolosi, relativa abbondanza di pesce, benché a Pantelleria da sempre più che della pesca ci si occupa di agricoltura. Battuta dal vento (oggi ha attaccato a soffiare il maestrale: in barca si balla si già e tutto lascia prevedere che continuerà così per i prossimi tre giorni), si rimedia con gite sulla boscosa e fresca Montagna Grande, si fa il bagno nel lago Specchio di Venere, con le sue "calderelle", polle d'acqua calda solforosa che gorgogliano in vari punti dal fondo, dove si possono effettuare anche fanghi termali, oppure ci si dedica direttamente ai "bagni asciutti" o stufe naturali sparse sull'isola; si possono visitare le cantine che lavorano la tipica uva zibibbo: il celebre passito di Pantelleria ma non solo: anche il moscato e alcuni bianchi secchi. L'isola è vulcanica e ventosa: come per esempio a Lanzarote, nelle Canarie, con cui ha molti tratti in comune, l'agricoltura è praticata su terreni terrazzati e le piante potette da muri a secco, nonché "miniaturizzate" e tenute appositamente basse. L'altra produzione per cui Pantelleria va famosa è il cappero, vera meraviglia della natura e questa è la stagione del raccolto, prima che si trasformi in un fiore bianco.rosato dall'aspetto esotico e delicato: perché i capperi sono nient'altro che il fiore della pianta ancora in boccio. E' ubiquo, ancor più dei giganteschi oleandri e delle bougainvillee. Per la mia gioia, è il protagonista della cucina pantesca, semplice ma sapida. Per ora, scarsi i turisti, stagione che non è ancora decollata e non promette bene. Prezzi abbastanza alti, aria di crisi. Ad agosto sarà comunque il consueto caos, causa l'abitudine italiota di seguire il gregge e le abitudini più inveterate e stupide. Anche le brutture sono abbastanza sotto controllo, anche se non mancano "ecomostriciattoli" come la zona alberghiera a Punta Fram,I o alcune cattedrali nel deserto (ma con vista-mare, albergoni in stile moresco finiti da qualche anno e mai messi n funzione, che puzzano di "lavanderia" e licenze irregolari. Comunque un paradiso rispetto alla media nazionale. Tenetela in considerazione: vale davvero la pena passarci almeno una settimana.Vigneti presso Mueggen.
martedì 1 luglio 2008
Palermo la bella
Ho trascorso gli ultimi quattro giorni a Palermo, l'altra capitale del Sud dove non ritornavo da qualche decennio (a destra la Fontana del Genio, in Piazza della Rivoluzione) e a parte lo zaino-borsa che da venerdì mattina erta comparso, e di cui si sono trovate le tracce prima a Catania e poi a Venezia (punto di partenza da cui è nato tutto il caos: cui si è aggiunto, qui in Sicilia, unblack-out di oltre 36 ore del sistema informativa che gestisce lo smaltimento del bagagli smarrito) l'ho trovata certamente più vivibile, ordinata e meno disastrata della sua concorrente Napoli. Città di contrasti ma anche discretamente pulita, elegante; schiva con punte di asprezza come i suoi abitanti ma anche affascinante e gentile, disponibile. La "Vucciria" come me la ricordavo non esiste più, ridotta sostanzialmente a un vicolo e a una piazza peraltro ormai poco animata; più vivi il mercato del Capo, a Porta Carini, e Ballarò, nei pressi della stazione ferroviaria, il più esteso; nella cui zona si concentra anche la maggior parte degli immigrati extracomunitari, che non mi sarei mai aspettato così abbondante da questa parti. E non tanto maghrebini (considerata la vicinanza della sponda Sud del Mediterraneo) quanto di bengalesi, indiani, cinesi e neri africani. Mi è parso integrati piuttosto felicemente nel tessuto cittadino, in confronto a quanto accade a Milano o a Roma. In buon numero anche i turisti, specialmente stranieri: peccato per la chiusura per ristrutturazione di Palazzo Abatellis, alla Kalsa, sede della celebre Galleria Regionale Siciliana, e la Cappella Palatina a Palazzo dei Normanni, senza alcuna indicazione sulla loro riapertura al pubblico (carenti in genere le indicazioni di percorsi e monumenti) ma non mancano certo le cose da vedere: difficile annoiarsi (sotto a destra, la Chiesa di Santa Maria della Catena, alla Cala). Note negative, un sistema di viabilità demenziale, con una quantità di doppi sensi di marcia quando sarebbe più saggio che fossero unici; il fatto che uno su tre gira in moto senza casco (spesso anche in tre, e il terzo magari è un infante), e due di quelli che lo utilizzano vanno in giro con quella specie di padella che lascia scoperte le orecchie e senza allacciarselo; non un vigile urbano a parte due di guardia al Comune, per cui non non nemmeno come sono fatte le loro divise, piuttosto scarsa la presenza di polizia e carabinieri per le strade: alquanto sorprendente nella capitale della mafia e in una città in cui scippi e furti sono piuttosto diffusi, e dopo il gran parlare che si fa in tema di sicurezza: ma forse ha una sua logica che in tali situazioni la loro presenza sia più discreta e che si lavori sotto traccia. Niente a che vedere comunque col caos e il degrado che regnano a Napoli (e men e dispiace) e comunque una città che merita sempre una visita. E ora, a Pantelleria, la Bent-El-Rhìa, "figlia del vento", degli arabi.
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