"Viaggio sola" di Maria Sole Tognazzi. Com Margherita Buy, Stefano Accorsi, Fabrizia Sacchi, Gianmarco Tognazzi, Alessandra Barela, Lesley Manville. Italia 2012 ★★★★
Che bella sorpresa! Dando un'occhiata alla trama e al cast, avevo temuto il solito film italiota, anzi: romanesco e generazionale sugli Splendidi Quarantenni figli degli anni Ottanta, che all'improvviso e senza alcun motivo si mettono a ballare come a una festicciola adolescenziale del sabato pomeriggio degli anni Sessanta; una via di mezzo tra Muccino e Ozpetek, e invece mi sono trovato davanti una pellicola solida, intelligente, garbata, che parla della solitudine come una scelta da parte di una donna di mezza età pienamente consapevole di quello che fa e delle proprie decisioni, senza per questo non vederne i limiti nelle relazioni con le persona a cui è legata, da vincoli parentali come sentimentali ma senza piangersi addosso. Qualcuno ha tirato in ballo similitudini con "Lost in Translation" di Sofia Coppola, anch'essa figlia d'arte come la più giovane dei discendenti del grande, indimenticabile Ugo Tognazzi, forse per l'ambientazione in un "non luogo" come un albergo di una città straniera e per il tema della solitudine, che era disadattamento e sofferenza. Qui gli alberghi sono tanti e pure dichiarati con tanto di didascalia, neutralizzando fin dal principio l'invadenza della pubblicità occulta che abitualmente infesta le pellicole nostrane rendendola esplicita, perché Irene, una donna di mezza età interpretata con estrema efficacia e naturalezza da una Margherita Buy all'altezza della situazione, è ispettrice di alberghi e cinque stelle e viaggia per il mondo visitandoli in incognito come "ospite a sorpresa". Professionale, pignola ma dotata di buon senso e umanità non perde di vista la realtà né i propri principi e valori, specie dopo aver conosciuto un'altra donna che viaggia da sola, un'antropologa inglese splendidamente interpretata da Lesley Manville, un'apparizione fulminante, con cui entra in sintonia e in confidenza uscendo per una volta dall'anonimato e dalla algida sterilità a cui la costringe il proprio lavoro e che muore all'improvviso proprio mentre entrambe decidono di lasciare l'albergo di lusso in cui si trovano per "contaminarsi" in una bettola di Kreuzberg, il quartiere "turco" per eccellenza di Berlino. Per il resto Irene si tiene stretta il suo nomadismo con tutto quel che comporta: sentirsi estranea a casa sua, che peraltro trascura; legata da un rapporto di profonda amicizia e complicità con il suo ex fidanzato, a sua volta alle prese con una paternità di cui non è per niente convinto, incompresa ma in fondo invidiata dalla sorella musicista che la vorrebbe sistemata, mentre lei stessa vive una situazione famigliare normalmente delirante e infelice di cui stenta a rendersi conto. Il tutto è raccontato senza alzare i toni, ambientato in maniera credibile, con una bella fotografia e dialoghi calibrati e una felice scelta degli interpreti; la Buy è perfetta nel ruolo senza dover accentuare il lato nevrotico del personaggio, perfino Accorsi, pur sempre alle prese con un personaggio indeciso a tutto, sembra essere uscito dall'eterna post-adolescenza e ha perso in parte l'espressione da "besugo" che gli era propria, bravi e mai sopra le righe tutti gli altri. Complimenti.
Che bella sorpresa! Dando un'occhiata alla trama e al cast, avevo temuto il solito film italiota, anzi: romanesco e generazionale sugli Splendidi Quarantenni figli degli anni Ottanta, che all'improvviso e senza alcun motivo si mettono a ballare come a una festicciola adolescenziale del sabato pomeriggio degli anni Sessanta; una via di mezzo tra Muccino e Ozpetek, e invece mi sono trovato davanti una pellicola solida, intelligente, garbata, che parla della solitudine come una scelta da parte di una donna di mezza età pienamente consapevole di quello che fa e delle proprie decisioni, senza per questo non vederne i limiti nelle relazioni con le persona a cui è legata, da vincoli parentali come sentimentali ma senza piangersi addosso. Qualcuno ha tirato in ballo similitudini con "Lost in Translation" di Sofia Coppola, anch'essa figlia d'arte come la più giovane dei discendenti del grande, indimenticabile Ugo Tognazzi, forse per l'ambientazione in un "non luogo" come un albergo di una città straniera e per il tema della solitudine, che era disadattamento e sofferenza. Qui gli alberghi sono tanti e pure dichiarati con tanto di didascalia, neutralizzando fin dal principio l'invadenza della pubblicità occulta che abitualmente infesta le pellicole nostrane rendendola esplicita, perché Irene, una donna di mezza età interpretata con estrema efficacia e naturalezza da una Margherita Buy all'altezza della situazione, è ispettrice di alberghi e cinque stelle e viaggia per il mondo visitandoli in incognito come "ospite a sorpresa". Professionale, pignola ma dotata di buon senso e umanità non perde di vista la realtà né i propri principi e valori, specie dopo aver conosciuto un'altra donna che viaggia da sola, un'antropologa inglese splendidamente interpretata da Lesley Manville, un'apparizione fulminante, con cui entra in sintonia e in confidenza uscendo per una volta dall'anonimato e dalla algida sterilità a cui la costringe il proprio lavoro e che muore all'improvviso proprio mentre entrambe decidono di lasciare l'albergo di lusso in cui si trovano per "contaminarsi" in una bettola di Kreuzberg, il quartiere "turco" per eccellenza di Berlino. Per il resto Irene si tiene stretta il suo nomadismo con tutto quel che comporta: sentirsi estranea a casa sua, che peraltro trascura; legata da un rapporto di profonda amicizia e complicità con il suo ex fidanzato, a sua volta alle prese con una paternità di cui non è per niente convinto, incompresa ma in fondo invidiata dalla sorella musicista che la vorrebbe sistemata, mentre lei stessa vive una situazione famigliare normalmente delirante e infelice di cui stenta a rendersi conto. Il tutto è raccontato senza alzare i toni, ambientato in maniera credibile, con una bella fotografia e dialoghi calibrati e una felice scelta degli interpreti; la Buy è perfetta nel ruolo senza dover accentuare il lato nevrotico del personaggio, perfino Accorsi, pur sempre alle prese con un personaggio indeciso a tutto, sembra essere uscito dall'eterna post-adolescenza e ha perso in parte l'espressione da "besugo" che gli era propria, bravi e mai sopra le righe tutti gli altri. Complimenti.
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