Usciti entrambi in Italia il 22 marzo e avendo per tema i riflessi famigliari dei perduranti conflitti mediorientali, ambientati l'uno in Israele e l'altro in Siria, i due film si prestano ad essere confrontati sia per la loro resa cinematografica, sia per i contenuti.
"Foxtrot - La danza del destino" (Foxtrot) di Samuel Maoz. Con Lior Ashkenazi, Sara Adler, Yonatan Shiray, Gefen Barkai, Dekel Adin, Shaul Amir e altri. Israele, Germania, Francia 2017 ★★
La notizia della morte del figlio Jonathan militare di leva, portata da tre giovani in divisa dell'esercito israeliano a una famiglia benestante di Tel Aviv, fulmina la madre, Dafna, che viene immediatamente narcotizzata e colpisce irrimediabilmente Michael, un architetto di successo, lasciandolo alle prese, con il solo soccorso del fratello, non solo col dolore ma come se non bastasse con le disumane formalità della burocrazia militaresca di un Paese che sembra aver trovato nella guerra e nella caccia al nemico, esterno e interno, la propria ragion d'essere e ormai la sua identità, ormai in preda alla paranoia. Tutto viene nascosto, a cominciare da come si è svolta la tragedia, al corpo del ragazzo: non viene rivelato nulla, per cui tutto appare all'uomo come irreale, e forse lo è, come si viene a scoprire nella seconda parte del film, che si svolge nel posto di blocco perso nel nulla (viene inevitabilmente in mente il Deserto dei Tartari) dove Jonathan assieme a un gruppo di altri ragazzi, alloggiati in una cisterna sbilenca, presta servizio, a controllare il passaggio su una strada di scarsissimo transito, ma la beffa finale è in arrivo, ancora più crudele, nella terza parte che si svolge nuovamente nell'appartamento di prestigio in città, con Dafne che si è ripresa dal sonno indotto, e così vediamo in scena ed interloquire anche lei e la figlia della coppia. Una tragedia (intimista e circolare, da cui non si scappa) dell'assurdo in tre atti, che sarebbe ideale per il teatro, ma non funziona al cinema, o almeno non in questo caso, in cui tutto sembra fasullo, una pure costruzione intellettuale, e perfino gli interpreti risultano privi di qualsiasi empatia e credibilità. Certo, viene denunciato lo psicodramma di un'intera nazione e il suo adeguarsi all'insensatezza, e dove la protesta individuale non ha alcun peso, ma in trasparenza di legge anche l'incapacità di un'intera classe intellettuale, specie quella di origine europea, quella stessa descritta dal regista e a cui probabilmente appartiene, di cambiare il corso delle cose: del resto i privilegi di quest'ultima poggiano sull'adesione al modello americano e sul sostegno che lo Zio Sam e la sua consorteria militar-finanziaria fornisce a Israele fin dalla sua nascita e alla sua logica, altrimenti non si spiegherebbe che la situazione conflittuale venga volutamente perpetuata con voci contrarie sempre più flebili e a cui film come questo, autoreferenziale, estetizzante e inutilmente cervellotico fino a diventare indisponente, non danno forza.
Ben altro spessore e impatto ha questo film esemplare del regista belga Philippe Van Leeuw, che raccontando la claustrofobica quotidianità della vita in un appartamento in una qualche città della Siria teatro di scontri tra fazioni e oggetto di bombardamenti di varia provenienza, si innalza dal particolare, dalla storia e dalle reazioni profondamente umane della gente qualunque (e quindi non la classe intellettuale e dirigente israeliana di Foxtrot) davanti a degli eventi catastrofici su cui non ha alcun potere di influenza, e a cui pure si deve adattare per tentare di sopravvivere, per esprimere dei valori più alti e universali ma pur sempre autentici, non artefatti intellettualizzati. Gli è sufficiente illustrare una giornata, da un'alba a quella successiva, nell'abitazione che una donna determinata e coraggiosa, Oum Yazan, una superlativa Hiam Abbas, non vuole lasciare a meno che la situazione non precipiti e che il marito, che non ha potuto mettersi in contatto con la famiglia, non sia d'accordo: troppo a lungo è stata costretta a vagare nella sua esistenza, e ora provvede alla sicurezza e alla sopravvivenza, sforzandosi di dare una parvenza di normalità nonostante vivano barricati, dei propri tre figli, di un loro amico, del vecchio suocero, della domestica di origine indiana e di una giovane coppia di vicini con un neonato in procinto di scappare in Libano, il cui appartamento al piano di sopra è stato devastato da un'esplosione e successivamente svaligiato da un gruppo di sciacalli. Evito accuratamente di raccontare gli episodi salienti, limitandomi a dire che sono più che plausibili, perfino normali, in una situazione di tal genere, pur non essendo mai completamente prevedibili, perché se da un lato l'essere umano si adegua a tutto pur di sopravvivere, al peggio non sembra esservi mai fine. Eppure, pur con tutte le contraddizioni che emergono in maniera ancora più scoperta, il bisogno di vita e di calore e di una certa quotidianità ha il sopravvento, anche e soprattutto nel momento delle scelte, spesso dolorose e laceranti. Sono cose che anche gli interpreti sentono, perfino se non soprattutto i più giovani, risultando veri prima ancora che credibili, a differenza che in Foxtrot, e anche per questo Isyriated rimane impresso nella memoria e nel cuore, ed è capace di smuovere sentimenti di solidarietà verso chi decide di fuggire da realtà come quella siriana perché ci si riesce a mettere nei loro panni.