"Il figlio dell'altra" (Le fils de l'Autre) di Lorraine Lévi. Con Emmanuelle Devos, Areen Omari, Pascal Elbé, Khalifa Natour, Jules Sitruk, Mehdi Dehbi, Mahmoud Shalabi e altri. Francia, 2012 ★★★½
Egregio film che prende spunto da un'idea apparentemente banale, uno scambio di neonati, uno ebreo e l'altro arabo all'ospedale di Haifa durante l'evacuazione in seguito a un attacco di missili "Scud" nel 1991, che si svela al momento della visita di leva di Yosif, figlio di un colonnello dell'esercito israeliano: il suo gruppo sanguigno è incompatibile con quello dei genitori. In seguito a un esame del DNA viene individuato il vero figlio della coppia, Yacin, cresciuto in una famiglia araba che vive nella Cisgiordania occupata. Le due coppie si incontrano e tocca loro confrontarsi: i padri, rinchiusi nei loro schemi mentali da cui derivano inevitabili rancori e visioni diametralmente opposte, sono riluttanti a dire ai figli come stanno le cose; le madri che, in quanto tali, hanno una visione più complessiva e basata sul buon senso pratico avendo cresciuto personalmente i figli l'una dell'altra, prendono in mano la situazione con saggezza e comprensione reciproca. Quelli che hanno meno problemi, una volta che si sono incontrati, sono proprio i due ragazzi, che si trovano a vivere parzialmente la vita dell'altro, più disponibili a fare i conti, senza tragedie e con disponibilità reciproca, con la propria identità. Non troppo paradossalmente avrà più problemi Yosif, non tanto con la sua nuova personalità araba quanto con la sua ebraicità che, come gli ricorda il rabbino, non dipende da una convinzione o da una scelta, ma da una condizione: razziale. Educato da ebreo, non potrà più esserlo perché figlio di una madre araba: supererà questo trauma grazie alla sua mentalità da artista, capace di vedere le cose da un punto di vista più ampio. Va a merito della regista, di origini ebraiche, affrontare il fatto che questa religione, l'unica e più antica tra le tre maggiori monoteiste, non sia dedita al proselitismo proprio perché si basa sul concetto di razza, un aspetto che troppi non tengono presente. Come non si tiene presente che uno Stato basato sull'apartheid, l'occupazione abusiva di terre da cui si cacciano i legittimi abitanti salvo rinchiuderli in ghetti, fondato su barriere e confini che non sono solo fisici ma mentali e questo riguarda sia gli arabi sia gli ebrei che, in quanto tali, sono entrambi in senso stretto palestinesi, non può chiamarsi né moderno né democratico: come e più dell'Iran, Israele è una teocrazia autoritaria e per di più razzista. Sono tutti bravissimi gli interpreti, in particolare i genitori e ancor più le due attrici nelle parti delle madri, con una nota speciale per la Emmanuelle Devos, portentosa e affascinante attrice francese pressoché sconosciuta in Italia e bellissima donna, che sembra il ritratto vivente di Alida Valli, con un tocco di Romy Schneider.
Egregio film che prende spunto da un'idea apparentemente banale, uno scambio di neonati, uno ebreo e l'altro arabo all'ospedale di Haifa durante l'evacuazione in seguito a un attacco di missili "Scud" nel 1991, che si svela al momento della visita di leva di Yosif, figlio di un colonnello dell'esercito israeliano: il suo gruppo sanguigno è incompatibile con quello dei genitori. In seguito a un esame del DNA viene individuato il vero figlio della coppia, Yacin, cresciuto in una famiglia araba che vive nella Cisgiordania occupata. Le due coppie si incontrano e tocca loro confrontarsi: i padri, rinchiusi nei loro schemi mentali da cui derivano inevitabili rancori e visioni diametralmente opposte, sono riluttanti a dire ai figli come stanno le cose; le madri che, in quanto tali, hanno una visione più complessiva e basata sul buon senso pratico avendo cresciuto personalmente i figli l'una dell'altra, prendono in mano la situazione con saggezza e comprensione reciproca. Quelli che hanno meno problemi, una volta che si sono incontrati, sono proprio i due ragazzi, che si trovano a vivere parzialmente la vita dell'altro, più disponibili a fare i conti, senza tragedie e con disponibilità reciproca, con la propria identità. Non troppo paradossalmente avrà più problemi Yosif, non tanto con la sua nuova personalità araba quanto con la sua ebraicità che, come gli ricorda il rabbino, non dipende da una convinzione o da una scelta, ma da una condizione: razziale. Educato da ebreo, non potrà più esserlo perché figlio di una madre araba: supererà questo trauma grazie alla sua mentalità da artista, capace di vedere le cose da un punto di vista più ampio. Va a merito della regista, di origini ebraiche, affrontare il fatto che questa religione, l'unica e più antica tra le tre maggiori monoteiste, non sia dedita al proselitismo proprio perché si basa sul concetto di razza, un aspetto che troppi non tengono presente. Come non si tiene presente che uno Stato basato sull'apartheid, l'occupazione abusiva di terre da cui si cacciano i legittimi abitanti salvo rinchiuderli in ghetti, fondato su barriere e confini che non sono solo fisici ma mentali e questo riguarda sia gli arabi sia gli ebrei che, in quanto tali, sono entrambi in senso stretto palestinesi, non può chiamarsi né moderno né democratico: come e più dell'Iran, Israele è una teocrazia autoritaria e per di più razzista. Sono tutti bravissimi gli interpreti, in particolare i genitori e ancor più le due attrici nelle parti delle madri, con una nota speciale per la Emmanuelle Devos, portentosa e affascinante attrice francese pressoché sconosciuta in Italia e bellissima donna, che sembra il ritratto vivente di Alida Valli, con un tocco di Romy Schneider.
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