"Il grande quaderno" (Le grand cahier) di Janos Szasz. Con Andras e Lászlo Gyémant, Piroska Molnár, Ulrich Matthes. Ulrich Thomsen, Gyöngyvér Bognár e altri. Germania, Ungheria, Australia, Francia 2013 ★★★★½
Alquanto snobbato dalla critica pennivendola, pronta a osannare qualsiasi vaccata alla moda e possibilmente hollywoodiana nonché i suoi idoli di cartapesta, ho trovato "Il grande quaderno", fedelmente tratto dall'omonimo romanzo che costituisce la prima parte della "Trilogia della città di K." di Ágota Kristóf, formidabile scrittrice ungherese rifugiatasi in Svizzera dopo l'invasione sovietica del 1956, uno dei migliori film usciti quest'anno. Non era facile riprodurre visivamente la scrittura scabra e chirurgica della Kristóf, che da sola riusciva a evocare la disillusione e la mancanza di speranza di un mondo definitivamente corrotto dalla guerra, riflesse nella storia dell'adolescenza di due gemelli abbandonati, a causa delle vicissitudini del conflitto, dai genitori nelle mani di una nonna megera, ma Szasz ci è riuscito confezionando una pellicola di grande rigore formale e scegliendo degli interpreti assolutamente perfetti nelle loro parti nonché bravissimi: Piroska Molnár, nei panni della "strega", la nonna malvagia, vale da sola il prezzo del biglietto. Mentre la guerra, che non si vede mai però si percepisce sempre incombente, sta sconvolgendo le abitudini quotidiane di una città senza nome, possibilmente Budapest, e dunque l'agiata esistenza della famiglia borghese a cui appartengono i due gemelli, la madre li conduce nella squallida fattoria della propria madre, ai confini, si suppone, con l'Austria, da cui era fuggita anni prima senza dare più segni di vita, promettendo loro di tornare a riprenderli il più presto possibile, mentre il padre, militare, si congeda affidando loro un quaderno in cui annotare ogni avvenimento relativo alla loro esperienza. Abbandonati di fatto nelle grinfie della "strega", detestata da tutto il paese, i due sono costretti a subire le angherie di quest'ultima nonché a lavorare duramente ai suoi ordini per poter sfamarsi. Per sopravvivere, fisicamente e spiritualmente, si impongono un codice di autodisciplina durissimo, che consente loro di destreggiarsi tra abusatori sessuali, ladri, sfruttatori, opportunisti, una varia umanità che la guerra rende ancora più feroce e pusillanime. I due, fortificati da un codice etico che si sono costruiti da soli, sopravvivono alle vicende del conflitto, le cui sorti stanno sempre più precipitando, fino all'arrivo del nuovo occupante, questa volta l'Armata Rossa anziché l'esercito nero, e tutta la vicenda di questa loro durissima autoformazione null'altro è che l'educazione a una inevitabile separazione che conclude la prima parte della Trilogia nonché la pellicola. L'aspetto che più mi ha colpito del film è la potenza con cui evoca un'atmosfera che io stesso ricordo di avere respirato nei primi anni Sessanta, quando sopravviveva, nelle relazioni umane e nelle abitudini, nelle zone rurali e meno colpite direttamente dagli esiti della guerra dell'ex Terzo Reich, per cui quasi ne percepivo colori, immagini, odori. A contribuire alla riuscita del film, la magistrale e luminosa fotografia affidata a Christian Berger, collaboratore di fiducia di Michael Haneke, il cui "Il nastro bianco" viene inevitabilmente alla mente vedendo questo "Il grande quaderno".
Alquanto snobbato dalla critica pennivendola, pronta a osannare qualsiasi vaccata alla moda e possibilmente hollywoodiana nonché i suoi idoli di cartapesta, ho trovato "Il grande quaderno", fedelmente tratto dall'omonimo romanzo che costituisce la prima parte della "Trilogia della città di K." di Ágota Kristóf, formidabile scrittrice ungherese rifugiatasi in Svizzera dopo l'invasione sovietica del 1956, uno dei migliori film usciti quest'anno. Non era facile riprodurre visivamente la scrittura scabra e chirurgica della Kristóf, che da sola riusciva a evocare la disillusione e la mancanza di speranza di un mondo definitivamente corrotto dalla guerra, riflesse nella storia dell'adolescenza di due gemelli abbandonati, a causa delle vicissitudini del conflitto, dai genitori nelle mani di una nonna megera, ma Szasz ci è riuscito confezionando una pellicola di grande rigore formale e scegliendo degli interpreti assolutamente perfetti nelle loro parti nonché bravissimi: Piroska Molnár, nei panni della "strega", la nonna malvagia, vale da sola il prezzo del biglietto. Mentre la guerra, che non si vede mai però si percepisce sempre incombente, sta sconvolgendo le abitudini quotidiane di una città senza nome, possibilmente Budapest, e dunque l'agiata esistenza della famiglia borghese a cui appartengono i due gemelli, la madre li conduce nella squallida fattoria della propria madre, ai confini, si suppone, con l'Austria, da cui era fuggita anni prima senza dare più segni di vita, promettendo loro di tornare a riprenderli il più presto possibile, mentre il padre, militare, si congeda affidando loro un quaderno in cui annotare ogni avvenimento relativo alla loro esperienza. Abbandonati di fatto nelle grinfie della "strega", detestata da tutto il paese, i due sono costretti a subire le angherie di quest'ultima nonché a lavorare duramente ai suoi ordini per poter sfamarsi. Per sopravvivere, fisicamente e spiritualmente, si impongono un codice di autodisciplina durissimo, che consente loro di destreggiarsi tra abusatori sessuali, ladri, sfruttatori, opportunisti, una varia umanità che la guerra rende ancora più feroce e pusillanime. I due, fortificati da un codice etico che si sono costruiti da soli, sopravvivono alle vicende del conflitto, le cui sorti stanno sempre più precipitando, fino all'arrivo del nuovo occupante, questa volta l'Armata Rossa anziché l'esercito nero, e tutta la vicenda di questa loro durissima autoformazione null'altro è che l'educazione a una inevitabile separazione che conclude la prima parte della Trilogia nonché la pellicola. L'aspetto che più mi ha colpito del film è la potenza con cui evoca un'atmosfera che io stesso ricordo di avere respirato nei primi anni Sessanta, quando sopravviveva, nelle relazioni umane e nelle abitudini, nelle zone rurali e meno colpite direttamente dagli esiti della guerra dell'ex Terzo Reich, per cui quasi ne percepivo colori, immagini, odori. A contribuire alla riuscita del film, la magistrale e luminosa fotografia affidata a Christian Berger, collaboratore di fiducia di Michael Haneke, il cui "Il nastro bianco" viene inevitabilmente alla mente vedendo questo "Il grande quaderno".
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