"Le città di pianura" di Francesco Sossai. Con Pierpaolo Capovilla, Sergio Romano, Filippo Scotti, Andrea Pennacchi, Roberto Citran e altri. Italia, Germania 2025 ★★★★★
Evviva! E' con grande piacere che segnalo il più sorprendente film italiano dell'anno, secondo lungometraggio del bellunese di Feltre Francesco Sossai, il cui sottotitolo è, non a caso, Andiamo a bere l'ultima?: a Pedavena, nelle immediate vicinanze, ha sede la più grande birreria d'Italia, nella sede dell'omonimo storico birrificio. L'esordio, quattro anni fa, avvenne con Altri cannibali, che mi ero sciaguratamente perso e vedrò di recuperare, lungometraggio di diploma degli studi di regìa presso la Deutsche Film und Fernsehakademie di Berlino, dove aveva seguito i corsi, fra gli altri, del grande Béla Tarr. Qui ha confezionato un apparentemente stralunato road movie sulle strade di casa, quel Veneto di pianura situato tra le Dolomiti e la Laguna veneziana stravolto e cementificato nel corso degli ultimi quarant'anni dalla miriade di capannoni industriali, aziende, officine, centri commerciali, palazzine obbrobriose e villette bifamiliari che hanno spazzato via il paesaggio rurale di un tempo dando vita al cosiddetto "sviluppo" e arricchimento, unicamente in termini di schei e immiserimento umano di quella che da sempre è stata la terra di più forte emigrazione italiana all'estero, ben più del meridione, isole comprese; la regione del nuovo miracolo economico della micro e media imprenditorialità avviato nel secondo dopoguerra ed esploso negli anno Ottanta, che ha catapultato nella "modernità" il NordEst, snaturandolo. La devastazione e spersonalizzazione è tanto paesaggistica quanto umana, e lo testimoniano due cinquantenni, Carlobianchi e Doriano detto Dori, rispettivamente gli ottimi Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla, già lavoratori presso un'azienda che produceva occhiali, e travolti dalla crisi del 2008: ora, sopravvivono con lavori socialmente utili nel piccolo comune di residenza e si dedicano alla rievocazione dei ricordi nonché alla ricerca delle tracce del passato in ciò che ne sopravvive nelle rare bettole e osterie rimaste in vita, tra fiaschi di vino, fette di sopressa, e tocchi di formaggio, grappe, qualsiasi intruglio che contenga alcol e alla costante ricerca del luogo in cui bere l'ultima birretta, un dovere ineluttabile di cui Carlobianchi, diplomato ragioniere e non privo di nozioni fondamentali di macroeconomia, dimostra la necessità in base alla teoria dell'utilità marginale. Li ritroviamo una sera, addormentati in macchina, mentre sono in viaggio per andare all'aeroporto a prendere l'amico Genio (Andrea Pennacchi), col quale nella fabbrica dove lavoravano avevano messo in piedi un commercio parallelo di occhiali che sottraevano all'azienda per arrotondare lo stipendio, il quale rientra dopo svariati anni dall'Argentina dove si era rifugiato per sfuggire alla giustizia: il reato è finalmente prescritto, lui non li ha traditi e si favoleggia che abbia nascosto il gruzzolo prima di partire nella zona. Peccato che Venezia di aeroporti ne abbia due, e in prima battuta optano, sbagliando, per Tessera (l'altro è Treviso) ma è presto, per cui arrivano in città, in uno dei rari bacari sopravvissuti, vicino alla sede dello IUAV ai Tolentini, dove si imbattono in Giulio (Filippo Scotti), un ingenuo e disarmante studente di architettura perdutamente innamorato della protagonista di una festa di laurea. Comincia un delirante viaggio proprio nell'orripilante panorama semiurbano della pianura del titolo, dove ogni tanto spunta una testimonianza del passato (una decadente villa con splendidi affreschi in rovina, il Memoriale Brion di Altivole realizzato dall'architetto Carlo Scarpa, i resti di mitiche osterie dove Carlobianchi, Dori e Genio andavano a divorare lumache e polenta e a tracannare vino per poi proseguire alla ricerca di innumerevoli "ultime"): per il ragazzo è un'iniziazione e una rivelazione, perché attraverso i racconti dei due mentori comincia a guardare il mondo e la realtà da una prospettiva completamente diversa da quella abituale, ma almeno altrettanto valida e plausibile, mentre i due cinquantenni trovano un senso alle loro peregrinazioni attraverso lo "svezzamento" del ragazzo, una buona azione a base di buon senso e generosità disinteressata e a loro volta imparano da Giulio a vedere quanto il loro ambiente di un tempo, quella che era una terra agricola e un paesaggio incantevole, sia diventata semplicemente territorio da occupare, edificare in modo quasi sempre osceno e poi abbandonare, una volta sfruttato; un panorama dove non si hanno punti di riferimento, uguale dappertutto in una landa pressoché desolata dove ci si avventura soltanto di passaggio e destinata ad una americanizzazione ormai completa. Alla fine di una "due giorni" ad alto tasso alcolico (e filosofico) ritroveranno pure Genio, che però non sarà a sua volta in grado di recuperare il malloppo nascosto in un campo non lontano dalla sua abitazione, perché finito sotto le fondamenta dell'ennesimo "marnone" di cemento armato, peraltro abbandonato in rovina. Davvero grande cinema, un film perfetto, pieno di citazioni mai stucchevolmente compiaciute, ma da cui si può imparare; stilisticamente sono evidenti le influenze di maestri come Wenders (in particolare Nel corso del tempo), Kaurisimäki, ma anche Carlo Mazzacurati, non a caso anche lui veneto, e pure il Dino Risi de Il sorpasso, per rimanere agli europei; davvero bravissimi gli interpreti, perfetta e potente la colonna sonora di Krano, che ibrida la musica country con la tradizione e il dialetto locale.




