FLORIANÓPLIS -
Al mio arrivo, ieri pomeriggio in bus, con due ore di ritardo, la
nebbia e una pioviggine autunnale, dopo un primo tentartivo a vuoto di
fermarmi qui giovedì scorso, ho pensato che in questo posto non tirasse
aria per me. Impressione confermata da una perlustrazione a fondo del
centro cittadino, alla vana ricerca di cibo: aperte solo una pizzeria,
che per quanto dotata di forno a legna mi sono ben guardato dal prendere
in considerazione (già i brasiliani, come i greci, cucinano in modo
sommario le cose loro, figurarsi quelle d'importazione) e una cachaçería-birreria, con tanto di "buttadentro" con auricolare e pronti alla perquisizione, da cui proveniva un ossessivo drum & bass alla brasiliana, insomma una abberrazione techno in salsa latina che mi ha fatto passare qualsiasi velleità. Rimaneva la lanchonete
del terminal dei bus: questo alle 9 di una domenica sera tardo
primaverile. Nella capitale di Santa Catarina, un altro Stato di quelli
ricchi ed europei del Paese. Probabilmente in un villaggio
della provincia norvegese la vita ieri a quell'ora ferveva, al
confronto. Si indovinava però già che si tratta di una città benestante,
anche rispetto a Porto Alegre, a conferma immediata l'illuminazione
stradale e l'assenza quasi totale di senza tetto. Impressione confermata
oggi, alla luce del sole, che finalmente è tornato a fare capolino da
queste parti. La città è divisa in due parti, collegate da un ponte
abbastanza spettacolare: la parte storica e amminsitrativa sull'isola di
Santa Catarina, quella commerciale e industriale sulla terraferma.
Anche qui un gruppo di case post coloniali e neoclassiche attorno al Mercado Público, e all'edificio della vecchia alfandega
(dogana), come a Porto Alegre. Qui la popolazione è d'origine più
tedesca che italiana, per cui a maggior ragione mi è saltata all'occhio
la moda dello zatterone che letteralmente impazza. Intendo dire
che la popolazione femminile è di altezza superiore alla media delle
brasiliane, che già non sono generalmente basse, e allora che necessità
c'è di vacillare sui trampoli come neanche Freddy Mercury ai tempi d'oro
o i repellenti Kiss? Altro capo d'abbigliaimento che va per la maggiore
è il fuseaux, ovviamente di puro tessuto sintetico (il Brasile
ha auto la conferma in queste settimane di giacere sopra un mare
di petrolio, per cui d'ora in poi basta cotone!), che sono riuscito a
vedere anche indossato da matrone con deretani e cosce alla Botero, più
ancora che rubensiani. Immaginatevi delle lottatrici di
sumo impacchettate in tutine viniliche aderenti bianche, lilla o
fucsia, in qualche caso con scaldamuscoli annessi. Per quanto,
fortunatamente, predomini il nero, che comunque con questi climi non
mi pare un'idea geniale. Forse lo fanno per dimagrire... Un altro
mistero a proposito delle donne brasiliane sono i reggiseni. Sembrano
quelli corrazzati delle nostre nonne o mamme, che andavano negli anni
Cinquanta e prima, a triplo strato protettivo, perché sia mai che si
intravveda, uno scandalo! la protuberanza di un capezzolo. Parlo sia
dell'indumento di lingerie sia di quello da bagno (il topless in Brasile è tabù
salvo per i travestiti operati, a tutta evidenza). Non è la prima volta
che vengo da queste parti e mi ha sempre stupito questo soprassalto di pruderie
in un Paese che vive il sesso come un gioco (troppe volte a sprezzo del
pericolo, in verità, vedi diffusione dell'HIV) e che ha inventato il filo interdentale
(oltre alle ributtanti infradito) e dove non desta grande scandalo
girare con le pudenda al vento. Un Paese basato sul culo, ad esempio nel
calcio, sport in cui sono convinti di essere i padreterni senza
riconoscere l'assistenza della buona sorte sempre al loro lato, casualmente,
e di relativi interessi per miliardi di dollaroni. Ho avuto modo di
dare un'occhiata a una libreria, e oltre al predominio dei settori
dedicati a esoterismo, auto-aiuto, medicina integrale, religioni e
dotrine, spiritismo, new-age, scontato nel Paese che ha dato i natali a
Paulo Colelho e che ha sentito il bisogno di sincretizzare una religione
già di per sé allucinogena come il cattolicesimo con le credenze
spiritiche africane, notavo la profusione di libri sulla gastronomia,
considerata la banalità del cibo quotidiano, altra moda d'importazione
nordamericana e nordeuropea. Onnipresente, come del resto in Germania,
in Scandinavia e in Inghilterra, da dove proviene, il nuovo profeta
della tavola, Jamie Oliver, con il suo hit mondiale La mia Italia. Ripeto: questo irridente cialtrone è un britannico e parla e scrive di cucina, spaccia
ricette. Italiane. Provinciali come siamo, non metto in dubbio che
presto verrà lanciato alla grande anche da noi (ammesso che non sia già
avvenuto) e avrà il meritato riconoscimento, con tante comparsate
televisive a reti unificate RAI-SETe gettoni di presenza, ricchi premi e
cotillons. Promettente un altro titolo che ho visto campeggiare, di tale Simon Woods, probabilmente uno yankee, stavolta: Io non mi intendo molto di vino, ma so quel che mi piace. Programmatico, non c'è che dire. Siccome però Floripa (così
la chiamano i locali, confidenzialmente) ce l'ha un po' su con me,
anche con la città in piena attività è stato problematico trovare un
posto in cui ingollare qualcosa a pranzo, per via di un paio di
congressi che hanno, come ovunque, la precipua funzione di riempire
all'inverosimile alberghi e ristoranti in un periodo di stanca di gente
con un cartellino appeso al collo, per cui, grazie all'efficientissimo
servizio pubblico, mi sono dislocato verso la costa a Sud-Est
dell'isola, decantato dalla solita Lonely Planet come
alternativa alle spiagge brulicanti (?) e troppo urbanizzate del Nord e a
quelle dalle onde troppo vivaci meta dei surfisti più selvaggi
(tatuaggio, bandana, bragha a mezz'asta e iPod incorporato): "montagne
che si tuffano nel mare", "paeseggi spettacolosi". A prescindere che in
tutta l'isola non esiste un rilievo che superi i trecento metri
d'altezza, arrivo dunque a Pântano do Sul. I miei ricordi sono corsi a
Baia Domizia, tardi anni Settanta, metà maggio. Tre chilometri di
spiaggia deserta, battuta dal vento. Mare livido in una giornata di
sole. Onde poco rassicuranti nonostante si tratti di una baia protetta
(è un borgo di pescatori originari delle Azzorre, questa l'unica vera
attrattiva: sanno come si cucina il pesce, da bravi portoghesi, e si
magia bene!) e sicura presenza di correnti inssidiose. Sulla siaggia,
una decina di persone che camminano avanti e indietro, decisamente
svaccate, qualcuno pesca con la canna dalla riva, una muta di cani,
squadriglie da combattimento di gabbiani ma anche di una specie di
cornacchioni neri alquanto raccapriccianti. Poche pousadas (pensioni) lontane
anche un paio di chilometri dal "centro" (una fermata di bus e un
piccolo supermercato), quasi tutte ancora fuori esercizio, e 7-8
baracchini sulla spiaggia. Fine delle trasimissioni. Accennavo prima a
un Paese spesso "basato sul culo" e che, al di là della indubbia
simpatia e ospitalità dei suoi abitanti, e della miscellanea etnica che
sono le grandi qualità positive, gode di una spropositata buona stampa.
Come i francesi, i brasiliani sanno vendere bene il loro prodotto, che
siano le bellezze naturale (spesso esagerate) l'allegria (spesso finta)
la musica (spesso pallosa e di basso livello) il calcio (spesso palloni
gonfiati) le belle donne (spesso ritoccate, e non così belle, ancora più
spesso infelici) Lula (un inconcludente, probabilmente un inetto) e a
loro vantaggio c'è che non sono altrettanto odiosi e supponenti (come
invece riescono a rivelarsi i miei amici e parenti argentini). E non
credo che questa benevolenza a tutti i costi sia una cosa positiva. A
proposito, c'è qualcuno che vuole una Lonely Planet quasi intonsa?
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