"The Beatles - Eight Days A Week (The Touring Years)" di Ron Howard. Con Paul McCartney, Ringo Starr, John Lennon, George Harrison. USA 2016 ★★★★★
Nelle sale solamente fino a domani e distribuito da Lucky Red, questo film biografico sulla band che è stata lo specchio di una generazione, quella dei baby boomers, e che ha simboleggiato l'entrata in scena dei giovani come categoria a sé stante e come soggetto sociale autonomo (anche e soprattutto come un target di consumatori, come capirono immediatamente i grandi monopoli), è sostanzialmente un ottimo e imperdibile documentario sugli anni in tour dei Beatles, quelli tra i loro esordi nel 1962 tra Liverpool e Amburgo e il loro ultimo concerto dal vivo al termine della controversa tournée negli USA del 1966 al Candlestick Park di San Francisco (se si eccettua l'ultima esibizione dal vivo nel gennaio del 1969 sui tetti della Apple Records in Savile Road a Londra). L'interesse non è tanto e solo per la parte musicale, che emerge da filmati in buona parte inediti cercati con cura e proposti con parsimoniosa attenzione da Ron Howard e il cui suono è stato ripulito quanto possibile: le esibizioni dal vivo dell'epoca non sono giudicabili a causa sia della modestia dei sistemi di amplificazione e registrazione dei tempi, sia, soprattutto, per gli assordanti squittii delle fan letteralmente in preda a crisi di isteria collettiva ovunque facessero la loro apparizione i Beatles, anche se a me viene il sospetto, dal poco che si riesce a capire, che non fossero un granché nella dimensione live. Sia quel che sia, dopo cinque anni di esibizioni in giro per il mondo a ritmi forsennati i quattro, il cui format, a cominciare dal look, venne inventato dal loro manager Brian Epstein, per riuscire a produrre la musica che volevano e ritrovare sé stessi decisero all'unanimità di mollare il "circo" e di dedicarsi all'attività in studio. Ciò che riuscì a tenerli insieme nel periodo più vorticoso fu non solo l'entusiasmo ma soprattutto la profonda amicizia che li legava fin da ragazzi, il cui formare gruppo aveva sostituito per anni quello della famiglia, motivo per cui prendevano sempre qualsiasi decisione di comune accordo, da qui il cameratismo e l'atmosfera giocosa al motto di "Tutti per uno, uno per tutti", che consentì loro di sopravvivere alla fase iniziale prendendola come fosse un gioco; a detta di loro stessi, dopo un po' cominciarono a sentire addosso un'eccesso di aspettativa che li cannibalizzava, sia da parte del pubblico sia soprattutto della stampa, oltre alla coscienza di essere stati cancellati come individui, che però nel frattempo erano cresciuti diventando uomini da ragazzi che erano agli esordi, ognuno con preferenze, modi e idee diverse. E' questo "dietro le quinte" che racconta il film, con calibrati interventi dei due sopravvissuti, Paul e Ringo, e spezzoni di interviste agli altri due purtroppo prematuramente scomparsi nonché ad alcuni personaggi noti, tra cui il concittadino Elvis Costello o l'attrice afroamericana Woopi Goldberg. E che spiega bene una mia impressione: che, almeno nella prima fase, quella che i Beatles non fossero poi questi grandi innovatori da un punto di vista musicale: non ne avevano nemmeno il tempo, durante i tumultuosi touring years; lo furono invece come approccio alla musica e, soprattutto, furono un enorme fenomeno di costume e culturale (curiosamente nel 1964 alla domanda di un giornalista se si rendessero conto di esserlo, Paul McCartney rispose "macché cultura, è solo divertimento"), il primo di dimensione globale (e loro malgrado: fu proprio questa la causa primaria del loro scioglimento); innovatori lo diventarono quando posero termine alle loro esibizioni dal vivo e si dedicarono al lavoro che preferivano, in cui si scatenava la loro creatività e in cui riuscivano a dare il meglio: in sala di registrazione, nei mitici studi di Abbey Road. Un film da non perdere per chiunque ami la musica, e, se non ha l'età del dattero, voglia capire qualcosa di quegli anni. E se lo dice un "rollingstoniano" di ferro come me, potete fidarvi.
Nelle sale solamente fino a domani e distribuito da Lucky Red, questo film biografico sulla band che è stata lo specchio di una generazione, quella dei baby boomers, e che ha simboleggiato l'entrata in scena dei giovani come categoria a sé stante e come soggetto sociale autonomo (anche e soprattutto come un target di consumatori, come capirono immediatamente i grandi monopoli), è sostanzialmente un ottimo e imperdibile documentario sugli anni in tour dei Beatles, quelli tra i loro esordi nel 1962 tra Liverpool e Amburgo e il loro ultimo concerto dal vivo al termine della controversa tournée negli USA del 1966 al Candlestick Park di San Francisco (se si eccettua l'ultima esibizione dal vivo nel gennaio del 1969 sui tetti della Apple Records in Savile Road a Londra). L'interesse non è tanto e solo per la parte musicale, che emerge da filmati in buona parte inediti cercati con cura e proposti con parsimoniosa attenzione da Ron Howard e il cui suono è stato ripulito quanto possibile: le esibizioni dal vivo dell'epoca non sono giudicabili a causa sia della modestia dei sistemi di amplificazione e registrazione dei tempi, sia, soprattutto, per gli assordanti squittii delle fan letteralmente in preda a crisi di isteria collettiva ovunque facessero la loro apparizione i Beatles, anche se a me viene il sospetto, dal poco che si riesce a capire, che non fossero un granché nella dimensione live. Sia quel che sia, dopo cinque anni di esibizioni in giro per il mondo a ritmi forsennati i quattro, il cui format, a cominciare dal look, venne inventato dal loro manager Brian Epstein, per riuscire a produrre la musica che volevano e ritrovare sé stessi decisero all'unanimità di mollare il "circo" e di dedicarsi all'attività in studio. Ciò che riuscì a tenerli insieme nel periodo più vorticoso fu non solo l'entusiasmo ma soprattutto la profonda amicizia che li legava fin da ragazzi, il cui formare gruppo aveva sostituito per anni quello della famiglia, motivo per cui prendevano sempre qualsiasi decisione di comune accordo, da qui il cameratismo e l'atmosfera giocosa al motto di "Tutti per uno, uno per tutti", che consentì loro di sopravvivere alla fase iniziale prendendola come fosse un gioco; a detta di loro stessi, dopo un po' cominciarono a sentire addosso un'eccesso di aspettativa che li cannibalizzava, sia da parte del pubblico sia soprattutto della stampa, oltre alla coscienza di essere stati cancellati come individui, che però nel frattempo erano cresciuti diventando uomini da ragazzi che erano agli esordi, ognuno con preferenze, modi e idee diverse. E' questo "dietro le quinte" che racconta il film, con calibrati interventi dei due sopravvissuti, Paul e Ringo, e spezzoni di interviste agli altri due purtroppo prematuramente scomparsi nonché ad alcuni personaggi noti, tra cui il concittadino Elvis Costello o l'attrice afroamericana Woopi Goldberg. E che spiega bene una mia impressione: che, almeno nella prima fase, quella che i Beatles non fossero poi questi grandi innovatori da un punto di vista musicale: non ne avevano nemmeno il tempo, durante i tumultuosi touring years; lo furono invece come approccio alla musica e, soprattutto, furono un enorme fenomeno di costume e culturale (curiosamente nel 1964 alla domanda di un giornalista se si rendessero conto di esserlo, Paul McCartney rispose "macché cultura, è solo divertimento"), il primo di dimensione globale (e loro malgrado: fu proprio questa la causa primaria del loro scioglimento); innovatori lo diventarono quando posero termine alle loro esibizioni dal vivo e si dedicarono al lavoro che preferivano, in cui si scatenava la loro creatività e in cui riuscivano a dare il meglio: in sala di registrazione, nei mitici studi di Abbey Road. Un film da non perdere per chiunque ami la musica, e, se non ha l'età del dattero, voglia capire qualcosa di quegli anni. E se lo dice un "rollingstoniano" di ferro come me, potete fidarvi.
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