"The Post" di Steven Spielberg. Con Tom Hanks, Merryl Streep, Bob Odenkirk, Bruce Greenwood, Sarah Paulson, Carrie Coon, Bradley Whitford, Matthew Rhys, Jesse Plemons, Alison Brie, Zach Woods e altri. USA 2017 ★★★★★
Considero Steven Spielberg un grande cineasta, anche se non è mai stato uno dei miei registi preferiti, troppo americano per i miei gusti, e troppo inserito nell'ambiente hollywoodiano di stampo liberal-buonista da jet set per appassionarmi, ed ero curioso di vederlo alla prova con un tema cruciale come quello dei rapporti tra informazione e potere, lui che in ogni suo film ha comunque in qualche modo affrontato il tema della comunicazione. E mi ha convinto. Il film prende le mosse dalla sottrazione di un dossier segreto di 7000 pagine sulle strategie degli USA in Vietnam fin dai tempi di Truman da parte di Daniel Ellsberg, un ex militare ed economista che lavorava per la Rand Corporation ed era stato testimone diretto in loco del massimo sforzo del Pentagono in quella guerra che i vertici sapevano inevitabilmente persa. Nonostante ciò, continuarono a mandare al massacro decine di migliaia di giovani, allora di leva, che ci lasciarono la pelle o furono traumatizzati a vita. Noti come Pentagon Papers, un loro estratto venne pubblicato dal New York Times nel 1971 ma un'ingiunzione da parte della Casa Bianca, presidente Richard Nixon, segretario di Stato Henry Kissinger, impedì che il giornale di Abe Rosenthal continuasse a diffonderli. Lo fece, prendendo il testimone, in nome della libertà di stampa, il Washington Post, nel momento cruciale e delicatissimo del suo passaggio da giornale di élite ma pur sempre locale (District of Columbia) a realtà nazionale, con relativa quotazione in borsa. Rischiando di alienarsi l'appoggio degli investitori, la responsabilità della scelta l'assunse la proprietaria del giornale, Katharine (Kay) Graham, arrivata alla guida dell'azienda di famiglia a causa di un evento tragico: il suicidio del marito, a cui il padre di lei l'aveva affidata. Certo, su sollecitazione del suo direttore, il brillante, carismatico e sanguigno Ben Bradlee, già intimo del clan Kennedy e disilluso quando scopre che anche il "suo" presidente si era comportato come gli altri, anzi: aveva mandato altre truppe a combattere una guerra che sapeva , in base agli studi del Dipartimento della Difesa, persa in partenza. Si tratta dello stesso leggendario direttore che, pochi mesi dopo, diede il via libera ai suoi segugi Bob Woodward e Carl Bernstein sull'affare Watergate: e qui siamo al mito per chiunque si occupi seriamente di giornalismo e ne conosca, anche solo a grandi linee, la storia. E' su questo particolare snodo della vicenda che si concentra il racconto di Spielberg, il quale comunque ordisce una trama da thriller di razza, cominciando dagli antecedenti della sottrazione dei papers fotocopiati uno per uno con le rudimentali macchine d'allora (e poi via di forbici) e proseguendo con la caccia scatenata per recuperarli: vengono mandati in missione a New York prima un praticante, poi una vecchia volpe del giornalismo d'inchiesta come Ben Bagdikian, che li porta a Washington in aereo spaiati e chiusi in cartoni; ma il centro del film sono da un lato la redazione del giornale e l'altro cuore pulsante, la tipografia e i reparti rotative e diffusione; dall'altro il rapporto tra Bradlee e Graham, con l'emergere progressivo del personaggio di quest'ultima, interpretato ancora una volta magistralmente, ma stavolta di più, da Merryl Streep, capace come nessuno di esprimere tutte le sfumature di una donna che, insicura e con l'impressione di essere catapultata in un mondo che non l'aveva prevista, fa la scelta giusta e cruciale al momento opportuno e rischiando sia di perdere gli investitori sia che la pubblicazione fosse a sua volta bloccata dalla Corte Suprema. La quale invece sentenziò, in una sentenza storica, che "la stampa serve chi è governato, non chi governa". Perché era lei a rischiare davvero, non lui, come diceva al marito la moglie di Bradlee, una scultrice, quindi un'artista e capace di vedere oltre, chiedendogli di fare un passo indietro e di non asfissiarla: e quindi aveva il diritto di decidere in piena libertà. Un gradino più in basso Tom Hanks, ma solo perché il suo personaggio è meno complesso; ma nel mio cuore il più bravo rimane Bob Odenkirk, nei panni del Wolfe che risolve i problemi, il vero eroe: la bassa manovalanza che è l'anima di un giornale. Bravissimi anche tutti gli altri interpreti, però. Mi ero chiesto quale urgenza avesse mosso Spielberg a riesumare una storia poco ricordata di quasi cinquant'anni fa e perlopiù dimenticata, a parte l'avversione, da bravo liberal, alla presidenza Trump, così simile a quella Nixon anche nelle sue pulsioni contro la stampa. E credo proprio che la sua campana suoni per il mondo dell'informazione, che perfino negli USA non ha più i Bradlee e le Graham di un tempo. Figurarsi da noi, dove non esiste nemmeno un editore puro che sia proprietario di una grande testata. Infine, il film quasi profuma di carta e di inchiostro, e per chi come me ha trascorso buona parte della propria vita lavorativa in un giornale, sono tante le emozioni che tornano a galla e non posso che invitare a condividerle.
Considero Steven Spielberg un grande cineasta, anche se non è mai stato uno dei miei registi preferiti, troppo americano per i miei gusti, e troppo inserito nell'ambiente hollywoodiano di stampo liberal-buonista da jet set per appassionarmi, ed ero curioso di vederlo alla prova con un tema cruciale come quello dei rapporti tra informazione e potere, lui che in ogni suo film ha comunque in qualche modo affrontato il tema della comunicazione. E mi ha convinto. Il film prende le mosse dalla sottrazione di un dossier segreto di 7000 pagine sulle strategie degli USA in Vietnam fin dai tempi di Truman da parte di Daniel Ellsberg, un ex militare ed economista che lavorava per la Rand Corporation ed era stato testimone diretto in loco del massimo sforzo del Pentagono in quella guerra che i vertici sapevano inevitabilmente persa. Nonostante ciò, continuarono a mandare al massacro decine di migliaia di giovani, allora di leva, che ci lasciarono la pelle o furono traumatizzati a vita. Noti come Pentagon Papers, un loro estratto venne pubblicato dal New York Times nel 1971 ma un'ingiunzione da parte della Casa Bianca, presidente Richard Nixon, segretario di Stato Henry Kissinger, impedì che il giornale di Abe Rosenthal continuasse a diffonderli. Lo fece, prendendo il testimone, in nome della libertà di stampa, il Washington Post, nel momento cruciale e delicatissimo del suo passaggio da giornale di élite ma pur sempre locale (District of Columbia) a realtà nazionale, con relativa quotazione in borsa. Rischiando di alienarsi l'appoggio degli investitori, la responsabilità della scelta l'assunse la proprietaria del giornale, Katharine (Kay) Graham, arrivata alla guida dell'azienda di famiglia a causa di un evento tragico: il suicidio del marito, a cui il padre di lei l'aveva affidata. Certo, su sollecitazione del suo direttore, il brillante, carismatico e sanguigno Ben Bradlee, già intimo del clan Kennedy e disilluso quando scopre che anche il "suo" presidente si era comportato come gli altri, anzi: aveva mandato altre truppe a combattere una guerra che sapeva , in base agli studi del Dipartimento della Difesa, persa in partenza. Si tratta dello stesso leggendario direttore che, pochi mesi dopo, diede il via libera ai suoi segugi Bob Woodward e Carl Bernstein sull'affare Watergate: e qui siamo al mito per chiunque si occupi seriamente di giornalismo e ne conosca, anche solo a grandi linee, la storia. E' su questo particolare snodo della vicenda che si concentra il racconto di Spielberg, il quale comunque ordisce una trama da thriller di razza, cominciando dagli antecedenti della sottrazione dei papers fotocopiati uno per uno con le rudimentali macchine d'allora (e poi via di forbici) e proseguendo con la caccia scatenata per recuperarli: vengono mandati in missione a New York prima un praticante, poi una vecchia volpe del giornalismo d'inchiesta come Ben Bagdikian, che li porta a Washington in aereo spaiati e chiusi in cartoni; ma il centro del film sono da un lato la redazione del giornale e l'altro cuore pulsante, la tipografia e i reparti rotative e diffusione; dall'altro il rapporto tra Bradlee e Graham, con l'emergere progressivo del personaggio di quest'ultima, interpretato ancora una volta magistralmente, ma stavolta di più, da Merryl Streep, capace come nessuno di esprimere tutte le sfumature di una donna che, insicura e con l'impressione di essere catapultata in un mondo che non l'aveva prevista, fa la scelta giusta e cruciale al momento opportuno e rischiando sia di perdere gli investitori sia che la pubblicazione fosse a sua volta bloccata dalla Corte Suprema. La quale invece sentenziò, in una sentenza storica, che "la stampa serve chi è governato, non chi governa". Perché era lei a rischiare davvero, non lui, come diceva al marito la moglie di Bradlee, una scultrice, quindi un'artista e capace di vedere oltre, chiedendogli di fare un passo indietro e di non asfissiarla: e quindi aveva il diritto di decidere in piena libertà. Un gradino più in basso Tom Hanks, ma solo perché il suo personaggio è meno complesso; ma nel mio cuore il più bravo rimane Bob Odenkirk, nei panni del Wolfe che risolve i problemi, il vero eroe: la bassa manovalanza che è l'anima di un giornale. Bravissimi anche tutti gli altri interpreti, però. Mi ero chiesto quale urgenza avesse mosso Spielberg a riesumare una storia poco ricordata di quasi cinquant'anni fa e perlopiù dimenticata, a parte l'avversione, da bravo liberal, alla presidenza Trump, così simile a quella Nixon anche nelle sue pulsioni contro la stampa. E credo proprio che la sua campana suoni per il mondo dell'informazione, che perfino negli USA non ha più i Bradlee e le Graham di un tempo. Figurarsi da noi, dove non esiste nemmeno un editore puro che sia proprietario di una grande testata. Infine, il film quasi profuma di carta e di inchiostro, e per chi come me ha trascorso buona parte della propria vita lavorativa in un giornale, sono tante le emozioni che tornano a galla e non posso che invitare a condividerle.
Nessun commento:
Posta un commento