"Nome di donna" di Marco Tullio Giordana. Con Cristiana Capotondi, Valerio Binasco, Bebo Storti, Stefano Scandaletti, Michela Cescon, Anita Kravos, Laura Marinoni e altri. Italia 2018 ★★★-
Ho sempre apprezzato Marco Tullio Giordana, milanese e per di più ex berchettiano, per cui un surplus di pregiudizio positivo da parte mia è quasi d'obbligo, oltre che scontato, per il suo cinema d'impegno civile e lo stile asciutto, essenziale, quasi didascalico, però stavolta non sono del tutto convinto, benché Nome di donna meriti comunque la sufficienza. Girato durante l'estate scorsa nel Pavese e in piccola parte a Milano, il film affronta il tema delle molestie sessuali e della cappa di omertà e ipocrisia che si stende su di esse, in tempi non sospetti, ben prima che scoppiasse il Caso Weinstein, nell'ottobre del 2017; in particolare nell'ambiente di lavoro, quando una delle due parti è particolarmente debole non solo contrattualmente ma per le sue stesse condizioni personali, in questo caso l'essere una ragazza madre, e la denuncia degli assalti sessuali è resa ancor più difficile dalla complicità più o meno consapevole che spesso unisce vittime e carnefice. In questo caso il direttore di una prestigiosa casa di riposo per anziani, di cui è azionista anche le chiesa, impersonato da un bravissimo Valerio Binasco, capace di far trasparire sotto una maschera di imperturbabile irreprensibilità e correttezza tutta la laidità del soggetto, occultata con tanta cura e faccia di bronzo, senza mai forzare i toni. Costui compie delle innegabili avance nei confronti di una giovane addetta, Nina, assunta da poco in pianta stabile per il suo zelo dopo una sostituzione, e che per questo dovrebbe mostrargli una gratitudine con atti che per l'uomo sembrano scontati. Così non è, perché dopo alcune titubanze, dovute soprattutto alla freddezza e finanche fastidio con cui la maggior parte delle sue colleghe, quasi tutte provenienti dall'Europa dell'Est, accolgono il suo sfogo, la ragazza si decide di denunciare il fatto, convinta sia dal fidanzato, sia da una sindacalista che già aveva condotto un'inchiesta tempo prima nella residenza sospettando qualcosa. Il film descrive molto bene e in maniera credibile tutte le fasi della vicenda, dal licenziamento di Nina poi rientrato a patto di sottoscrivere un'autodenuncia per diffamazione da parte del prete che è responsabile del personale (quest'ultimo interpretato benissimo da Bebo Storti, un attore troppo poco utilizzato al cinema); alla reticenza da parte della magistratura nel condurre un'inchiesta; alla gestione del caso in tribunale, sia da parte dei giudici, sia da parte degli avvocati; alla prima condanna mite e alla seconda, con vittoria e giustizia ottenuta in appello. Tutto bene salvo l'inserimento in due momenti del film della figura della figlia del molestatore, di cui non si capisce bene il senso, tanto sembra inserita per caso, o lasciata lì in fase di montaggio, e le parti di Nina, che pure è il personaggio principale, e del suo compagno, che fanno la figura dei carciofi: il secondo una figura appena sbozzata, su cui l'interprete non ha potuto intervenire molto; la prima che non suscita la minima empatia, e così ci va di mezzo la povera Nina: per quanto mi sforzi, non ricordo una parte della Capotondi in cui non sembri un baccalà, mancando di qualsiasi espressività e comunicativa: il che, per qualcuno che di professione fa l'attore, è un bel problema. Per fortuna del film gli altri suoi colleghi, oltre a quelli citati in particolare la Cescon e la Marinoni, rendono tutto più credibile.
Ho sempre apprezzato Marco Tullio Giordana, milanese e per di più ex berchettiano, per cui un surplus di pregiudizio positivo da parte mia è quasi d'obbligo, oltre che scontato, per il suo cinema d'impegno civile e lo stile asciutto, essenziale, quasi didascalico, però stavolta non sono del tutto convinto, benché Nome di donna meriti comunque la sufficienza. Girato durante l'estate scorsa nel Pavese e in piccola parte a Milano, il film affronta il tema delle molestie sessuali e della cappa di omertà e ipocrisia che si stende su di esse, in tempi non sospetti, ben prima che scoppiasse il Caso Weinstein, nell'ottobre del 2017; in particolare nell'ambiente di lavoro, quando una delle due parti è particolarmente debole non solo contrattualmente ma per le sue stesse condizioni personali, in questo caso l'essere una ragazza madre, e la denuncia degli assalti sessuali è resa ancor più difficile dalla complicità più o meno consapevole che spesso unisce vittime e carnefice. In questo caso il direttore di una prestigiosa casa di riposo per anziani, di cui è azionista anche le chiesa, impersonato da un bravissimo Valerio Binasco, capace di far trasparire sotto una maschera di imperturbabile irreprensibilità e correttezza tutta la laidità del soggetto, occultata con tanta cura e faccia di bronzo, senza mai forzare i toni. Costui compie delle innegabili avance nei confronti di una giovane addetta, Nina, assunta da poco in pianta stabile per il suo zelo dopo una sostituzione, e che per questo dovrebbe mostrargli una gratitudine con atti che per l'uomo sembrano scontati. Così non è, perché dopo alcune titubanze, dovute soprattutto alla freddezza e finanche fastidio con cui la maggior parte delle sue colleghe, quasi tutte provenienti dall'Europa dell'Est, accolgono il suo sfogo, la ragazza si decide di denunciare il fatto, convinta sia dal fidanzato, sia da una sindacalista che già aveva condotto un'inchiesta tempo prima nella residenza sospettando qualcosa. Il film descrive molto bene e in maniera credibile tutte le fasi della vicenda, dal licenziamento di Nina poi rientrato a patto di sottoscrivere un'autodenuncia per diffamazione da parte del prete che è responsabile del personale (quest'ultimo interpretato benissimo da Bebo Storti, un attore troppo poco utilizzato al cinema); alla reticenza da parte della magistratura nel condurre un'inchiesta; alla gestione del caso in tribunale, sia da parte dei giudici, sia da parte degli avvocati; alla prima condanna mite e alla seconda, con vittoria e giustizia ottenuta in appello. Tutto bene salvo l'inserimento in due momenti del film della figura della figlia del molestatore, di cui non si capisce bene il senso, tanto sembra inserita per caso, o lasciata lì in fase di montaggio, e le parti di Nina, che pure è il personaggio principale, e del suo compagno, che fanno la figura dei carciofi: il secondo una figura appena sbozzata, su cui l'interprete non ha potuto intervenire molto; la prima che non suscita la minima empatia, e così ci va di mezzo la povera Nina: per quanto mi sforzi, non ricordo una parte della Capotondi in cui non sembri un baccalà, mancando di qualsiasi espressività e comunicativa: il che, per qualcuno che di professione fa l'attore, è un bel problema. Per fortuna del film gli altri suoi colleghi, oltre a quelli citati in particolare la Cescon e la Marinoni, rendono tutto più credibile.
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