"In grazia di Dio" di Edoardo Winspeare. Con Celeste Casciaro, Gustavo Caputo, Anna Boccadamo, Laura Licchetta, Barbara De Matteis, Amerigo Russo, Angelico Ferrarese, Antonio Carluccio. Italia 2013 ★★★★
Decisamente un buon film, inconsueto, che viaggia su un doppio registro: le vicende personali e i rapporti tra i protagonisti, in particolare le quattro donne di una famiglia colte nelle diverse età, e quelle di un Sud ben conosciuto dal regista, Il Salento da cui provengono sia Winspeare, a dispetto del cognome, sia gli interpreti, tutti attori non professionisti tranne una (quella che nel film fa, per l'appunto, l'attrice), ai tempi dell'ultima crisi, quella attuale (dico ultima perché di crisi sento parlare da quando ho raggiunto l'età della ragione, anche se ai bei tempi, negli anni Sessanta e Settanta, andava di moda il termine "congiuntura", tanto per usare un eufemismo che non compromettesse la fiducia in un radioso futuro - quello che ci troviamo serviti oggigiorno - dietro l'angolo). Film girato in famiglia (l'interprete principale, Celeste Casciaro, intensa e bravissima, è la moglie del regista e Laura Licchetta, nel film come nella vita, la figlia di lei), e che tratta delle vicissitudini di una famiglia di "fasonisti", titolari di un'azienda che confeziona vestiti per le grandi firme del Nord, la cui attività è mandata in crisi non solo dalla delocalizzazione in Cina o altrove nel Terzo Mondo ma anche dall'avidità e spietatezza di banche, finanziarie e intermediari che agiscono da veri e propri strozzini, e costretti a chiudere. Non soltanto: ma anche a vendere la casa, costruita dal padre dopo anni di duro lavoro in Svizzera, e dove Vito, il figlio maggiore, torna con la sua famiglia a fare l'emigrato, mentre l'energica sorella Adele, contitolare dell'azienda, si trasferisce assieme alla madre, alla sorella minore (laureata e aspirante attrice) e alla figlia (indifferente a tutto salvo che ai ragazzotti del paese e al denaro da spendere in vestiti alla moda) nel rustico da risistemare sul podere, coltivato a orti e oliveto, che ancora possiedono in riva al mare. E' a questa nuova vita che le quattro donne dovranno adattarsi: ci riusciranno la più anziana Salvatrice, rimasta vedova da tempo, per cui è un ritorno alle origini contadine e anche all'amore con Cosimo, che conduceva il podere, e pure Adele, nonostante l'asprezza di carattere che la portano spesso a entrare in contrasto con la sognatrice sorella Maria Concetta e la svogliata e inconcludente figlia Ina, che invece avranno più problemi a entrare nella nuova dimensione. Il piatto forte è proprio l'interazione fra le quattro generazioni di donne, con le loro forti individualità e alle prese con le rispettive dimensioni relazionali e sentimentali, in un contesto particolare, anche nei suoi aspetti culturali e religiosi, ma al contempo simbolo (o variante) di una situazione generale del Paese e non solo: sicuramente della parte mediterranea dell'Europa, e il riferimento alla Grecia, distante sole 40 miglia marine, non è casuale, anche storicamente, in terra di Puglia. Come anche la prospettiva realistica di dover tornare "a zappare", e magari a forme di baratto, per assicurarsi un'esistenza dignitosa. Ottima la fotografia, più che adeguate le interpretazioni (il film è parlato prevalentemente in dialetto e quindi opportunamente sottotitolato), essenziale la sceneggiatura, ma più che sufficiente a tenere in piedi una pellicola robusta, ben strutturata, che merita di essere vista.
Decisamente un buon film, inconsueto, che viaggia su un doppio registro: le vicende personali e i rapporti tra i protagonisti, in particolare le quattro donne di una famiglia colte nelle diverse età, e quelle di un Sud ben conosciuto dal regista, Il Salento da cui provengono sia Winspeare, a dispetto del cognome, sia gli interpreti, tutti attori non professionisti tranne una (quella che nel film fa, per l'appunto, l'attrice), ai tempi dell'ultima crisi, quella attuale (dico ultima perché di crisi sento parlare da quando ho raggiunto l'età della ragione, anche se ai bei tempi, negli anni Sessanta e Settanta, andava di moda il termine "congiuntura", tanto per usare un eufemismo che non compromettesse la fiducia in un radioso futuro - quello che ci troviamo serviti oggigiorno - dietro l'angolo). Film girato in famiglia (l'interprete principale, Celeste Casciaro, intensa e bravissima, è la moglie del regista e Laura Licchetta, nel film come nella vita, la figlia di lei), e che tratta delle vicissitudini di una famiglia di "fasonisti", titolari di un'azienda che confeziona vestiti per le grandi firme del Nord, la cui attività è mandata in crisi non solo dalla delocalizzazione in Cina o altrove nel Terzo Mondo ma anche dall'avidità e spietatezza di banche, finanziarie e intermediari che agiscono da veri e propri strozzini, e costretti a chiudere. Non soltanto: ma anche a vendere la casa, costruita dal padre dopo anni di duro lavoro in Svizzera, e dove Vito, il figlio maggiore, torna con la sua famiglia a fare l'emigrato, mentre l'energica sorella Adele, contitolare dell'azienda, si trasferisce assieme alla madre, alla sorella minore (laureata e aspirante attrice) e alla figlia (indifferente a tutto salvo che ai ragazzotti del paese e al denaro da spendere in vestiti alla moda) nel rustico da risistemare sul podere, coltivato a orti e oliveto, che ancora possiedono in riva al mare. E' a questa nuova vita che le quattro donne dovranno adattarsi: ci riusciranno la più anziana Salvatrice, rimasta vedova da tempo, per cui è un ritorno alle origini contadine e anche all'amore con Cosimo, che conduceva il podere, e pure Adele, nonostante l'asprezza di carattere che la portano spesso a entrare in contrasto con la sognatrice sorella Maria Concetta e la svogliata e inconcludente figlia Ina, che invece avranno più problemi a entrare nella nuova dimensione. Il piatto forte è proprio l'interazione fra le quattro generazioni di donne, con le loro forti individualità e alle prese con le rispettive dimensioni relazionali e sentimentali, in un contesto particolare, anche nei suoi aspetti culturali e religiosi, ma al contempo simbolo (o variante) di una situazione generale del Paese e non solo: sicuramente della parte mediterranea dell'Europa, e il riferimento alla Grecia, distante sole 40 miglia marine, non è casuale, anche storicamente, in terra di Puglia. Come anche la prospettiva realistica di dover tornare "a zappare", e magari a forme di baratto, per assicurarsi un'esistenza dignitosa. Ottima la fotografia, più che adeguate le interpretazioni (il film è parlato prevalentemente in dialetto e quindi opportunamente sottotitolato), essenziale la sceneggiatura, ma più che sufficiente a tenere in piedi una pellicola robusta, ben strutturata, che merita di essere vista.
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