"Il clan" (El clan) di Pablo Trapero. Con Guillermo Francella, Peter Lanzani, Lil Popovich, Gastón Cocchiarale, Giselle Motta, Franco Masini, Antonia Bengoechea e altri. Argentina, Spagna 2015 ★★★★★
Sarà che sono vittima di un pregiudizio positivo nei confronti del cinema argentino di qualità (c'è anche tanta fuffa, come dappertutto, ma le produzioni d'eccellenza sono percentualmente più numerose che da noi e quasi sempre ignorate in Italia, forse proprio perché ci parlano e non c'è peggior sordo di quello che non vuol sentire), ma stavolta sono in totale disaccordo con la livorosa stroncatura che Goffredo Fofi fa su Internazionale del film di Pablo Trapero, viziata, lo ammette lui stesso, dalla "particolare antipatia" che nutre per il regista. Preso dai suoi furori, sembra avere visto un film completamente diverso da quello che ho visto io, che lo giudico uno dei migliori usciti quest'anno, premiato per la regìa col Leone d'Argento a Venezia lo scorso anno e vincitore del Premio Goya come miglior film latinoamericano, mica bruscoli: all'altezza de "Il segreto dei suoi occhi", vincitore dell'Oscar come miglior film straniero nel 2010. La pellicola narra con grande fedeltà la vicenda della famiglia Puccio, "Il clan" per l'appunto che, a cavallo tra il 1982 e il 1985, effettuò quattro sequestri di facoltosi imprenditori a scopo di estorsione, finiti con la loro brutale eliminazione una volta incassato il riscatto, tranne l'ultimo, quello dell'imprenditrice Nélida Bollini de Prado, per la quale non fu versata alcuna somma e che fu liberata dalla polizia, che cominciava a nutrire sospetti, nella cantina della villetta della famiglia Puccio, tutta coinvolta, assieme a un gruppetto di amici di totale fiducia: di fatto, un clan mafioso. Una vicenda che ha fatto epoca, in Argentina, anche perché quella dei Puccio non era una famiglia qualsiasi: Arquímedes, il capoclan, contabile e funzionario di Stato, ai tempi il più giovane diplomatico del Paese e in seguito agente della SIDE (il servizio segreto) e membro della "Triple A", Aleanza Anticomunista Argentina, e appartenente al Batallón de Intelligencia 601, particolarmente attivo nella Guerra Sucia e nella famigerata Operación Cóndor orchestrata in America Latina dagli USA negli anni Settanta; suo figlio maggiore, Alejandro, era un tre quarti ala più volte campione d'Argentina di rugby con il Club Atlético San Isidro nonché titolare della selezione nazionale, i mitici Pumas; la moglie, Epifania, era una rispettata insegnante, e uno solo degli altri quattro figli, Guillermo, si rifiutò di farsi coinvolgere e non tornò da una trasferta sportiva in Svezia, ma non denunciò gli altri. Con l'utilizzo di efficaci flash-back e forward, Trapero non solo ricostruisce minuziosamente la vicenda, ma la inquadra molto efficacemente nell'epoca in cui si svolgeva: gli ultimi mesi della dittatura, il ritorno di una fragile democrazia col governo Alfonsín (il migliore che il Paese abbia avuto negli ultimi quarant'anni), sempre sotto minaccia di golpe e il riciclarsi, nel corpaccione di uno Stato corrotto, dei funzionari civili e apparati militari e polizieschi compromessi con la dicta-dura senza la cui protezione Puccio non avrebbe mai potuto né ideare né compiere le sue azioni criminali, che peraltro ricalcavano fedelmente le modalità dei sequestri dei desaparecidos, circa trentamila durante la "guerra sporca", a cui spesso venivano sequestrati i beni o estorti danari ai parenti, per non parlare dei figli nati in "detenzione" e dati in adozione alle famiglie dei militari. Scrive Fofi che "l’indignazione e la denuncia diventano concione, diventano spettacolo", ma trattasi appunto di un film, non di un saggio storico-sociologico, e del film Il clan ha le modalità, senza tanti americanismi e pure col pregio di attingere a generi diversi amalgamandoli con notevole equilibrio, e che "non sempre tutto il marcio è esterno a noi, come è sempre gratificante pensare": è esattamente quel che Trapero non fa: descrivendo proprio la "normalità" quotidiana di questa famiglia contigua a quella di chi sapeva e la copriva, perché dedito ai medesimi o altri orrori, non ha bisogno di fare proclami ed esibire indignazioni proprio perché l'orrore è lì davanti, nella sua normalità o "banalità": lascia parlare i volti degli interpreti, tutti bravissimi e spesso inquietanti, sopra a tutti Guillermo Francella, autore di una prestazione impressionante, chiamando semmai a fare i conti con sé stessa tutta la società argentina, così pronta, nella sua maggior parte, come quella italiana, del resto, cui è strettamente apparentata, a plaudire l'uomo forte di turno, adeguarsi e far finta di non vedere il presente, figurarsi il passato. A Fofi non sta bene nemmeno la colonna sonora, "musicastra tutta ed esclusivamente e rabbiosamente yanki" (che peraltro si scrive yanqui alla castigliana oppure yankee all'inglese), dimenticando che era quella che trasmetteva allora la radio argentina, e che quasi sempre, col volume al massimo, serviva a soffocare le grida dei sequestrati nei vari centri di detenzione clandestini, come hanno testimoniato coloro che ne sono scampati, ed era un altro dei metodi che Puccio aveva mutuato dalla sua esperienza di sequestratore per conto dello Stato, ma questo all'astioso critico eugubino è sfuggito, come il fatto che se Trapero avesse voluto fare un'americanata non avrebbe girato questo film e realizzandolo così. Che poi l'Argentina non sia, a suo modo, America (gli USA ne sono solo una piccola parte) rimane un'opinione di Fofi, non suffragata dai fatti né dalla geografia.
Sarà che sono vittima di un pregiudizio positivo nei confronti del cinema argentino di qualità (c'è anche tanta fuffa, come dappertutto, ma le produzioni d'eccellenza sono percentualmente più numerose che da noi e quasi sempre ignorate in Italia, forse proprio perché ci parlano e non c'è peggior sordo di quello che non vuol sentire), ma stavolta sono in totale disaccordo con la livorosa stroncatura che Goffredo Fofi fa su Internazionale del film di Pablo Trapero, viziata, lo ammette lui stesso, dalla "particolare antipatia" che nutre per il regista. Preso dai suoi furori, sembra avere visto un film completamente diverso da quello che ho visto io, che lo giudico uno dei migliori usciti quest'anno, premiato per la regìa col Leone d'Argento a Venezia lo scorso anno e vincitore del Premio Goya come miglior film latinoamericano, mica bruscoli: all'altezza de "Il segreto dei suoi occhi", vincitore dell'Oscar come miglior film straniero nel 2010. La pellicola narra con grande fedeltà la vicenda della famiglia Puccio, "Il clan" per l'appunto che, a cavallo tra il 1982 e il 1985, effettuò quattro sequestri di facoltosi imprenditori a scopo di estorsione, finiti con la loro brutale eliminazione una volta incassato il riscatto, tranne l'ultimo, quello dell'imprenditrice Nélida Bollini de Prado, per la quale non fu versata alcuna somma e che fu liberata dalla polizia, che cominciava a nutrire sospetti, nella cantina della villetta della famiglia Puccio, tutta coinvolta, assieme a un gruppetto di amici di totale fiducia: di fatto, un clan mafioso. Una vicenda che ha fatto epoca, in Argentina, anche perché quella dei Puccio non era una famiglia qualsiasi: Arquímedes, il capoclan, contabile e funzionario di Stato, ai tempi il più giovane diplomatico del Paese e in seguito agente della SIDE (il servizio segreto) e membro della "Triple A", Aleanza Anticomunista Argentina, e appartenente al Batallón de Intelligencia 601, particolarmente attivo nella Guerra Sucia e nella famigerata Operación Cóndor orchestrata in America Latina dagli USA negli anni Settanta; suo figlio maggiore, Alejandro, era un tre quarti ala più volte campione d'Argentina di rugby con il Club Atlético San Isidro nonché titolare della selezione nazionale, i mitici Pumas; la moglie, Epifania, era una rispettata insegnante, e uno solo degli altri quattro figli, Guillermo, si rifiutò di farsi coinvolgere e non tornò da una trasferta sportiva in Svezia, ma non denunciò gli altri. Con l'utilizzo di efficaci flash-back e forward, Trapero non solo ricostruisce minuziosamente la vicenda, ma la inquadra molto efficacemente nell'epoca in cui si svolgeva: gli ultimi mesi della dittatura, il ritorno di una fragile democrazia col governo Alfonsín (il migliore che il Paese abbia avuto negli ultimi quarant'anni), sempre sotto minaccia di golpe e il riciclarsi, nel corpaccione di uno Stato corrotto, dei funzionari civili e apparati militari e polizieschi compromessi con la dicta-dura senza la cui protezione Puccio non avrebbe mai potuto né ideare né compiere le sue azioni criminali, che peraltro ricalcavano fedelmente le modalità dei sequestri dei desaparecidos, circa trentamila durante la "guerra sporca", a cui spesso venivano sequestrati i beni o estorti danari ai parenti, per non parlare dei figli nati in "detenzione" e dati in adozione alle famiglie dei militari. Scrive Fofi che "l’indignazione e la denuncia diventano concione, diventano spettacolo", ma trattasi appunto di un film, non di un saggio storico-sociologico, e del film Il clan ha le modalità, senza tanti americanismi e pure col pregio di attingere a generi diversi amalgamandoli con notevole equilibrio, e che "non sempre tutto il marcio è esterno a noi, come è sempre gratificante pensare": è esattamente quel che Trapero non fa: descrivendo proprio la "normalità" quotidiana di questa famiglia contigua a quella di chi sapeva e la copriva, perché dedito ai medesimi o altri orrori, non ha bisogno di fare proclami ed esibire indignazioni proprio perché l'orrore è lì davanti, nella sua normalità o "banalità": lascia parlare i volti degli interpreti, tutti bravissimi e spesso inquietanti, sopra a tutti Guillermo Francella, autore di una prestazione impressionante, chiamando semmai a fare i conti con sé stessa tutta la società argentina, così pronta, nella sua maggior parte, come quella italiana, del resto, cui è strettamente apparentata, a plaudire l'uomo forte di turno, adeguarsi e far finta di non vedere il presente, figurarsi il passato. A Fofi non sta bene nemmeno la colonna sonora, "musicastra tutta ed esclusivamente e rabbiosamente yanki" (che peraltro si scrive yanqui alla castigliana oppure yankee all'inglese), dimenticando che era quella che trasmetteva allora la radio argentina, e che quasi sempre, col volume al massimo, serviva a soffocare le grida dei sequestrati nei vari centri di detenzione clandestini, come hanno testimoniato coloro che ne sono scampati, ed era un altro dei metodi che Puccio aveva mutuato dalla sua esperienza di sequestratore per conto dello Stato, ma questo all'astioso critico eugubino è sfuggito, come il fatto che se Trapero avesse voluto fare un'americanata non avrebbe girato questo film e realizzandolo così. Che poi l'Argentina non sia, a suo modo, America (gli USA ne sono solo una piccola parte) rimane un'opinione di Fofi, non suffragata dai fatti né dalla geografia.
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