"Il Signor Diavolo" di Pupi Avati. Con Filippo Franchini, Gabriel Lo Giudice, Lorenzo Salvatori, Gianni Cavina, Lino Capolicchio, Chiara Caselli, Massimo Bonetti, Riccardo Claut, Ludovica Pedetta e altri. Italia 2019 ★★★=
Il ritorno agli antichi amori (vedi La casa delle finestre che ridono, del 1976) da parte del regista bolognese con un giallo-horror "gotico", come si suol dire, mi ha confermato quanto ho sempre pensato dei suoi lavori: discreti, talvolta buoni, mai ottimi; apprezzo la sua capacità di caratterizzare tipi umani normalissimi alle prese con l'inconsueto se non con il mistero (come in questo caso), ma le sue storie non mi ha mai entusiasmato, e il suo modo di raccontarle l'ho sempre trovato noioso, e non perché prive di colpi di scena (qui ce ne sono, alcuni anche truculenti) e nemmeno perché quasi sempre inserite in atmosfere demodé e collocate in un passato a tratti rimpianto però nemmeno idealizzato. Comunque, cara grazia, con quel che passa il convento in questo periodo. Qui ritorna al 1952, quando un giovane funzionario del ministero di Grazia e Giustizia, finora relegato a ordinare e archiviare fascicoli, viene spedito dai sui superiori a Venezia per cercare di fermare un procedimento giudiziario che potrebbe coinvolgere membri della Chiesa e creare difficoltà al governo De Gasperi di cui questa è un pilastro fondamentale: un adolescente ha ucciso un suo coetaneo, figlio di una facoltosa nobildonna veneziana, ritenendolo nientemeno che il Diavolo, e la donna minaccia di denunciare le omertà e ambiguità del clero nella vicenda (è il sagrestano a inculcare ai ragazzini che stanno facendo catechismo in preparazione della prima comunione il "rispetto" per il maligno, chiamandolo Signore, come da titolo). L'ucciso, un essere deforme e con la dentatura suina (motivo per cui si vocifera, nella campagna lagunare o polesana in cui si sono svolti i fatti, che sia stato concepito dalla madre con lo sperma di un verro) come se non bastasse ha causato la morte del miglior amico del giovane reo confesso nonché, pare, la morte nella culla della sorellina adottiva dopo averla sbranata, altra vicenda su cui non è mai stata fatta chiarezza. Attraverso una serie di flash back durante il viaggio del funzionario da Roma a Venezia vengono visualizzati gli interrogatori del ragazzo e riproposti i fatti a cui si riferiscono; una volta arrivato in loco, il giovane legale scopre che qualcosa non va: troppe contraddizioni, troppi aspetti non chiari, e cerca di approfondire, ma non è quello che i suoi superiori volevano, perché l'intenzione era di insabbiare il tutto e non la ricerca di una verità. Quando verrà sollevato dall'incarico, deciderà di proseguire le indagini per conto suo prima di rientrare a Roma, sempre ammesso che ci torni... Cosa che non svelo e qui mi fermo. Il film, ben interpretato da attori perlopiù semisconosciuti ma non al regista, appartenendo all'entourage di Avati, pur alternando tempi, luoghi, situazioni e personaggi conserva una certa fissità ripetitiva, e pur durando meno di un'ora e mezzo, risulta pesante; anche alcune incongruenze saltano all'occhio, o meglio all'orecchio: veneziani che parlano con accento triestino posticcio o perfino bolognese; motoscafi che sfrecciano dalla Serenissima al Polesine... Mah. Però, come dicevo all'inizio, efficaci le caratterizzazioni e, attraverso queste, la rievocazione di un'epoca passata ma ancora nella memoria di molti, fatta di superstizione e oscurantismo, che non riguardavano soltanto la campagna padana profonda bensì anche ambienti colti e borghesi. Comunque, un film vedibile.
Il ritorno agli antichi amori (vedi La casa delle finestre che ridono, del 1976) da parte del regista bolognese con un giallo-horror "gotico", come si suol dire, mi ha confermato quanto ho sempre pensato dei suoi lavori: discreti, talvolta buoni, mai ottimi; apprezzo la sua capacità di caratterizzare tipi umani normalissimi alle prese con l'inconsueto se non con il mistero (come in questo caso), ma le sue storie non mi ha mai entusiasmato, e il suo modo di raccontarle l'ho sempre trovato noioso, e non perché prive di colpi di scena (qui ce ne sono, alcuni anche truculenti) e nemmeno perché quasi sempre inserite in atmosfere demodé e collocate in un passato a tratti rimpianto però nemmeno idealizzato. Comunque, cara grazia, con quel che passa il convento in questo periodo. Qui ritorna al 1952, quando un giovane funzionario del ministero di Grazia e Giustizia, finora relegato a ordinare e archiviare fascicoli, viene spedito dai sui superiori a Venezia per cercare di fermare un procedimento giudiziario che potrebbe coinvolgere membri della Chiesa e creare difficoltà al governo De Gasperi di cui questa è un pilastro fondamentale: un adolescente ha ucciso un suo coetaneo, figlio di una facoltosa nobildonna veneziana, ritenendolo nientemeno che il Diavolo, e la donna minaccia di denunciare le omertà e ambiguità del clero nella vicenda (è il sagrestano a inculcare ai ragazzini che stanno facendo catechismo in preparazione della prima comunione il "rispetto" per il maligno, chiamandolo Signore, come da titolo). L'ucciso, un essere deforme e con la dentatura suina (motivo per cui si vocifera, nella campagna lagunare o polesana in cui si sono svolti i fatti, che sia stato concepito dalla madre con lo sperma di un verro) come se non bastasse ha causato la morte del miglior amico del giovane reo confesso nonché, pare, la morte nella culla della sorellina adottiva dopo averla sbranata, altra vicenda su cui non è mai stata fatta chiarezza. Attraverso una serie di flash back durante il viaggio del funzionario da Roma a Venezia vengono visualizzati gli interrogatori del ragazzo e riproposti i fatti a cui si riferiscono; una volta arrivato in loco, il giovane legale scopre che qualcosa non va: troppe contraddizioni, troppi aspetti non chiari, e cerca di approfondire, ma non è quello che i suoi superiori volevano, perché l'intenzione era di insabbiare il tutto e non la ricerca di una verità. Quando verrà sollevato dall'incarico, deciderà di proseguire le indagini per conto suo prima di rientrare a Roma, sempre ammesso che ci torni... Cosa che non svelo e qui mi fermo. Il film, ben interpretato da attori perlopiù semisconosciuti ma non al regista, appartenendo all'entourage di Avati, pur alternando tempi, luoghi, situazioni e personaggi conserva una certa fissità ripetitiva, e pur durando meno di un'ora e mezzo, risulta pesante; anche alcune incongruenze saltano all'occhio, o meglio all'orecchio: veneziani che parlano con accento triestino posticcio o perfino bolognese; motoscafi che sfrecciano dalla Serenissima al Polesine... Mah. Però, come dicevo all'inizio, efficaci le caratterizzazioni e, attraverso queste, la rievocazione di un'epoca passata ma ancora nella memoria di molti, fatta di superstizione e oscurantismo, che non riguardavano soltanto la campagna padana profonda bensì anche ambienti colti e borghesi. Comunque, un film vedibile.
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