"torneranno i prati" di Ermanno Olmi. Con Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi, Domenico Benetti, Andrea Benetti, Carlo Stefani, Niccolò Tredese, Franz Stefani, Andrea Frigo, Igor Pistollato. Italia 2014 ★★★★★
Un film magnifico, emozionante e poetico, un piccolo, grande capolavoro: sono bastati 80 minuti a Ermanno Olmi per condensare tutto quel che c'è da dire sulla follia della guerra e sulla sua essenza, ossia che l'umanità si divide tra chi tira i fili, organizza questo tragico gioco al massacro per dirimere questioni che non è in grado o non vuole risolvere altrimenti, e chi la fa o la subisce, combattenti e popolazione civile. In posizione intermedia, ma complice dei primi, l'apparato, per definizione idiota e volutamente cieco, che si presta, ossia i militari professionisti. Lo fa attraverso una trama pressoché inesistente: siamo alla vigilia di Caporetto, nell'ottobre del 1917, sull'Altopiano di Asiago, in un avamposto d'alta quota dove giungono un maggiore e un giovane tenente per portare al reparto che vi è sepolto, attanagliato dal gelo e sommerso da metri di neve, conducendovi una vita miserabile e piena d'angoscia a ridosso della linea austriaca, l'ordine demenziale per un'operazione escogitata a tavolino dai felloni dello stato maggiore, tanto suicida quanto vana, da portare a termine pur essendo al corrente dell' imminente ordine di ritirata - una situazione simile l'aveva vissuta mio padre in riva al Don, in Russia, nell'inverno del 1942, sfuggendo per un pelo alla "sacca di Stalingrado" -. Il racconto è quello degli avvenimenti della notte trascorsa a tentare l'azione fino al cannoneggiamento della postazione e alla ritirata alle prime luci dell'alba, lasciando alle spalle una scia di morti inutili, attraverso una fotografia strepitosa, curata dal figlio del regista, Fabio, giocata su un chiaroscuro che sfuma talvolta in un accenno di colore livido, dove Olmi si muove a suo agio nella descrizione meticolosa degli interni, miserevoli, del capanno dove si svolge da mesi la vita di stenti e di paura di questi uomini disperati, distrutti, delusi, ingannati, usati, ma sempre dignitosi e soprattutto veri, che parlano i loro dialetti riuscendo a capirsi comunque perché uguali di fronte alla tragedia, il tutto i contrasto con degli esterni fiabeschi, con i boschi che sono una cosa viva, in quel regno di morte, popolati da animali, coi loro rumori che sembrano respiri. Emilio Lussu e Mario Rigoni Stern, il cantore dell'Altipiano, seppur non citati espressamente sono lì, nell'aria. I volti scavati di quegli uomini (bravissimi tutti gli interpreti, professionisti e no) dicono tutto, più ancora delle loro scarne ma precise parole, che individuano con precisione i responsabili di quella bestialità: il nemico non è quello che subisce la stessa sorte malvagia e soffre nella trincea nemica, ma chi ha mandato il proprio popolo al massacro, illudendolo, ingannandolo, riempiendolo di retorica tronfia e ipocrita, e minacciando con la ritorsione violenta chi trasgredisse gli "ordini superiori", ossia i veri traditori, quelli che hanno in mano le leve del potere. Questa l'unica, eterna verità della guerra, qualsiasi guerra. Ma ancor di più per quella Guerra, non a caso definita Grande, la più bestiale e inutile di tutte quelle conosciute finora. La memoria è necessaria, tantopiù in un Paese come il nostro che ne fa volentieri a meno: Olmi ha tramandato quella di suo padre, basandosi sui suoi racconti (la vicenda è assolutamente vera) e l'ha trasformata in immagini evocative e scarne, essenziali parole unite a suoni evocativi, quelli della natura e quelli della tromba malinconica e a tratti lancinante di Paolo Fresu. Un gioiello che, come la memoria che trasmette, andrebbe preservato, valorizzato e mostrato al grande pubblico, magari in televisione, visto che è RAI-Cinema a comprodurre la pellicola, l'anno prossimo, al posto di scellerate e odiose celebrazioni del centenario dell'entrata nel conflitto da parte dell'Italia e di una vittoria che si è dimostrata una tragedia per tutti.
Un film magnifico, emozionante e poetico, un piccolo, grande capolavoro: sono bastati 80 minuti a Ermanno Olmi per condensare tutto quel che c'è da dire sulla follia della guerra e sulla sua essenza, ossia che l'umanità si divide tra chi tira i fili, organizza questo tragico gioco al massacro per dirimere questioni che non è in grado o non vuole risolvere altrimenti, e chi la fa o la subisce, combattenti e popolazione civile. In posizione intermedia, ma complice dei primi, l'apparato, per definizione idiota e volutamente cieco, che si presta, ossia i militari professionisti. Lo fa attraverso una trama pressoché inesistente: siamo alla vigilia di Caporetto, nell'ottobre del 1917, sull'Altopiano di Asiago, in un avamposto d'alta quota dove giungono un maggiore e un giovane tenente per portare al reparto che vi è sepolto, attanagliato dal gelo e sommerso da metri di neve, conducendovi una vita miserabile e piena d'angoscia a ridosso della linea austriaca, l'ordine demenziale per un'operazione escogitata a tavolino dai felloni dello stato maggiore, tanto suicida quanto vana, da portare a termine pur essendo al corrente dell' imminente ordine di ritirata - una situazione simile l'aveva vissuta mio padre in riva al Don, in Russia, nell'inverno del 1942, sfuggendo per un pelo alla "sacca di Stalingrado" -. Il racconto è quello degli avvenimenti della notte trascorsa a tentare l'azione fino al cannoneggiamento della postazione e alla ritirata alle prime luci dell'alba, lasciando alle spalle una scia di morti inutili, attraverso una fotografia strepitosa, curata dal figlio del regista, Fabio, giocata su un chiaroscuro che sfuma talvolta in un accenno di colore livido, dove Olmi si muove a suo agio nella descrizione meticolosa degli interni, miserevoli, del capanno dove si svolge da mesi la vita di stenti e di paura di questi uomini disperati, distrutti, delusi, ingannati, usati, ma sempre dignitosi e soprattutto veri, che parlano i loro dialetti riuscendo a capirsi comunque perché uguali di fronte alla tragedia, il tutto i contrasto con degli esterni fiabeschi, con i boschi che sono una cosa viva, in quel regno di morte, popolati da animali, coi loro rumori che sembrano respiri. Emilio Lussu e Mario Rigoni Stern, il cantore dell'Altipiano, seppur non citati espressamente sono lì, nell'aria. I volti scavati di quegli uomini (bravissimi tutti gli interpreti, professionisti e no) dicono tutto, più ancora delle loro scarne ma precise parole, che individuano con precisione i responsabili di quella bestialità: il nemico non è quello che subisce la stessa sorte malvagia e soffre nella trincea nemica, ma chi ha mandato il proprio popolo al massacro, illudendolo, ingannandolo, riempiendolo di retorica tronfia e ipocrita, e minacciando con la ritorsione violenta chi trasgredisse gli "ordini superiori", ossia i veri traditori, quelli che hanno in mano le leve del potere. Questa l'unica, eterna verità della guerra, qualsiasi guerra. Ma ancor di più per quella Guerra, non a caso definita Grande, la più bestiale e inutile di tutte quelle conosciute finora. La memoria è necessaria, tantopiù in un Paese come il nostro che ne fa volentieri a meno: Olmi ha tramandato quella di suo padre, basandosi sui suoi racconti (la vicenda è assolutamente vera) e l'ha trasformata in immagini evocative e scarne, essenziali parole unite a suoni evocativi, quelli della natura e quelli della tromba malinconica e a tratti lancinante di Paolo Fresu. Un gioiello che, come la memoria che trasmette, andrebbe preservato, valorizzato e mostrato al grande pubblico, magari in televisione, visto che è RAI-Cinema a comprodurre la pellicola, l'anno prossimo, al posto di scellerate e odiose celebrazioni del centenario dell'entrata nel conflitto da parte dell'Italia e di una vittoria che si è dimostrata una tragedia per tutti.
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