lunedì 19 novembre 2007

Il "culo" del Brasile


FLORIANÓPLIS - Al mio arrivo, ieri pomeriggio in bus, con due ore di ritardo, la nebbia e una pioviggine autunnale, dopo un primo tentartivo a vuoto di fermarmi qui giovedì scorso, ho pensato che in questo posto non tirasse aria per me. Impressione confermata da una perlustrazione a fondo del centro cittadino, alla vana ricerca di cibo: aperte solo una pizzeria, che per quanto dotata di forno a legna mi sono ben guardato dal prendere in considerazione (già i brasiliani, come i greci, cucinano in modo sommario le cose loro, figurarsi quelle d'importazione) e una cachaçería-birreria, con tanto di "buttadentro" con auricolare e pronti alla perquisizione, da cui proveniva un ossessivo drum & bass alla brasiliana, insomma una abberrazione techno in salsa latina che mi ha fatto passare qualsiasi velleità. Rimaneva la lanchonete del terminal dei bus: questo alle 9 di una domenica sera tardo primaverile. Nella capitale di Santa Catarina, un altro Stato di quelli ricchi ed europei del Paese. Probabilmente in un villaggio della provincia norvegese la vita ieri a quell'ora ferveva, al confronto. Si indovinava però già che si tratta di una città benestante, anche rispetto a Porto Alegre, a conferma immediata l'illuminazione stradale e l'assenza quasi totale di senza tetto. Impressione confermata oggi, alla luce del sole, che finalmente è tornato a fare capolino da queste parti. La città è divisa in due parti, collegate da un ponte abbastanza spettacolare: la parte storica e amminsitrativa sull'isola di Santa Catarina, quella commerciale e industriale sulla terraferma. Anche qui un gruppo di case post coloniali e neoclassiche attorno al Mercado Público, e all'edificio della vecchia alfandega (dogana), come a Porto Alegre. Qui la popolazione è d'origine più tedesca che italiana, per cui a maggior ragione mi è saltata all'occhio la moda dello zatterone che letteralmente impazza. Intendo dire che la popolazione femminile è di altezza superiore alla media delle brasiliane, che già non sono generalmente basse, e allora che necessità c'è di vacillare sui trampoli come neanche Freddy Mercury ai tempi d'oro o i repellenti Kiss? Altro capo d'abbigliaimento che va per la maggiore è il fuseaux, ovviamente di puro tessuto sintetico (il Brasile ha auto la conferma in queste settimane di giacere sopra un mare di petrolio, per cui d'ora in poi basta cotone!), che sono riuscito a vedere anche indossato da matrone con deretani e cosce alla Botero, più ancora che rubensiani. Immaginatevi delle lottatrici di sumo impacchettate in tutine viniliche aderenti bianche, lilla o fucsia, in qualche caso con scaldamuscoli annessi. Per quanto, fortunatamente, predomini il nero, che comunque con questi climi non mi pare un'idea geniale. Forse lo fanno per dimagrire... Un altro mistero a proposito delle donne brasiliane sono i reggiseni. Sembrano quelli corrazzati delle nostre nonne o mamme, che andavano negli anni Cinquanta e prima, a triplo strato protettivo, perché sia mai che si intravveda, uno scandalo! la protuberanza di un capezzolo. Parlo sia dell'indumento di lingerie sia di quello da bagno (il topless in Brasile è tabù salvo per i travestiti operati, a tutta evidenza). Non è la prima volta che vengo da queste parti e mi ha sempre stupito questo soprassalto di pruderie in un Paese che vive il sesso come un gioco (troppe volte a sprezzo del pericolo, in verità, vedi diffusione dell'HIV) e che ha inventato il filo interdentale (oltre alle ributtanti infradito) e dove non desta grande scandalo girare con le pudenda al vento. Un Paese basato sul culo, ad esempio nel calcio, sport in cui sono convinti di essere i padreterni senza riconoscere l'assistenza della buona sorte sempre al loro lato, casualmente, e di relativi interessi per miliardi di dollaroni. Ho avuto modo di dare un'occhiata a una libreria, e oltre al predominio dei settori dedicati a esoterismo, auto-aiuto, medicina integrale, religioni e dotrine, spiritismo, new-age, scontato nel Paese che ha dato i natali a Paulo Colelho e che ha sentito il bisogno di sincretizzare una religione già di per sé allucinogena come il cattolicesimo con le credenze spiritiche africane, notavo la profusione di libri sulla gastronomia, considerata la banalità del cibo quotidiano, altra moda d'importazione nordamericana e nordeuropea. Onnipresente, come del resto in Germania, in Scandinavia e in Inghilterra, da dove proviene, il nuovo profeta della tavola, Jamie Oliver, con il suo hit mondiale La mia Italia. Ripeto: questo irridente cialtrone è un britannico e parla e scrive di cucina, spaccia ricette. Italiane. Provinciali come siamo, non metto in dubbio che presto verrà lanciato alla grande anche da noi (ammesso che non sia già avvenuto) e avrà il meritato riconoscimento, con tante comparsate televisive a reti unificate RAI-SETe gettoni di presenza, ricchi premi e cotillons. Promettente un altro titolo che ho visto campeggiare, di tale Simon Woods, probabilmente uno yankee, stavolta: Io non mi intendo molto di vino, ma so quel che mi piace. Programmatico, non c'è che dire. Siccome però Floripa (così la chiamano i locali, confidenzialmente) ce l'ha un po' su con me, anche con la città in piena attività è stato problematico trovare un posto in cui ingollare qualcosa a pranzo, per via di un paio di congressi che hanno, come ovunque, la precipua funzione di riempire all'inverosimile alberghi e ristoranti in un periodo di stanca di gente con un cartellino appeso al collo, per cui, grazie all'efficientissimo servizio pubblico, mi sono dislocato verso la costa a Sud-Est dell'isola, decantato dalla solita Lonely Planet come alternativa alle spiagge brulicanti (?) e troppo urbanizzate del Nord e a quelle dalle onde troppo vivaci meta dei surfisti più selvaggi (tatuaggio, bandana, bragha a mezz'asta e iPod incorporato): "montagne che si tuffano nel mare", "paeseggi spettacolosi". A prescindere che in tutta l'isola non esiste un rilievo che superi i trecento metri d'altezza, arrivo dunque a Pântano do Sul. I miei ricordi sono corsi a Baia Domizia, tardi anni Settanta, metà maggio. Tre chilometri di spiaggia deserta, battuta dal vento. Mare livido in una giornata di sole. Onde poco rassicuranti nonostante si tratti di una baia protetta (è un borgo di pescatori originari delle Azzorre, questa l'unica vera attrattiva: sanno come si cucina il pesce, da bravi portoghesi, e si magia bene!) e sicura presenza di correnti inssidiose. Sulla siaggia, una decina di persone che camminano avanti e indietro, decisamente svaccate, qualcuno pesca con la canna dalla riva, una muta di cani, squadriglie da combattimento di gabbiani ma anche di una specie di cornacchioni neri alquanto raccapriccianti. Poche pousadas (pensioni) lontane anche un paio di chilometri dal "centro" (una fermata di bus e un piccolo supermercato), quasi tutte ancora fuori esercizio, e 7-8 baracchini sulla spiaggia. Fine delle trasimissioni. Accennavo prima a un Paese spesso "basato sul culo" e che, al di là della indubbia simpatia e ospitalità dei suoi abitanti, e della miscellanea etnica che sono le grandi qualità positive, gode di una spropositata buona stampa. Come i francesi, i brasiliani sanno vendere bene il loro prodotto, che siano le bellezze naturale (spesso esagerate) l'allegria (spesso finta) la musica (spesso pallosa e di basso livello) il calcio (spesso palloni gonfiati) le belle donne (spesso ritoccate, e non così belle, ancora più spesso infelici) Lula (un inconcludente, probabilmente un inetto) e a loro vantaggio c'è che non sono altrettanto odiosi e supponenti (come invece riescono a rivelarsi i miei amici e parenti argentini). E non credo che questa benevolenza a tutti i costi sia una cosa positiva. A proposito, c'è qualcuno che vuole una Lonely Planet quasi intonsa?

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