"Lazzaro felice" di Alice Rohrwacher. Con Adriano Tardiolo, Agnese Graziani, Alba Rohrwacher, Luca Chikovani, Natalino Balasso, Nicoletta Braschi, Sergi Lopez, Tommaso Ragno e altri. Italia 2018 ★ ½
Sì, va beh, però che palle... Fosse durato una mezz'ora in meno, il film sarebbe risultato, a mio parere, più equilibrato e godibile, senza sforare il mio personale limite di pazienza: trascorsa mezz'ora, già avevo cominciato a sbirciare il quadrante dell'orologio, figurarsi superata l'ora e mezzo, che sarebbe stato il massimo consentito, e invece avanti fino a due ore e 10' complessivi. A metà tra la parabola (Lazzaro, anche nell'accezione di povero, che risorge) e la favola (san Francesco e il lupo), in una dimensione atemporale, ma collocabile attorno agli anni Novanta, la pellicola racconta della vicenda di un ragazzo innocente e sempre disponibile, l'esordiente Adriano Tardiolo, capace di una sorprendente immedesimazione nell'aria eternamente attonita del personaggio, di una bontà così profonda da sconfinare nell'idiozia, che vive in un contesto contadino estremamente arretrato, una comunità di mezzadri segregata in una proprietà dove si coltiva tabacco, sfruttati senza pietà da una contessa arcigna, senza alcun contatto col mondo esterno salvo l'amministratore, un suo tirapiedi furfantesco e in malafede. Lazzaro stringe un'amicizia profonda (almeno per lui, quindi unidirezionale) nei confronti dell'annoiato Tancredi, figlio adolescente della contessa che simula un rapimento per noia e per protesta contro le condizioni dei contadini: vengono in mente certe sedicenti avanguardie proletarie da salotto e da terrazza che abbondano tra chi, incendiario in gioventù, ora, ovviamente, è diventato pompiere e dunque renziano e si ostina a votare piddì perché "in direzione ostinata e pedestre". Questo fino a quando tutto il gruppo di una quarantina di contadini non viene scoperto dai carabinieri e sottratto alla condizione di schiavitù, mentre Lazzaro, alla ricerca di Tancredi, precipita in un burrone e muore. Risorge una ventina d'anni dopo, risvegliato da un lupo, identico a sé stesso, e quando vede il podere abbandonato da ogni anima viva, si reca nella grande città alla ricerca dell'amico. Trova invece il gruppo degli ex mezzadri nel frattempo accampatisi in uno squallido terreno a ridosso di una stazione ferroviaria (la Centrale di Milano, anche se il resto delle riprese a occhio sembra fatto a Torino) e che sopravvivono con furtarelli e affari loschi, i quali lo vedono come l'apparizione di un fantasma e che, esattamente come prima, lo sfruttano: homo homini lupus vale anche per e tra i più poveri e alla fine Lazzaro ritrova pure Tancredi (l'ottimo Tommaso Ragno, un bravissimo attore che solo di recente sembra aver avuto le sue opportunità cinematografiche), velleitario e vanesio come era vent'anni prima. La critica allineata, luogocomunista, buonista e politicamente corretta, specie quella francese in occasione della presentazione del film al recente Festival di Cannes, dove ha ricevuto il premio per la miglior sceneggiatura (mah... del resto son francesi) ha parlato di neoralismo magico, come anche nel caso di Dogman di Matteo Garrone, ma il divario di qualità, a mio parere, è impietoso. Sì, ci si possono vedere richiami a Rossellini, De Sica, Pasolini, Bertolucci, Olmi soprattutto, ma i peana sono a mio parere del tutto esagerati e, accidenti: siamo nel 21° secolo, e gli stilemi e modi di raccontare di oltre mezzo secolo fa risultano alquanto datati. Quel che è peggio, però, è che l'utilizzo di tecniche "povere", almeno all'apparenza, se giustificabili perché in linea col pauperismo della pellicola e il suo richiamo al neorealismo (il che non impedisce l'uso di un drone) qui più che di una scelta sembra indice di sciatteria se non di dilettantismo, o almeno è l'impressione che ha suscitato in me. Assieme alla piattezza e fissità dei personaggi, cui non vengono in soccorso gli interpreti, professionisti e no, a eccezione del già citato Tommaso Ragno e della sorella della regista, Alba, gli unici due a conferire un po' di verve all'andazzo e colpevolmente sottoutilizzati, il tutto lascia una sensazione di freddezza, astrazione, artefatto e, detta tutta, di onanismo mentale: non c'è stato un solo momento, in 130', in cui mi sia emozionato e guadagnare l'uscita dalla sala è stato un sollievo. Auguri!
Sì, va beh, però che palle... Fosse durato una mezz'ora in meno, il film sarebbe risultato, a mio parere, più equilibrato e godibile, senza sforare il mio personale limite di pazienza: trascorsa mezz'ora, già avevo cominciato a sbirciare il quadrante dell'orologio, figurarsi superata l'ora e mezzo, che sarebbe stato il massimo consentito, e invece avanti fino a due ore e 10' complessivi. A metà tra la parabola (Lazzaro, anche nell'accezione di povero, che risorge) e la favola (san Francesco e il lupo), in una dimensione atemporale, ma collocabile attorno agli anni Novanta, la pellicola racconta della vicenda di un ragazzo innocente e sempre disponibile, l'esordiente Adriano Tardiolo, capace di una sorprendente immedesimazione nell'aria eternamente attonita del personaggio, di una bontà così profonda da sconfinare nell'idiozia, che vive in un contesto contadino estremamente arretrato, una comunità di mezzadri segregata in una proprietà dove si coltiva tabacco, sfruttati senza pietà da una contessa arcigna, senza alcun contatto col mondo esterno salvo l'amministratore, un suo tirapiedi furfantesco e in malafede. Lazzaro stringe un'amicizia profonda (almeno per lui, quindi unidirezionale) nei confronti dell'annoiato Tancredi, figlio adolescente della contessa che simula un rapimento per noia e per protesta contro le condizioni dei contadini: vengono in mente certe sedicenti avanguardie proletarie da salotto e da terrazza che abbondano tra chi, incendiario in gioventù, ora, ovviamente, è diventato pompiere e dunque renziano e si ostina a votare piddì perché "in direzione ostinata e pedestre". Questo fino a quando tutto il gruppo di una quarantina di contadini non viene scoperto dai carabinieri e sottratto alla condizione di schiavitù, mentre Lazzaro, alla ricerca di Tancredi, precipita in un burrone e muore. Risorge una ventina d'anni dopo, risvegliato da un lupo, identico a sé stesso, e quando vede il podere abbandonato da ogni anima viva, si reca nella grande città alla ricerca dell'amico. Trova invece il gruppo degli ex mezzadri nel frattempo accampatisi in uno squallido terreno a ridosso di una stazione ferroviaria (la Centrale di Milano, anche se il resto delle riprese a occhio sembra fatto a Torino) e che sopravvivono con furtarelli e affari loschi, i quali lo vedono come l'apparizione di un fantasma e che, esattamente come prima, lo sfruttano: homo homini lupus vale anche per e tra i più poveri e alla fine Lazzaro ritrova pure Tancredi (l'ottimo Tommaso Ragno, un bravissimo attore che solo di recente sembra aver avuto le sue opportunità cinematografiche), velleitario e vanesio come era vent'anni prima. La critica allineata, luogocomunista, buonista e politicamente corretta, specie quella francese in occasione della presentazione del film al recente Festival di Cannes, dove ha ricevuto il premio per la miglior sceneggiatura (mah... del resto son francesi) ha parlato di neoralismo magico, come anche nel caso di Dogman di Matteo Garrone, ma il divario di qualità, a mio parere, è impietoso. Sì, ci si possono vedere richiami a Rossellini, De Sica, Pasolini, Bertolucci, Olmi soprattutto, ma i peana sono a mio parere del tutto esagerati e, accidenti: siamo nel 21° secolo, e gli stilemi e modi di raccontare di oltre mezzo secolo fa risultano alquanto datati. Quel che è peggio, però, è che l'utilizzo di tecniche "povere", almeno all'apparenza, se giustificabili perché in linea col pauperismo della pellicola e il suo richiamo al neorealismo (il che non impedisce l'uso di un drone) qui più che di una scelta sembra indice di sciatteria se non di dilettantismo, o almeno è l'impressione che ha suscitato in me. Assieme alla piattezza e fissità dei personaggi, cui non vengono in soccorso gli interpreti, professionisti e no, a eccezione del già citato Tommaso Ragno e della sorella della regista, Alba, gli unici due a conferire un po' di verve all'andazzo e colpevolmente sottoutilizzati, il tutto lascia una sensazione di freddezza, astrazione, artefatto e, detta tutta, di onanismo mentale: non c'è stato un solo momento, in 130', in cui mi sia emozionato e guadagnare l'uscita dalla sala è stato un sollievo. Auguri!
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