lunedì 5 novembre 2007
Córdoba, la dotta rivale
CÓRDOBA - Córdoba de la Nueva Andalucía: questo il nome che le diede il suo fondatore, il sivigliano Jeronimo Luís de Cabrera, il 6 luglio del 1573, in onore della città di origine della moglie. Ed era andato oltre le disposizioni del viceré, che gli aveva ordinato di fondare una nuova città nella valle di Salta, sulla strada che porta a Potosí (nell'attuale Bolivia, ai tempi la città più ricca d'America per via delle sue miniere) e da lí all'Alto Perú. Scese invece fino a qui, appena sotto le sierras e dove inizia la pampa umida vera e propria, quella più fertile e al contempo più adatta al pascolo e all'allevamento estensivo. E' dunque una delle città piú antiche dell'Argentina, e conserva ancora parecchi aspetti del suo carattere coloniale. Oggi è la seconda città del Paese, con circa 1.300.000 abitanti, 2 milioni considerando il conurbano. Produttiva, ricca, cattolica ma anche tradizionalmente radicale, orgogliosa, contende a Buenos Aires il primato culturale grazie alle sue sette università, tutte d'eccellenza (per questo è chiamata "la Dotta", come Bologna), e ne è il contraltare un po' come era Milano rispetto a Roma, prima di diventare un non-luogo berlusconizzato, di plastica, ad uso e consumo dei modaioli e dei bocconiani, un outlet, un con-centrato commerciale di idiozia e masochismo, i cui abitanti odiano la città e sé stessi. Qui, nell'altro emisfero, i francescani, che fino al termine del 16º secolo avevano egemonizzato la cura delle anime, dovettero compartire l'opera di evangelizzazione con i gesuiti, i mercedari (ordine devoto alla Vergine de la Merced, non un ordine fondato da Padre Pio di frati devoti alle Mercedes) e in seguito i domenicani. Tutti costoro hanno lasciato cospicue tracce con chiese e conventi, ma soprattutto i gesuiti, che oltre a fondare nel 1614 la seconda università del Sud America dopo il collegio di San Marcos a Lima, hanno lasciato in eredità la Manzana (ossia isolato) Jesuítica, o de las Luces, dichiarata nel 2000 dall'UNESCO Patrimonio Mondiale dell'Umanità, insieme a cinque estancias gesuitiche sparse nella Provinca, le quali controllavano e amministravano la maggior parte del territorio e naturalmente le terre migliori. Còrdoba, con questa sua quintessenza tra il dottorale e il mistico, diventa man mano il centro di una regione vastissima e ricca. Era, allora, la capitale della Gran Provincia Jesuítica del Paraguay, una suddivisione amministrativa interna all'ordine e che nulla aveva a che fare con la suddivisione terriitoriale del Virreynato del Perù. Punto di svolta il 1767, anno dell'espulsione dei gesuiti dai territori americani, dopodiché il governatore-intendente, marchese di Sobremonte, anche lui sivigliano come il fondatore Cabrera, diede alla Provincia ma soprattutto alla città, arginandone il fiume (Suquia, detto anche Rio Primero), provvedendo alle canalizzazioni, creando la rete viaria e costruendo un gran numero di edifici, quell'impulso e quella febbre operativa che non sembrano ancora essersi fermati. Orgogliosi, dicevo, i cordobesi, che si piccano di parlare il miglior castigliano dell'Argentina, anche se con le loro vocali allungate all'infinito vanno sfociando nella cantilena quanto e più dei porteños, che si esprimono in effetti con un gergo italianizzante che ha vocaboli e modi di dire propri, il "lunfardo". Alla vocazione umanistica dei locali, dunque, si è aggiunta quella tecnica, che definisce anch'essa l'anima attuale della popolazione. E mentre Buenos Aires grazie al porto e all'Oceano ha sempre annodato i fili dei suoi vincoli europei, così Córdoba si è proiettata verso il cuore del Continente, e si può dire che attraverso essa l'elemento americano ha fatto irruzione nella prospettiva argentina. Si dice della città e dei suoi dintorni che si tratti di "regione limitrofa e litigiosa", e probabilmente si svolge in essa il continuo conflitto tra sierras e pampas, e come risultato di questa contrapposizione propone spesso valori alternativi quando non antagonisti rispetto alla capitale. L'inquietudine e la tendenza a mettersi in discussione identificano la città ancor prima che l'indipendenza del Paese fosse cosa compiuta e la caratterizzano ancora adesso. Oggi si presenta come una città vivace, giovane, produttiva, in cui si vive bene e a prezzi inferiori rispetto alla capitale, un cantere incessante: nuove costruzioni ma anche interessanti ristrutturazioni, come la riconversione del centralissimo carcere femminile del Buen Pastor ora trasformato in spazio espositivo con soluzioni architettoniche e di arredo urbano interessanti, e non il consueto shopping centre al posto dei vecchi ambienti. Una estesa zona pedonale in buona parte alberata, il quartiere di Nueva Córdoba che pullula di giovani, in direzione dell'estesissima e ben organizzata città universitaria, ampli e ben tenuti parchi, il quartiere popolare di Guëmes, cha ha mantenuto le proprie case basse in stile coloniale, con tanto di patios, e che ora pullula di antiquari e artigiani. Notevole la Manzana Gesuitica, e molto bello il Colegio-Convicto de Monserrat, tuttora operante, con una parte a museo (vecchie strumentazioni scientifiche), e i vecchi cortili porticati molto belli e ben tenuti, mentre a fianco promette bene la visita alla biblioteca della adiacente Universidad Nacional. Specialità della città, i panini di lomito, ovvero bistecche di filetto tenerissimo, e il Fernet (viene preso in considerazione solo l'autentico Branca, quello che "digestimola") allungato con Coca Cola con proporzioni diverse a secondo del grado di mal di testa che si è in grado di sopportare al risveglio. I cordobesi ne vanno pazzi, da sempre. E ora sono particolarmente soddisfatti che la moda abbia preso piede anche nella capitale (ero rimasto inorridito, infatti, alla sola idea della insana mistura), dove di solito passano per essere degli zotici. Ammetto che non ho resistito e ho assaggiato l'inverecondo intruglio. Devo ammettere che la Coca Cola, così corretta, ma a piccole dosi, diventa meno allappantemente dolce, e quasi bevibile. Per ora sono vivo. Domani potrò informarvi sugli effetti indesiderati.
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