lunedì 29 settembre 2025

Le città di pianura

"Le città di pianura" di Francesco Sossai. Con Pierpaolo Capovilla, Sergio Romano, Filippo Scotti, Andrea Pennacchi, Roberto Citran e altri. Italia, Germania 2025 ★★★★★

Evviva! E' con grande piacere che segnalo il più sorprendente film italiano dell'anno, secondo lungometraggio del bellunese di Feltre Francesco Sossai, il cui sottotitolo è, non a caso, Andiamo a bere l'ultima?: a Pedavena, nelle immediate vicinanze, ha sede la più grande birreria d'Italia, nella sede dell'omonimo storico birrificio. L'esordio, quattro anni fa, avvenne con Altri cannibali, che mi ero sciaguratamente perso e vedrò di recuperare, lungometraggio di diploma degli studi di regìa presso la Deutsche Film und Fernsehakademie di Berlino, dove aveva seguito i corsi, fra gli altri, del grande Béla Tarr. Qui ha confezionato un apparentemente stralunato road movie sulle strade di casa, quel Veneto di pianura situato tra le Dolomiti e la Laguna veneziana stravolto e cementificato nel corso degli ultimi quarant'anni dalla miriade di capannoni industriali, aziende, officine, centri commerciali, palazzine obbrobriose e villette bifamiliari che hanno spazzato via il paesaggio rurale di un tempo dando vita al cosiddetto "sviluppo" e arricchimento, unicamente in termini di schei e immiserimento umano di quella che da sempre è stata la terra di più forte emigrazione italiana all'estero, ben più del meridione, isole comprese; la regione del nuovo miracolo economico della micro e media imprenditorialità avviato nel secondo dopoguerra ed esploso negli anno Ottanta, che ha catapultato nella "modernità" il NordEst, snaturandolo. La devastazione e spersonalizzazione è tanto paesaggistica quanto umana, e lo testimoniano due cinquantenni, Carlobianchi e Doriano detto Dori, rispettivamente gli ottimi Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla, già lavoratori presso un'azienda che produceva occhiali, e travolti dalla crisi del 2008: ora, sopravvivono con lavori socialmente utili nel piccolo comune di residenza e si dedicano alla rievocazione dei ricordi nonché alla ricerca delle tracce del passato in ciò che ne sopravvive nelle rare bettole e osterie rimaste in vita, tra fiaschi di vino, fette di sopressa, e tocchi di formaggio, grappe, qualsiasi intruglio che contenga alcol e alla costante ricerca del luogo in cui bere l'ultima birretta, un dovere ineluttabile di cui Carlobianchi, diplomato ragioniere e non privo di nozioni fondamentali di macroeconomia, dimostra la necessità in base alla teoria dell'utilità marginale. Li ritroviamo una sera, addormentati in macchina, mentre sono in viaggio per andare all'aeroporto a prendere l'amico Genio (Andrea Pennacchi), col quale nella fabbrica dove lavoravano avevano messo in piedi un commercio parallelo di occhiali che sottraevano all'azienda per arrotondare lo stipendio, il quale rientra dopo svariati anni dall'Argentina dove si era rifugiato per sfuggire alla giustizia: il reato è finalmente prescritto, lui non li ha traditi e si favoleggia che abbia nascosto il gruzzolo prima di partire nella zona. Peccato che Venezia di aeroporti ne abbia due, e in prima battuta optano, sbagliando, per Tessera (l'altro è Treviso) ma è presto, per cui arrivano in città, in uno dei rari bacari sopravvissuti, vicino alla sede dello IUAV ai Tolentini, dove si imbattono in Giulio (Filippo Scotti), un ingenuo e disarmante studente di architettura perdutamente innamorato della protagonista di una festa di laurea. Comincia un delirante viaggio proprio nell'orripilante panorama semiurbano della pianura del titolo, dove ogni tanto spunta una testimonianza del passato (una decadente villa con splendidi affreschi in rovina, il Memoriale Brion di Altivole realizzato dall'architetto Carlo Scarpa, i resti di mitiche osterie dove Carlobianchi, Dori e Genio andavano a divorare lumache e polenta e a tracannare vino per poi proseguire alla ricerca di innumerevoli "ultime"): per il ragazzo è un'iniziazione e una rivelazione, perché attraverso i racconti dei due mentori comincia a guardare il mondo e la realtà da una prospettiva completamente diversa da quella abituale, ma almeno altrettanto valida e plausibile, mentre i due cinquantenni trovano un senso alle loro peregrinazioni attraverso lo "svezzamento" del ragazzo, una buona azione a base di buon senso e generosità disinteressata e a loro volta imparano da Giulio a vedere quanto il loro ambiente di un tempo, quella che era una terra agricola e un paesaggio incantevole, sia diventata semplicemente territorio da occupare, edificare in modo quasi sempre osceno e poi abbandonare, una volta sfruttato; un panorama dove non si hanno punti di riferimento, uguale dappertutto in una landa pressoché desolata dove ci si avventura soltanto di passaggio e destinata ad una americanizzazione ormai completa. Alla fine di una "due giorni" ad alto tasso alcolico (e filosofico) ritroveranno pure Genio, che però non sarà a sua volta in grado di recuperare il malloppo nascosto in un campo non lontano dalla sua abitazione, perché finito sotto le fondamenta dell'ennesimo "marnone" di cemento  armato, peraltro abbandonato in rovina. Davvero grande cinema, un film perfetto, pieno di citazioni mai stucchevolmente compiaciute, ma da cui si può imparare; stilisticamente sono evidenti le influenze di maestri come Wenders (in particolare Nel corso del tempo), Kaurisimäki, ma anche Carlo Mazzacurati, non a caso anche lui veneto, e pure il Dino Risi de Il sorpasso, per rimanere agli europei; davvero bravissimi gli interpreti, perfetta e potente la colonna sonora di Krano, che ibrida la musica country con la tradizione e il dialetto locale. 

mercoledì 24 settembre 2025

Downton Abbey - Il Gran Finale

"Downton Abbey - Il Gran Finale" (Downton Abbey - The Gran Finale) di Simon Curtis. Con Hugh Bonneville, Jim Carter, Michelle Dockery, Elizabeth McGovern, Paul Giamatti, Penelope Wilton, Joely Richardson, Dominic West, Alessandro Nivola, Joanne Froggatt, Allen Leech, Phyllis Logan, Sophie McSheera, Brendan Coyle, Laura Carmichael e altri. GB. USA 2025 ★★★=

Staremo a vedere se questa sarà davvero l'ultima puntata ( fin qui la terza) del seguito cinematografico dell'omonima serie televisiva di successo planetario: capacissimi che si inventino una qualche ulteriore derivazione, ovvero spin-off, come si dice in gergo. Non rimane niente da aggiungere a quanto già detto in quelle precedenti: la prima del 2019 e la seconda, del 2022, salvo che il livello qualitativo decresce con il susseguirsi degli episodi, mentre aumentano scontatezza e noia. Quindi non rimane che da dire qualcosa sulla trama: siamo nel 1930 e la famiglia Crowley subisce di rimbalzo gli effetti della crollo di Wall Street dell'anno prima, perché Harold (Giamatti) cognato del capofamiglia Robert, ha sperperato buona parte del patrimonio della sorella e degli investimenti di famiglia ed è venuto in visita dagli USA assieme al personaggio a cui si era affidato, un sedicente finanziere che si rivelerà un truffatore pluricondannato. Nel frattempo The Times There are A Changing e la parola d'ordine è "cambiamento" (pur sempre nella continuità: il gattopardismo non è certo una specialità italiana). Questo in entrambi i mondi messi in scena dalla serie e dai tre film: quello della nobiltà e quello della sua servitù, strettamente interconnessi, in rapporto quasi simbiotico. Il cambio della guardia è d'attualità sia in cucina, tra la cuoca anziana e quella giovane, sia tra chi di fatto ha governato l'enorme e prestigiosa magione di Dowton Abbey nello Yorkshire, il maggiordono Crowley, restio ad abbandonare il suo ruolo, e il suo successore Parker, ma è ancora più dura per il Conte Robert cedere le redini a sua figlia Mary, peraltro malvista dall'aristocrazia della capitale, e di conseguenza anche da quella locale perché divorziata: dovrà sudarsi l'accettazione da parte di quest'ultima, di cui ha bisogno per amministrare oltre alla costosissima dimora anche i terreni che la famiglia possiede nella contea, di cui è quella più in vista, ma soprattutto convincere il padre recalcitrante a vendere a vendere la Grantham House, residenza dei Crowley a Londra, e trasferirsi in un appartamento per essere in grado di coprire le spese della proprietà intoccabile su nel Nord, per l'appunto Dowton Abbey. Attori consumati e ineccepibili, a cui si deve la benevole sufficienza nel giudizio finale, happy end immancabile, battute sempre più fiacche ma ancora accettabili, ma per non cadere nel ridicolo meglio fermarsi qui.  

mercoledì 17 settembre 2025

Elisa

"Elisa" di Leonardo Di Costanzo. Con Barbara Ronchi, Roschdy Zem, Diego Ribon, Valeria Golino, Hippolyte Girardot, Monica Codena, Roberta Da Soller e altri. Italia, Svizzera 2025 ★★★★1/2

Peccato che questo bellissimo film non fosse in concorso a Venezia per il Leone d'Oro, dove è stato presentato poche settimane fa, perché tra regista e interpreti aveva tutto per eccellere, anche se dubito che sarebbe stato premiato, conoscendo l'andazzo festivaliero, però magari almeno Barbara Ronchi avrebbe ottenuto il riconoscimento per la migliore interpretazione femminile. Lei è l'Elisa del titolo, sui 35 anni, da dieci detenuta per avere ucciso la sorella, bruciandone il cadavere e tentato di strangolare anche la madre. Nella sentenza di condanna le era stato riconosciuto di avere agito in uno stato di semi infermità mentale e una  condizione di amnesia dopo l'evento, che apparentemente ha del tutto rimosso. Sconta la pena in una struttura aperta, in un qualche luogo boschivo di un Cantone svizzero, probabilmente il Vallese, in parte francofono, un insieme di bungalow che ospitano ciascuno due detenute che si muovono liberamente nel comprensorio che fa capo a una struttura centrale con caffetteria, laboratori, attività varie. Insomma il contrario del carcere di tipo tradizionale, un panopticon come in Ariaferma, il precedente bellissimo lungometraggio di Leonardo Di Costanzo, che nasce validissimo documentarista ma che nei suoi lavori di finzione ha sempre confezionato lavori di notevole intensità. Gentile, riservata, timida, Elisa acconsente a incontrare il professor Alaoui, interpretato dal grande Roschdy Zem, memorabile interprete di Roubaix, una luce nell'ombra, attore e anche regista franco marocchino, un criminologo che sostiene che si debba indagare in profondità sulle motivazioni di chi commette un reato, per quanto efferato, non per giustificarlo ma per comprenderne appieno la personalità: solo così, secondo lui, si può aiutarne il recupero. Man mano che i colloqui proseguono, trasformandosi in una sorta di auto-psicoterapia, in Elisa riemergono i ricordi (cosicché riviviamo in successivi flash back le fasi del suo delitto) per cui progressivamente si chiude e va in crisi, rifiutandosi persino di vedere l'affettuoso padre (il sempre ottimo Diego Ribon), che ogni settimana va a trovarla, mentre la madre ha del tutto rotto i ponti con lei; lui l'ha perdonata fin da subito, cosa che non riesce alla donna che segue le lezioni del professore, interpretata in un cameo da Valeria Golino: suo figlio è stato ucciso da una gang di ragazzini, e non vuole capirli né tantomeno perdonarli, ché altrimenti è cosciente che crollerebbe il suo equilibrio. Mentre nel carcere in dismissione di Ariaferma uno spazio di libertà e di comprensione reciproca avviene all'interno di uno spazio claustrofobico, qui la situazione è opposta: in una dimensione ideale, all'aria aperta, in mezzo agli alberi e con ampia libertà di movimento, la protagonista si rende conto di essere sempre stata prigioniera di sé stessa, delle proprie paure e del proprio "dover essere" nel tentativo pervicace di essere accettata dal prossimo, per cui era come trasparente, e prima sospende i colloqui col professor Alaoui, poi si rinchiude in sé stessa man mano che prende coscienza della gabbia in cui si è messa da sola per una serie di circostanze, di cui il regista accenna ma senza giustificare in alcun modo i suoi atti. Né li giustifica Elisa, e tantomeno il criminologo, con il quale decide di riprendere i contatti, ma che è riuscito a capirne le motivazioni così come le ha comprese lei stessa: che è la prima condizione per fare un passo avanti, dato che ciò che è stato non è mutabile. Ed è anche la prima condizione per cui non si ripeta. La potente fotografia è di Luca Bigazzi, l'accompagnamento musicale sempre adeguato, tutto quanto ineccepibile: un film profondo e coinvolgente, Ronchi e Zem a livelli di eccellenza. 

lunedì 8 settembre 2025

I Roses

"I Roses" (The Roses) di Jay Roach. Con Olivia Colman, Benedict Cumberbatch, Andy Samberg, Kate McKinnon, Allison Janney, Sunita Mani, Ncuti Gatwa, Zoe Chao, Jamie Demetriou e altri. USA 2025 ★★1/2

Eccoci al rifacimento, 36 anni dopo, de La guerra dei Roses, tratto dall'omonimo romanzo di Warren Adler e diretto da Danny De Vito: commedia noir sulla disastro finale di una relazione coniugale apparentemente perfetta, almeno fino allo scoppio della crisi, era un film di una cattiveria fumigante, scorretto, rimasto nella memoria anche per l'interpretazione superba dei due protagonisti, Michael Douglas e Kathleen Turner. Questo ne è la versione edulcorata e buonista, se non pensata espressamente per l'infanzia, per un livello di apprezzamento non molto più in là, non a caso  prodotta dalla Disney: i dissidi di coppia sono perlopiù verbali e si sostanziano in battute spesso sagaci di humor tipicamente inglese, che contrastano con l'ambientazione invece californiana. E inglese è la coppia di interpreti, che di per sé è l'unico aspetto che giustifica il prezzo del biglietto, dove Cumberbatch è Theo, un ambizioso architetto frustrato dai dormitori a forma di cubo che gli tocca progettare nello studio in cui lavora e la Colman è Ivy, una fantasiosa e irriverente chef di un ristorante alla moda dove le archistar londinesi usano cenare. Lui si intrufola in cucina, si punzecchiano verbalmente e si amano al primo scambio di frecciate. Nascono due figli e la coppia si trasferisce in California (non si capisce bene perché) e quando i ragazzi ormai sono sui 10 anni e non hanno più bisogno che la madre li segua tutto il giorno, Ivy, su idea del marito, apre un modesto ristorantino per rinverdire la sua passione gastronomica. Gli yankees, si sa, sono degli analfabeti in materia ed è sufficiente che qualcuno proponga qualcosa di diverso da hot dogs, donuts, thamurgers, tacos e quella cosa che loro osano chiamare pizza per ottenere un successo che diventa travolgente quanto inaspettato. Nel frattempo, Theo ha costruito un suggestivo e stravagante museo nella cittadina sulla costa in cui vivono, dotato di una vela sul tetto: durante un violento nubifragio, questa non solo si stacca ma causa il crollo dell'intera struttura. Come se non bastasse, il tutto, compreso Theo che smadonna e si dispera, viene filmato e divulgato in rete, diventando virale. Carriera rovinata, i ruoli della coppia si ribaltano e sarà lui dovere occuparsi della casa e dell'educazione della prole mentre lei seguirà il locale, che avrà così tanto successo da avere delle gemmazioni, in franchising, in tutto lo Stato. I rancori e la frustrazione covano sotto la cenere benché Ivy, generosamente, incarichi Theo di progettare e costruire, in mezzo ai boschi e con vista Oceano, la casa dei loro sogni: un progetto all'altezza delle sue (esagerate) ambizioni professionali. Quando vedrà finalmente la luce, e sforato ampiamente ogni budget grazie alle fisime estetizzanti e cervellotiche tipiche dell'architetto à la page, e i ragazzi, indirizzati in modo maniacale all'atletismo dal padre, subodorando la crisi  di coppia hanno ormai preso il largo con la scusa di una borsa di studio sportiva in un liceo della Florida, dall'altro capo degli States, complice una cena di inaugurazione con due coppie di amici locali, uno più deficiente dell'altro, il conflitto, cresciuto a forza di invidia, competizione, risentimento, si scatena e avrà per oggetto la proprietà della casa in caso di divorzio, ma occupa uno spazio molto minore rispetto alla prima versione cinematografica, è platealmente poco credibile, e anche l'epilogo, con la morte di entrambi i contendenti, è di fatto uno happy end, cosa che manca del tutto nel film di De Vito, che è a ben altri livelli rispetto a questo Jay Roach, autore di pellicole sul cazzone andante. A loro modo divertenti ma senza mordente. Cose da bambini per l'appunto. Però qualche sommessa risata perfino I Roses riescono a strapparla. 

mercoledì 3 settembre 2025

L'ultimo turno

"L'ultimo turno" (Heldin) di Petra Biondina Volpe. Con Leonie Benesch, Sonia Riesen, Alireza Bayram, Selma Jamal Aldin, Urs Biehler, Jasmin Mattei, Andreas Beutler, Lale Yavas e altri Svizzera, Germania 2025 ★★★★★

Un film splendido, nella sua semplicità, perché vero e interpretato in maniera così credibile da far venire il dubbio che si tratti di un documentario oppure davvero del personale di un ospedale cantonale della Svizzera tedesca alle prese con dei pazienti reali. Siamo in un'affollata corsia di un reparto di medicina interna, che nel turno pomeridiano viene gestito da sue sole infermiere: Floria, la bravissima Leonie Benesch, a la collega Bea, che si occupa dell'altro settore, con l'unico supporto di una giovane tirocinante da istruire. La telecamera della regista la segue passo passo durante le sue frenetiche ore di servizio in lunghi piani sequenza che consentono allo spettatore di identificarsi con la protagonista: efficiente, precisa, ma soprattutto umana, riesce a stare dietro a tutti i ricoverati: chi in attesa ansiosa di un referto o della visita di un medico (non ne transiterà uno in tutto il pomeriggio, e Floria incontrerà una chirurga, altrettanto stressata dopo una giornata in sala operatoria, che rispondendole in malo modo rimanderà alla mattinata successiva il colloquio con un malato che l'attendeva ansioso fin dall'inizio della giornata), chi rassegnato alla fine, chi affetto da demenza senile, chi disobbediente, chi indisponente come un assistito con assicurazione privata sistemato in camera singola a pagamento, che pretenderebbe di avere un servizio da Grand Hotel senza rendersi minimamente conto della realtà in cui si trova a operare il personale della struttura. Come se non bastasse, le tocca avere a che fare anche coi parenti di una moribonda e gestirli dopo averne annunciato il decesso. Sempre in prima linea, anche  con problemi di comunicazione in una realtà, quella elvetica, dove la presenza di immigrati non del tutto integrata è ben più massiccia che in Italia. Un vero angelo, oltre che una eroina (Heldin), come da titolo in tedesco. E di eroismo del personale sanitario si era parlato ai tempi dell'epidemia di Sars CoV-2, alias Covid19, in tempi che oggi sembrano remoti, tanto li abbiamo rimossi dal nostro immaginario, eppure sono trascorsi soltanto quattro anni dalla fase più acuta, senza che dall'allucinante si sia imparata alcuna lezione. Se possibile, la situazione su lato sanitario è perfino peggiorata, specie nel settore pubblico, a causa dei continui tali di spesa (nell'UE si preferisce finanziare il riarmo e perfino concedere agli Stati di indebitarsi ulteriormente per esso), ma quello che è messo peggio è proprio il personale infermieristico, quello a più stretto contatto con i degenti: un lavoro durissimo che non è possibile fare se, oltre ad averne le capacità professionali e uno spirito di sacrificio sovrumano (i pazienti di Floria, compreso alla fine quello più odioso, le riconosceranno una caratura angelica) non si è dotati di un'empatia e una dedizione fuori dal comune. Bastano 90 minuti filmati in maniera essenziale quanto efficace per descrivere una realtà e denunciare una situazione che sta assumendo dimensioni drammatiche: in una dicitura al termine della pellicola si rimarca che in un Paese come la Svizzera, con un sistema sanitario che altri Paesi europei, a cominciare dal nostro, possono soltanto sognarsi e con degli stipendi di ben altro livello rispetto ai nostri, più di un terzo degli infermieri abbandona il lavoro dopo 4 anni di servizio ed entro il 2030 ne mancheranno almeno 30 mila di quelli specializzati. Questo con una popolazione che inesorabilmente invecchia in tutto il Continente. Sarebbe ora che chi governa (?) se ne occupi. Invece nei media prevalgono la propaganda bellica e il pettegolezzo sui VIP, tanto siamo messi male. E, per quanto riguarda il cinema, l'argomento è come si veste chi sfila sul red carpet sul Lido di Venezia alla Mostra del Cinema in corso. Oltre che ben fatto, un film necessario: ma lavori come questo un premio prestigioso non lo vinceranno mai. Nemmeno alla Berlinale, uno dei pochi festival seri rimasti, dove pure è stato presentato quest'anno.