"L'isola dei cani" (Isle Of Dogs) di Wes Anderson. USA 2018 ★★★★½
Nella versione originale, il cast completo dei doppiatori comprende niente meno che: Bryan Cranston, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Greta Gerwig, Bill Murray, Frances McDormand, Harvey Keitel, Edward Norin, Jeff Goldblum, Bob Balaban, F. Murray Abraham, Kunichi Nomura, Akira Ito, Yoko Ono, Liev Scrreiber. Quelli italiani potete trovarli su questa pagina di Wikipedia ma, trattandosi di semplici doppiatori, e non di attori di chiara fama, la distribuzione si è ben guardata dal renderne noti i nomi. Questa è una cosa che fa girare i coglioni assai: perché da un lato non si finisce di decantare la qualità della scuola di doppiaggio nostrana; dall'altra si dimentica che il motivo è che l'Italia è un Paese in cui avere l'occasione di vedere un film in lingua originale sottotitolata è l'eccezione anziché la regola, una bizzarria per cinéphiles, mentre il pubblico normale deve sorbirsi il romanesco in bocca ai newyorkesi o financo ai vietnamiti, compresi i titoli delle pellicole d'importazione film tradotti sistematicamente a cazzo. Ma torniamo a Wes Anderson che non si merita questa digressione perché si conferma un artista a tutto tondo: autore di vaglia, regista attento e maniacale nei particolari ma al contempo estroso, poetico e di una lievità che nulla toglie alla profondità dei temi che affronta, sempre con ironia e leggerezza. Per esprimersi passa dal film convenzionale a quello di semi-animazione, come Grand Budapest Hotel, a quello surreale dei Tenenbaum a quello on the road de Il treno per il Darjeeling. Qui siamo al cartone animato integrale, girato con la tecnica "passo uno", detta stop-motion, che racconta la storia, ambientata in un Giappone del 2037 ancora più distopico di quel che è già ai nostri tempi, suddivisa in didascalici capitoli, di un ragazzino dodicenne, Atari Kobayashi, orfano e adottato dallo zio, sindaco della metropoli di Megasaki, che va alla ricerca del suo cane da guarda Spots, deportato per volere dello zio assieme a tutta la popolazione canina della megalopoli su un'isola-discarica dopo che questa è stata infettata da un virus influenzale che si vuol far credere possa contagiare anche gli umani (gattofili). Lì riceverà il supporto da parte della disomogenea intelligencija canina al confino, mentre nella megalopoli governata dal suo parente e tutore opererà un gruppo di studenti e hacker ribelli capitanati da una ragazza straniera in Giappone per una specie di Erasmus, assetata di giustizia, non solo canina, e che ha una cotta per lui. La storia è ovviamente un puro pretesto, ma la grande bravura di Anderson è nel fatto di riuscire a coinvolgere, come sempre, ogni fascia di pubblico al livello in cui questa si rende disponibile a farsi rendere partecipe: chiunque, da un bambino di 5 anni, a un novantenne, può trovare, senza alcun bisogno di spiegazioni, e avvalendosi delle immagini e perfino dei dialoghi appositamente lasciati in giapponese ma comprensibilissimi per la loro sostanza proprio grazie alle immagini, un senso e una ragione nella vicenda. Alla fine si ha sensazione soddisfatta di aver visto qualcosa di bello, coinvolgente, che avesse un senso. Attraverso un cartone animato a lieto fine. Non è poco: è arte, ed è poesia.
Nella versione originale, il cast completo dei doppiatori comprende niente meno che: Bryan Cranston, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Greta Gerwig, Bill Murray, Frances McDormand, Harvey Keitel, Edward Norin, Jeff Goldblum, Bob Balaban, F. Murray Abraham, Kunichi Nomura, Akira Ito, Yoko Ono, Liev Scrreiber. Quelli italiani potete trovarli su questa pagina di Wikipedia ma, trattandosi di semplici doppiatori, e non di attori di chiara fama, la distribuzione si è ben guardata dal renderne noti i nomi. Questa è una cosa che fa girare i coglioni assai: perché da un lato non si finisce di decantare la qualità della scuola di doppiaggio nostrana; dall'altra si dimentica che il motivo è che l'Italia è un Paese in cui avere l'occasione di vedere un film in lingua originale sottotitolata è l'eccezione anziché la regola, una bizzarria per cinéphiles, mentre il pubblico normale deve sorbirsi il romanesco in bocca ai newyorkesi o financo ai vietnamiti, compresi i titoli delle pellicole d'importazione film tradotti sistematicamente a cazzo. Ma torniamo a Wes Anderson che non si merita questa digressione perché si conferma un artista a tutto tondo: autore di vaglia, regista attento e maniacale nei particolari ma al contempo estroso, poetico e di una lievità che nulla toglie alla profondità dei temi che affronta, sempre con ironia e leggerezza. Per esprimersi passa dal film convenzionale a quello di semi-animazione, come Grand Budapest Hotel, a quello surreale dei Tenenbaum a quello on the road de Il treno per il Darjeeling. Qui siamo al cartone animato integrale, girato con la tecnica "passo uno", detta stop-motion, che racconta la storia, ambientata in un Giappone del 2037 ancora più distopico di quel che è già ai nostri tempi, suddivisa in didascalici capitoli, di un ragazzino dodicenne, Atari Kobayashi, orfano e adottato dallo zio, sindaco della metropoli di Megasaki, che va alla ricerca del suo cane da guarda Spots, deportato per volere dello zio assieme a tutta la popolazione canina della megalopoli su un'isola-discarica dopo che questa è stata infettata da un virus influenzale che si vuol far credere possa contagiare anche gli umani (gattofili). Lì riceverà il supporto da parte della disomogenea intelligencija canina al confino, mentre nella megalopoli governata dal suo parente e tutore opererà un gruppo di studenti e hacker ribelli capitanati da una ragazza straniera in Giappone per una specie di Erasmus, assetata di giustizia, non solo canina, e che ha una cotta per lui. La storia è ovviamente un puro pretesto, ma la grande bravura di Anderson è nel fatto di riuscire a coinvolgere, come sempre, ogni fascia di pubblico al livello in cui questa si rende disponibile a farsi rendere partecipe: chiunque, da un bambino di 5 anni, a un novantenne, può trovare, senza alcun bisogno di spiegazioni, e avvalendosi delle immagini e perfino dei dialoghi appositamente lasciati in giapponese ma comprensibilissimi per la loro sostanza proprio grazie alle immagini, un senso e una ragione nella vicenda. Alla fine si ha sensazione soddisfatta di aver visto qualcosa di bello, coinvolgente, che avesse un senso. Attraverso un cartone animato a lieto fine. Non è poco: è arte, ed è poesia.
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