"A proposito di Davis" (Inside Llewyn Davis) di Joel ed Ethan Coen. Con Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, Ethan Phillips, Robert Bartlett e altri. USA, Francia 2013 ★★-
Sì, va beh, però che palle... Nessun dubbio che i fratelli Coen siano in grado di confezionare un buon prodotto, ci sappiano fare con la macchina da presa e con la sceneggiatura, abbiano un occhio particolarmente acuto e felice nello scegliere gli interpreti dei loro personaggi straniti, spesso tartassati dal destino, e il volenteroso Oscar Isaac è adeguato a mettersi nei panni di questo menestrello, uno sfigato di prima categoria che tenta la fortuna nei locali del Greenwich Village di New York dove si suona musica folk, frequentati da intellettuali rétro nei primi anni Sessanta, la cui carriera si incrocia - anche nella pellicola - con quella di Bon Dylan, che avrebbe rivoltato il genere come un calzino, dandogli nuova vita. E' un perdente nato, il Llewyn Davis di cui si tratta, ispirato a un folksinger davvero esistito, Dave Van Ronk, che però non fa nulla per non esserlo: ospitato su divani di amici e conoscenti quando soggiorna a New York, è una specie di Re Mida all'incontrario, che trasforma in merda tutto quel che tocca, come gli rinfaccia Jean, la parte femminile di una coppia di colleghi che lo ospita e che ha incautamente messo incinta; perde il gatto di un'altra coppia di amici (citazione abbastanza banale di "Colazione da Tiffany"; uscito nel 1961, lo stesso anno in cui è ambientata vicenda di LLewyn Davis) perché oltre a essere introverso e infelice è pure un menefreghista e un ingrato, spesso anche aggressivo e supponente, perde perfino i documenti che gli servono per tornare alla sua vecchia vita di marinaio quando capirà, dopo un provino a Chicago con un produttore di fama, che non ha un futuro artistico perché, come gli dice, è sì bravo, "ma con quella roba non fai soldi". Ha una sua coerenza, l'uomo; non vuole scendere a compromessi, senza rendersi conto che ciò che suona e canta appartiene a un altra epoca (Elvis Presley domina la scena orma da qualche anno, Dylan è all'orizzonte e lo seguirà sullo stesso palco del localino malfamato in cui si esibisce solo perché il proprietario, che ne sopporta le intemperanze suo malgrado, nutre affetto per lui) e non fa nulla per rendersi gradevole, e fin qui ci siamo. Come anche con la descrizione dei vari ambienti umani che vengono rappresentati: quello che sempre si ripete sono la sequela di losers, le solite facce assurde, la circolarità ossessiva, ormai un luogo comune, la ripetitività delle situazioni, col risultato che non ci si libera per un momento da quel senso di stantìo che invariabilmente emana dal cinema dei fratelli Coen e che dopo aver affascinato finisce per stancare, convincendo sempre più che può variare l'ordine dei fattori senza che cambi il prodotto. Che è quasi sempre più che dignitoso (inscì avèghen!), talvolta geniale, altre tendente al fiacco. Come in questa occasione.
Sì, va beh, però che palle... Nessun dubbio che i fratelli Coen siano in grado di confezionare un buon prodotto, ci sappiano fare con la macchina da presa e con la sceneggiatura, abbiano un occhio particolarmente acuto e felice nello scegliere gli interpreti dei loro personaggi straniti, spesso tartassati dal destino, e il volenteroso Oscar Isaac è adeguato a mettersi nei panni di questo menestrello, uno sfigato di prima categoria che tenta la fortuna nei locali del Greenwich Village di New York dove si suona musica folk, frequentati da intellettuali rétro nei primi anni Sessanta, la cui carriera si incrocia - anche nella pellicola - con quella di Bon Dylan, che avrebbe rivoltato il genere come un calzino, dandogli nuova vita. E' un perdente nato, il Llewyn Davis di cui si tratta, ispirato a un folksinger davvero esistito, Dave Van Ronk, che però non fa nulla per non esserlo: ospitato su divani di amici e conoscenti quando soggiorna a New York, è una specie di Re Mida all'incontrario, che trasforma in merda tutto quel che tocca, come gli rinfaccia Jean, la parte femminile di una coppia di colleghi che lo ospita e che ha incautamente messo incinta; perde il gatto di un'altra coppia di amici (citazione abbastanza banale di "Colazione da Tiffany"; uscito nel 1961, lo stesso anno in cui è ambientata vicenda di LLewyn Davis) perché oltre a essere introverso e infelice è pure un menefreghista e un ingrato, spesso anche aggressivo e supponente, perde perfino i documenti che gli servono per tornare alla sua vecchia vita di marinaio quando capirà, dopo un provino a Chicago con un produttore di fama, che non ha un futuro artistico perché, come gli dice, è sì bravo, "ma con quella roba non fai soldi". Ha una sua coerenza, l'uomo; non vuole scendere a compromessi, senza rendersi conto che ciò che suona e canta appartiene a un altra epoca (Elvis Presley domina la scena orma da qualche anno, Dylan è all'orizzonte e lo seguirà sullo stesso palco del localino malfamato in cui si esibisce solo perché il proprietario, che ne sopporta le intemperanze suo malgrado, nutre affetto per lui) e non fa nulla per rendersi gradevole, e fin qui ci siamo. Come anche con la descrizione dei vari ambienti umani che vengono rappresentati: quello che sempre si ripete sono la sequela di losers, le solite facce assurde, la circolarità ossessiva, ormai un luogo comune, la ripetitività delle situazioni, col risultato che non ci si libera per un momento da quel senso di stantìo che invariabilmente emana dal cinema dei fratelli Coen e che dopo aver affascinato finisce per stancare, convincendo sempre più che può variare l'ordine dei fattori senza che cambi il prodotto. Che è quasi sempre più che dignitoso (inscì avèghen!), talvolta geniale, altre tendente al fiacco. Come in questa occasione.
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