"Il Club" (El Club) di Pablo Larraín. Con Alfredo Castro, Roberto Farías, Antonia Zegers, Alejandro Goic, Francisco Reyes, Alejandro Sieveking, José Soza, Jaime Vadell, Marcelo Alonso. Cile 2015 ★★★★★
Grazie ai "ripescaggi" estivi, ho evitato di perdermi una delle migliori pellicole dell'intera stagione, presentata l'anno passato alla Berlinale, dove ha conquistato l'Orso d'Argento e il Gran Premio della Giuria: avrebbe meritato di più. Un film denso, pieno di significato, per nulla facile, che mette di fronte al male e per farlo non ha bisogno di scene eclatanti: il male, la violenza, il degrado morale stanno tutti negli sguardi, nelle movenze e nelle parole di quattro preti che, allontanati dalle loro funzioni, sono stati relegati dalla Chiesa in una casa dove vivono isolati, affidati alle cure di una suora, in un paesino perso chissà dove sulla costa del Pacifico in Cile. Segregati; non giudicati ché il giudizio, nella visione cristiana, e cattolica in particolare, spetta a Colui in cui il credente ha fede, ma non si sa se esista. Esistono invece i comportamenti reiterati dei quattro sacerdoti, che vanno dalla pederastia, alla tratta di esseri umani alla complicità col regime golpista, che sarebbero stati dei crimini gravissimi se non avessero vestito l'abito talare. La loro esistenza tranquilla, trascorsa tra l'orto, la preghiera, il reality in TV, l'allevamento di un levriero da corsa con cui rimpinguano le loro casse, anche se maneggiare denaro sarebbe loro interdetto, viene sconvolta dall'arrivo di un nuovo inquilino, pedofilo indefesso, accompagnato però dalla sua nemesi, di nome Sandokan, di cui aveva abusato fin dall'infanzia, un uomo affetto da turbe psichiche che si aggira nel paese e intorno alla casa-rifugio da un lato, innocentemente, snocciolando tutti i fatti che gli sono capitati, e che dall'altro non riesce a stare lontano dai preti e vorrebbe essere accolto nel "Club" assieme al nuovo arrivato, il quale non regge la situazione e preferisce suicidarsi, con una pistola fornita dall'ex cappellano del regime militare. A indagare giunge un giovane sacerdote, un gesuita rigoroso quanto sottile e intelligente, che sarebbe intenzionato a chiudere la "casa" e fare in modo che i quattro si rendessero almeno conto delle loro colpe, ma si trova di fronte a un muro di omertà fino a quando uno dei quattro, apparentemente in preda all'Alzheimer, non si lascia scappare una traccia attraverso la quale il gesuita ricostruisce i fatti: in effetti si è trattato di un suicidio ma, attraverso Sandokan, riesce a inchiodare tutti e quattro alle loro responsabilità: sarà la vittima stessa a diventare il mezzo per la punizione dei loro comportamenti peccaminosi o criminosi a seconda dei punti di vista. Non ancora quarantenne, Larraín, regista e sceneggiatore cileno, che qui oltre all'immancabile, nei suoi film, Alfredo Castro, un colosso, presenta anche la moglie Antonia Zegers nei panni della suora-governante, si conferma come uno dei miglior talenti in circolazione e questo è forse il suo film migliore finora, dopo Tony Manero, Post Mortem e No - I giorni dell'arcobaleno (il suo primo film, Fuga, non è uscito in Italia), un crescendo nella continuità. In soli 98' Larraín è riuscito a concentrare materiale di riflessione, qualità e intensità come forse solo nella migliore produzione russa (di cui sono richiamati anche alcuni aspetti estetici), ma in modo assai meno prolisso. Un film importante che sarebbe un delitto perdere.
Grazie ai "ripescaggi" estivi, ho evitato di perdermi una delle migliori pellicole dell'intera stagione, presentata l'anno passato alla Berlinale, dove ha conquistato l'Orso d'Argento e il Gran Premio della Giuria: avrebbe meritato di più. Un film denso, pieno di significato, per nulla facile, che mette di fronte al male e per farlo non ha bisogno di scene eclatanti: il male, la violenza, il degrado morale stanno tutti negli sguardi, nelle movenze e nelle parole di quattro preti che, allontanati dalle loro funzioni, sono stati relegati dalla Chiesa in una casa dove vivono isolati, affidati alle cure di una suora, in un paesino perso chissà dove sulla costa del Pacifico in Cile. Segregati; non giudicati ché il giudizio, nella visione cristiana, e cattolica in particolare, spetta a Colui in cui il credente ha fede, ma non si sa se esista. Esistono invece i comportamenti reiterati dei quattro sacerdoti, che vanno dalla pederastia, alla tratta di esseri umani alla complicità col regime golpista, che sarebbero stati dei crimini gravissimi se non avessero vestito l'abito talare. La loro esistenza tranquilla, trascorsa tra l'orto, la preghiera, il reality in TV, l'allevamento di un levriero da corsa con cui rimpinguano le loro casse, anche se maneggiare denaro sarebbe loro interdetto, viene sconvolta dall'arrivo di un nuovo inquilino, pedofilo indefesso, accompagnato però dalla sua nemesi, di nome Sandokan, di cui aveva abusato fin dall'infanzia, un uomo affetto da turbe psichiche che si aggira nel paese e intorno alla casa-rifugio da un lato, innocentemente, snocciolando tutti i fatti che gli sono capitati, e che dall'altro non riesce a stare lontano dai preti e vorrebbe essere accolto nel "Club" assieme al nuovo arrivato, il quale non regge la situazione e preferisce suicidarsi, con una pistola fornita dall'ex cappellano del regime militare. A indagare giunge un giovane sacerdote, un gesuita rigoroso quanto sottile e intelligente, che sarebbe intenzionato a chiudere la "casa" e fare in modo che i quattro si rendessero almeno conto delle loro colpe, ma si trova di fronte a un muro di omertà fino a quando uno dei quattro, apparentemente in preda all'Alzheimer, non si lascia scappare una traccia attraverso la quale il gesuita ricostruisce i fatti: in effetti si è trattato di un suicidio ma, attraverso Sandokan, riesce a inchiodare tutti e quattro alle loro responsabilità: sarà la vittima stessa a diventare il mezzo per la punizione dei loro comportamenti peccaminosi o criminosi a seconda dei punti di vista. Non ancora quarantenne, Larraín, regista e sceneggiatore cileno, che qui oltre all'immancabile, nei suoi film, Alfredo Castro, un colosso, presenta anche la moglie Antonia Zegers nei panni della suora-governante, si conferma come uno dei miglior talenti in circolazione e questo è forse il suo film migliore finora, dopo Tony Manero, Post Mortem e No - I giorni dell'arcobaleno (il suo primo film, Fuga, non è uscito in Italia), un crescendo nella continuità. In soli 98' Larraín è riuscito a concentrare materiale di riflessione, qualità e intensità come forse solo nella migliore produzione russa (di cui sono richiamati anche alcuni aspetti estetici), ma in modo assai meno prolisso. Un film importante che sarebbe un delitto perdere.
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