"Wajib - Invito al matrimonio" (Wajib) di Annemarie Jacir. Con Mohammend Bakri, Saleh Bakri, Maria Zreik, Tarik Kopti, Monera Shehadeh e altri. Palestina 2017 ★★★★
Un film prezioso, fatto con pochi mezzi (si tratta di una produzione indipendente palestinese) interpreti ottimi e più che mai credibili nella parte di padre e figlio essendolo anche nella vita reale e professionale, ispirato da uno spunto autobiografico dell'autrice, la regista e sceneggiatrice cristiano-palestinese Annemarie Jacir, ossia l'usanza da parte degli uomini di famiglia di quella comunità di recapitare personalmente gli inviti scritti ai matrimoni delle figlie e sorelle; una comunità, quella dei cristiani di Palestina, particolarmente nutrita a Nazareth, dove costituiscono un buon terzo della popolazione araba (a sua volta la maggioranza nella città più popolosa della Galilea, nel Nord di Israele): sono chiamati "gli invisibili", in una situazione del tutto anomala sotto l'occupazione ebraica. Il film racconta una giornata di Abu, un sessantenne insegnante, e suo figlio, Shadi, architetto, rientrato per l'occasione da Roma dove convive con la figlia di un ex pezzo grosso dell'OLP, trascorsa su e giù fra le strette stradine di Nazareth a consegnare di persona i wahib, gli inviti, a svariati parenti e amici della comunità, alle nozze della figlia e sorella. Si tratta di una tradizione, anzi: un dovere sociale da effettuare porta a porta, e così vediamo i due uomini, così diversi per età, concezioni, modi di vedere e di vivere, svelarsi man mano attraverso i loro colloqui in tutte le loro differenze, tra una visita dai toni formali e i viaggi sulla vecchia Volvo di Abu, che hanno portato e portano a veri per propri scontri ma anche, alla fine, a una reciproca comprensione. L'anziano professore non ha ancora digerito l'abbandono, anni prima, da parte della moglie, emigrata negli USA e che gli ha lasciato due figli da crescere, di cui la minore sta per lasciare a sua volta la casa di famiglia; per rimanere, ha dovuto convivere, sia con gli ebrei, sia con gli arabi musulmani e tenere un profilo abbastanza basso; il figlio Shadi è del tutto insofferente sia alle tradizioni sia all'andazzo, che considera come un cedimento, una resa da parte della comunità come da parte del padre, a cui rimprovera anche il comportamento durante le visite, perché lascia credere che il figlio tornerà a vivere a Nazareth, che è medico anziché architetto, che potrebbe sposare una ragazza locale. A sua volta, lui stesso rivela solo in un secondo tempo, prima al padre, poi alla sorella, che la rispettiva ex moglie e madre potrebbe decidere di non venire, come aveva assicurato, a questo matrimonio organizzato apposta per lei nel periodo di Natale, quando nessuno si sposa ma lei è libera di prendere ferie, perché la vita del marito "americano" è agli sgoccioli. E' un film semplice, fatto di situazioni di vita di tutti i giorni, delicato e attento pur non nascondendo alcun attrito; senza ipocrisie pur parlando (anche) di ipocrisie, spesso necessarie per sopravvivere in una situazione di stress costante come quello a cui è sottoposta tutta la società israeliana, ma ancor più la sua componente araba e, tra questa, quella ancor più anomala, ma esistente, degli "invisibili" di cui sopra; un film che non ha bisogno di gridare né di situazioni esasperate e drammatiche per raccontare situazioni vere e reali, sia per quanto riguarda i rapporti tra genitori e figli, parenti e conoscenti, sia il contesto del tutto particolare, eppure "normale", in cui avviene: la sensazione è proprio quel di essere lì, in quelle strade, in quelle case, in quei bar, con quella gente, in quel disordine così mediterraneo come il fatalismo e la capacità di adattamento, che non è per forza segno di debolezza. Un film che è una perla rara.
Un film prezioso, fatto con pochi mezzi (si tratta di una produzione indipendente palestinese) interpreti ottimi e più che mai credibili nella parte di padre e figlio essendolo anche nella vita reale e professionale, ispirato da uno spunto autobiografico dell'autrice, la regista e sceneggiatrice cristiano-palestinese Annemarie Jacir, ossia l'usanza da parte degli uomini di famiglia di quella comunità di recapitare personalmente gli inviti scritti ai matrimoni delle figlie e sorelle; una comunità, quella dei cristiani di Palestina, particolarmente nutrita a Nazareth, dove costituiscono un buon terzo della popolazione araba (a sua volta la maggioranza nella città più popolosa della Galilea, nel Nord di Israele): sono chiamati "gli invisibili", in una situazione del tutto anomala sotto l'occupazione ebraica. Il film racconta una giornata di Abu, un sessantenne insegnante, e suo figlio, Shadi, architetto, rientrato per l'occasione da Roma dove convive con la figlia di un ex pezzo grosso dell'OLP, trascorsa su e giù fra le strette stradine di Nazareth a consegnare di persona i wahib, gli inviti, a svariati parenti e amici della comunità, alle nozze della figlia e sorella. Si tratta di una tradizione, anzi: un dovere sociale da effettuare porta a porta, e così vediamo i due uomini, così diversi per età, concezioni, modi di vedere e di vivere, svelarsi man mano attraverso i loro colloqui in tutte le loro differenze, tra una visita dai toni formali e i viaggi sulla vecchia Volvo di Abu, che hanno portato e portano a veri per propri scontri ma anche, alla fine, a una reciproca comprensione. L'anziano professore non ha ancora digerito l'abbandono, anni prima, da parte della moglie, emigrata negli USA e che gli ha lasciato due figli da crescere, di cui la minore sta per lasciare a sua volta la casa di famiglia; per rimanere, ha dovuto convivere, sia con gli ebrei, sia con gli arabi musulmani e tenere un profilo abbastanza basso; il figlio Shadi è del tutto insofferente sia alle tradizioni sia all'andazzo, che considera come un cedimento, una resa da parte della comunità come da parte del padre, a cui rimprovera anche il comportamento durante le visite, perché lascia credere che il figlio tornerà a vivere a Nazareth, che è medico anziché architetto, che potrebbe sposare una ragazza locale. A sua volta, lui stesso rivela solo in un secondo tempo, prima al padre, poi alla sorella, che la rispettiva ex moglie e madre potrebbe decidere di non venire, come aveva assicurato, a questo matrimonio organizzato apposta per lei nel periodo di Natale, quando nessuno si sposa ma lei è libera di prendere ferie, perché la vita del marito "americano" è agli sgoccioli. E' un film semplice, fatto di situazioni di vita di tutti i giorni, delicato e attento pur non nascondendo alcun attrito; senza ipocrisie pur parlando (anche) di ipocrisie, spesso necessarie per sopravvivere in una situazione di stress costante come quello a cui è sottoposta tutta la società israeliana, ma ancor più la sua componente araba e, tra questa, quella ancor più anomala, ma esistente, degli "invisibili" di cui sopra; un film che non ha bisogno di gridare né di situazioni esasperate e drammatiche per raccontare situazioni vere e reali, sia per quanto riguarda i rapporti tra genitori e figli, parenti e conoscenti, sia il contesto del tutto particolare, eppure "normale", in cui avviene: la sensazione è proprio quel di essere lì, in quelle strade, in quelle case, in quei bar, con quella gente, in quel disordine così mediterraneo come il fatalismo e la capacità di adattamento, che non è per forza segno di debolezza. Un film che è una perla rara.
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