sabato 14 gennaio 2012

Station to Station


Sulla Circle Line
YANGON – A Yangon esiste una pletora di Railway Stations, che fanno capo a quella faraonica, in stile vittoriano, situata subito a Nord del centro storico, fra la Sule e la Shwedagon Paya, e un numero imprecisato ma tendente all’infinito di Beer Stations. Quasi superfluo ricordare, a chi mi conosce, che al 3° giorno in città abbia già creato un mio circuito preferenziale e personalizzato di queste ultime. Il birromane è un animale estremamente abitudinario: metodico e meticoloso, incline alla ritualità: ha bisogno di sicurezze. Sfatata la leggenda per cui in Birmania la birra venga servita a temperatura ambiente, perché nel frattempo i frigoriferi sono giunti anche qui mentre il ghiaccio era conosciuto già da prima, e che quando viene spillata alla spina è comunque a temperatura adeguata, e una volta stabilito che la “Myanmar”, la casa di gran lunga più diffusa, è più che potabile (in una scala di valori la colloco all’altezza della “Tiger” di Singapore, la birra che gode della distribuzione più capillare in tutta l’Asia, della tailandese “Chang” e appena un gradino sotto la mitica “Lao”, che come suggerisce il nome viene prodotta nel Laos), viene meno il problema della ricerca del luogo di spaccio della marca preferita: l’itinerario, station-to-station, per concludere degnamente la giornata, viene stabilito in base al feeling che si crea tra fruitore, gestore, camerieri e clientela abituale; il che, con l’aggiunta delle variabili date dalla posizione e dall’ambiente, crea quella miscela che, se è quella giusta, fa scoccare la scintilla. Come l’amore, quello vero. Poiché quella di ieri era l’ultima serata nella capitale prima di spostarmi verso Nord, a Mandalay, ho pensato bene di santificare, in un certo qual modo, l’ultimo “giro” birresco facendo in modo di meritarmelo. Come premio per qualcosa che desse un senso compiuto alla giornata. Qualcosa in tema di stations e che pochi viaggiatori stranieri sperimentano dal vivo: l’intero tracciato della Circe Line: quello che, per l’appunto station-to-station, compie la linea ferroviaria ereditata dalla Corona Britannica percorrendo il perimetro esterno alla città, partendo dalla stazione principale e completandovi il circuito. Più che un’avventura (niente di pericoloso: la gente di qui è estremamente civile ed educata, amichevole, ben disposta e mai invadente con lo straniero.), un “viaggio nel viaggio”, che fa prendere un contatto concreto con la realtà del luogo. Viaggio che inizia a un’ora imprecisata: “quando arriva il treno”, e al binario che sarà. Fare il biglietto è un’impresa anche per i locali, perché la burocrazia da queste parti non ha limiti: occorrono montagne di scartoffie, e relativo personale per riempirle, per il rilascio di un semplice tagliando. Fortunatamente adocchio un baracchino su cui campeggia il cartello “Complaints”, e non “Informations”, eppure l’istinto mi suggerisce che è il posto giusto. E ho ragione, perché il responsabile mi prende amabilmente sotto la sua custodia e mi fa oltrepassare una serie di deliranti recinzioni metalliche, attravesare i binari (senza passerella, s’intende: da un marciapiede all’altro) fino a giungere all’ufficio che presiede i binari 5 e 6: lì vengo consegnato agli incaricati del rilascio del biglietto (completato a mano). Dietro esibizione del passaporto, s’intende, e dopo la compilazione dell’apposito, interminabile, modulo. Per uno straniero il costo è un dollaro USA: quando rispondo che non ce l’ho, rimangono dapprima disorientati, poi accettano 1000 kyat, ossia la moneta locale (che al cambio valgono comunque almeno 1,25 dollari). Alla fine sono ferrovieri, gente per definizione e storicamente aperta al mondo e al prossimo, a tutte le latitudini, e quindi solidale e disponibile nei confronti del forestiero, specie se viaggiatore: in un qualsiasi altro ambito della pubblica amministrazione, gli addetti sarebbero stati irremovibili. O dollaro o niente biglietto. Il treno arriverà non si sa quando, in un qualche orario dopo le 13.40, né a quale tra i due binari 5 o 6: infatti farà il suo trionfale ingresso in stazione al n° 3. Mi ci scorterà un altro ferroviere che mi ha preso sotto la sua tutela, guidandomi in una gincana fra un binario e l’altro, un treno in partenza e uno in arrivo: ma niente paura, perché la loro velocità massima, una volta lanciati, è di 20 KM/h. Quello preciso al minuto, sarà il tempo di percorrenza del circuito extracittadino: esattamente tre ore, durante le quali è passato il mondo, fra chi scende e chi sale, chi vende e chi compra, chi si riposa, chi traffica, chi fa il suo lavoro, chi allatta, chi conversa, chi dorme, chi pensa agli affari suoi, chi ti guarda e con cui cominci a scambiare qualche gesto, nel linguaggio universale: un segno d’intesa, uno sbadiglio a indicare noia, sete, stanchezza, oppure complicità curiosità nei confronti di qualcosa che stai condividendo. Dentro il vagone, l’umanità più varia in tutte le sue varianti di età, sfaccettature, attività, condizioni (generalmente modeste), sempre dignitosa. Fuori, oltre il finestrino (privo di vetri, così come le vetture, che risalgono se va bene agli anni Trenta, sono prive di porte, con le panche a liste di legno disposte per il lungo, come nei tram), il panorama perlopiù della miseria, specialmente a ridosso delle decine di stazioni in cui il convoglio rimaneva fermo per meno di un minuto, il tempo necessario per le rapide operazioni di carico e scarico di persone e merci le  più diverse che si effettuano anche quando si rimette in movimento, per quanto è lento. Baracche su baracche, quando va bene di compensato, altrimenti di paglia e cartoni e pallet, per tenerle sollevate dal terreno, attraversate da rigagnoli e canali maleodoranti e inquinati, con l’acqua dai colori più improbabili; qualche volta agglomerati di costruzioni in muratura, qualcuna d’epoca (in qualche rara zona residenziale periferica), perlopiù orridi caseggiati in stile sovietico; una decina almeno di vastissimi compound militari, questi sì dotati di solide e funzionali costruzioni in muratura, nonché di rimesse colme di automezzi nuovi di zecca; in mezzo, chilometri di aperta campagna coltivata, risaie, orti, alcune lagune da pesca. Tre ore in cui mi è parso di fare un viaggio nel tempo, a ritroso, prima ancora che nello spazio. Nella realtà, in carne e ossa, di questo Paese, infelice ma non disperato, paziente ma non remissivo, vessato ma non rassegnato. Oggi ho comunque raggiunto la certezza che anche Yangon è entrata a far parte di quella speciale categoria di citta, quelle "del cuore" per cui andrà in scena, prima della partenza, il rituale della nostalgia preventiva.
Beer Station sulla Mahabandoola Road

2 commenti:

  1. Scusa eh? Ma chi era poi 'sto Chatwin? Una Circle Line umana e ambientale, intrisa quel tanto di birra da sfumare in una serie di flash che la mente scatta man mano che legge per finire, partita da Yangon, sorprendentemente e piacevolmente, a Saigon.
    Sarà anche che Chatwin non disponeva di internet point, ma a questi link non c'è mai arrivato.
    Si attende Mandalay...

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